C-200/90 - Dansk Denkavit and Poulsen Trading v Skatteministeriet

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EUR-Lex - 61990C0200 - IT

61990C0200

Conclusioni dell'avvocato generale Tesauro del 30 gennaio 1992. - DANSK DENKAVIT APS E P. POULSEN TRADING APS, SOSTENUTE DA MONSANTO-SEARLE A/S CONTRO SKATTEMINISTERIET. - DOMANDA DI PRONUNCIA PREGIUDIZIALE: OESTRE LANDSRET - DANIMARCA. - ART. 33 DELLA SESTA DIRETTIVA IVA - EFFICACIA DIRETTA - IMPOSTA SULLA CIFRA D'AFFARI - LEGGE SUL CONTRIBUTO A SOSTEGNO DEL MERCATO DEL LAVORO. - CAUSA C-200/90.

raccolta della giurisprudenza 1992 pagina I-02217
edizione speciale svedese pagina I-00013
edizione speciale finlandese pagina I-00043


Conclusioni dell avvocato generale


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Signor Presidente,

Signori Giudici,

1. Il giudice nazionale pone quattro quesiti pregiudiziali relativi all' interpretazione dell' art. 33 della sesta direttiva IVA (1), nonché dell' art. 9 e seguenti e dell' art. 95 del Trattato.

Tali questioni sono state sollevate nell' ambito di azioni, introdotte da due ditte danesi, dirette ad ottenere il rimborso dell' imposta istituita dal Regno di Danimarca con legge 18 dicembre 1987, n. 840.

2. L' imposta di cui trattasi, denominata "contributo di sostegno al mercato del lavoro" (in prosieguo: il "contributo"), è stata introdotta per compensare il minore introito derivato al bilancio dello Stato da provvedimenti di fiscalizzazione degli oneri sociali adottati per rilanciare la competitività - soprattutto estera - delle imprese danesi.

Dall' ordinanza di rinvio risulta che il contributo presenta le seguenti caratteristiche.

Esso si applica alle cessioni di beni ed alle prestazioni di servizi soggette ad IVA, nonché ad una serie di attività esentate dall' IVA (fra cui, in particolare, i servizi bancari ed assicurativi).

Per le imprese soggette ad IVA, il calcolo della base imponibile del contributo avviene secondo le stesse regole previste per l' IVA. Si applica dunque il principio della detrazione dell' imposta pagata a monte.

Per le imprese esenti dall' IVA, la base imponibile è determinata, se possibile, sul valore delle vendite detratto il valore degli acquisti; altrimenti, essa viene definita secondo un criterio forfettario, applicando una maggiorazione del 90% alla massa salariale dell' impresa.

L' aliquota del contributo è fissata al 2,5% della base imponibile.

Diversamente dall' IVA, il contributo non è pagato sulle importazioni, bensì sulla successiva commercializzazione da parte delle imprese importatrici. Dal momento che le importazioni non sono soggette al contributo, non si procede ad alcuna detrazione all' atto della prima commercializzazione delle merci importate.

Il contributo non viene fatturato distintamente.

3. Il primo quesito posto dal giudice nazionale verte sulla compatibilità dell' imposta di cui trattasi rispetto all' art. 33 della sesta direttiva. Ricordiamo, incidentalmente, che un ricorso per inadempimento, avente ad oggetto la medesima questione, è stato introdotto dalla Commissione ed è attualmente pendente dinanzi alla Corte (trattasi della causa C-234/91).

4. L' art. 33, che fa parte del Titolo XVIII, "Disposizioni diverse", della sesta direttiva, dispone che:

"Fatte salve le altre disposizioni di diritto comunitario, le disposizioni della presente direttiva non vietano ad uno Stato membro di mantenere o introdurre imposte sui contratti di assicurazione, imposte sui giochi e sulle scommesse, accise, imposte di registro e, più in generale, qualsiasi imposta, diritto e tassa che non abbia il carattere d' imposta sulla cifra d' affari".

5. Risulta dal testo della norma che l' art. 33, se da un lato consente agli Stati membri, nell' esercizio della loro sovranità fiscale, di cumulare l' IVA con altre imposte, diritti o tasse (v. sentenza 8 luglio 1986, Kerrut, causa 73/85, Racc. pag. 2219), dall' altro tassativamente vieta l' istituzione di tributi che abbiano "il carattere d' imposta sulla cifra di affari".

La portata di tale divieto, secondo una costante giurisprudenza (v. sentenze 27 novembre 1985, Rousseau Wilmot, causa 295/84, Racc. pag. 3759, e 13 luglio 1989, Wisselink, cause riunite 93/88 e 94/88, Racc. pag. 2671), deve essere determinata alla luce della funzione che l' art. 33 assume nell' ambito del sistema armonizzato dell' imposta sulla cifra di affari sotto forma di sistema comune d' imposta sul valore aggiunto.

Ora, come si evince già dalla prima direttiva IVA (2), l' armonizzazione realizzata in questo settore si è prefissa l' eliminazione dei sistemi d' imposta cumulativa a cascata e l' adozione, da parte di tutti gli Stati membri, di un sistema comune di imposta sul valore aggiunto (v. quarto 'considerando' ). Un tale regime armonizzato mira in particolare ad assicurare che una stessa transazione commerciale sia sottoposta a disposizioni fiscali uniformi, per quanto riguarda l' imposta sulla cifra di affari, quale che sia lo Stato membro dove detta transazione viene effettuata (v. sentenza 3 marzo 1988, Bergandi, causa 252/86, Racc. pag. 1343).

In vista di tale obiettivo la prima e la seconda direttiva IVA (3) dispongono che gli Stati membri sostituiscono il loro sistema d' imposta sulla cifra di affari con il sistema comune di imposta sul valore aggiunto.

Considerato in tale contesto, l' art. 33 mira appunto a garantire il corretto funzionamento del sistema comune, proibendo espressamente agli Stati membri, cui viene contestualmente riconosciuta la competenza ad istituire tributi diversi dall' IVA, di introdurre o mantenere in vigore, unilateralmente, imposte che dell' IVA presentino le caratteristiche essenziali e che pertanto si sovrappongano a quest' ultima alterando l' unità del sistema.

Che questa sia la ratio dell' art. 33 risulta con chiarezza dalla giurisprudenza della Corte. Nella citata sentenza Rousseau Wilmot, si rileva infatti che la disposizione in parola, lasciando liberi gli Stati di mantenere in vigore o istituire determinati tributi, come le imposte indirette, a condizione che non si tratti di tributi aventi "il carattere d' imposta sulla cifra d' affari", si propone di impedire che il sistema comune dell' IVA sia leso da provvedimenti fiscali di uno Stato membro che gravano sulla circolazione dei beni e dei servizi e colpiscono i negozi commerciali in modo analogo a quello che caratterizza l' IVA.

In termini simili si è espressa la Corte nella ricordata sentenza Bergandi, ove si dichiara che l' art. 33 deve essere interpretato nel senso che, a decorrere dall' istituzione del sistema comune di IVA, gli Stati membri non possono più colpire le cessioni di beni, le prestazioni di servizi o le importazioni soggette all' IVA con imposte, diritti o tasse che abbiano la natura di imposte sulla cifra d' affari.

6. Venendo ora a esaminare la portata dell' art. 33, va anzitutto rilevato che detta disposizione non definisce la nozione di tributo avente "il carattere d' imposta sulla cifra di affari".

Va da sé che - come precisato nella sentenza Bergandi - la nozione ha natura comunitaria, per il fatto che è coinvolta nella realizzazione dello scopo perseguito dall' art. 33, che è quello di garantire la piena efficacia del sistema comune di IVA.

Ora, il principio che informa tale sistema consiste, in forza dell' art. 2 della prima direttiva, nell' applicare ai beni ed ai servizi, fino alla fase della vendita al minuto, un' imposta generale di consumo esattamente proporzionale ai prezzi dei beni e dei servizi, indipendentemente dal numero di passaggi effettuati nelle fasi di produzione e di distribuzione precedenti la fase gravata da imposta. Tuttavia, a ciascun passaggio l' imposta sul valore aggiunto si può esigere solo previa detrazione dell' IVA che ha gravato direttamente sul costo dei vari fattori che compongono il prezzo; il sistema delle detrazioni è disciplinato dall' art. 17, n. 2, della sesta direttiva, in modo che i soggetti passivi siano autorizzati a detrarre dall' IVA da essi dovuta gli importi dell' IVA che già hanno gravato sui beni a monte (v. sentenze Rousseau Wilmot, Bergandi, Wisselink e, da ultimo, 19 marzo 1991, Giant, causa C-109/90, Racc. pag. I-1385).

Alla luce di tale contesto normativo la Corte ha sinora stimato che la nozione di tributo avente "il carattere di imposta sulla cifra d' affari" vada definita essenzialmente in considerazione di tre elementi (v. sentenza Giant):

- la generalità dell' imposta, vale a dire la circostanza che questa si applichi, in principio, a tutte le transazioni aventi ad oggetto la cessione di beni e la prestazione di servizi;

- la percezione dell' imposta ad ogni stadio del processo di produzione e distribuzione;

- la sua incidenza sul solo valore aggiunto in forza della detrazione dell' imposta versata a monte.

7. Ebbene, il contributo litigioso corrisponde perfettamente ai tratti distintivi delineati dalla giurisprudenza. In primo luogo, esso si presenta, all' evidenza, come un' imposta generale riscossa sulle cessioni di beni e prestazioni di servizi. Il suo campo di applicazione, anzi, si presenta persino più ampio di quello della stessa IVA, nella misura in cui si estende a settori esentati da quest' ultima. La circostanza che le importazioni non siano tassate è al riguardo ininfluente, nella misura in cui le merci importate risultano comunque soggette all' imposta ad ogni successivo stadio di commercializzazione.

In secondo luogo, il contributo costituisce, secondo le stesse allegazioni del governo danese, un' imposta "a cascata" sulla cifra di affari, riscossa ad ogni stadio della catena di commercializzazione e la cui base imponibile, analogamente a quanto previsto per l' IVA, viene determinata a partire dai proventi realizzati dalle imprese interessate. Quanto poi alla circostanza che in alcuni casi l' imposta sia determinata secondo un criterio forfettario (vale a dire in base alla massa salariale aumentata di una determinata percentuale), va rilevato che detto criterio risponde comunque allo scopo di ricostruire l' ammontare presunto dei proventi delle imprese di cui trattasi e che, come confermato dalla giurisprudenza della Corte, in particolare nella sentenza Bergandi, la natura di imposta sulla cifra di affari ai sensi dell' art. 33 può essere riconosciuta ad un' imposta forfettaria qualora - come si verifica appunto nel caso di specie - il suo ammontare sia stabilito mediante la valutazione obiettiva dei prevedibili ricavi dell' impresa.

In terzo luogo, è egualmente evidente che il contributo gravi sul solo valore aggiunto allo stadio di ogni transazione, dal momento che, ad ogni passaggio, l' imposta dovuta è in linea di principio calcolata previa detrazione dell' imposta versata a monte.

Alla luce di tali considerazioni, mi sembra che il contributo litigioso debba essere qualificato come un' imposta sulla cifra di affari ai sensi dell' art. 33 della sesta direttiva.

8. Questa conclusione - a mio avviso - non è infirmata dalle contestazioni opposte dal governo danese.

La prima di tali contestazioni riguarda l' interpretazione dell' art. 33. Secondo il governo danese, la norma vieterebbe soltanto le imposte che distorcono la concorrenza ovvero che alterano il sistema comune IVA, vuoi perché si sostituiscono, in tutto o in parte, all' IVA, vuoi perché influiscono sulle sue modalità di funzionamento. Per contro, l' art. 33 non vieterebbe la semplice istituzione di imposte sulla cifra di affari "a cascata" che presentino caratteristiche analoghe al sistema IVA.

Questa contestazione è da respingere, in quanto si fonda su un' interpretazione errata dell' art. 33.

La portata del divieto sancito da detta norma non si limita invero alle sole imposte distorsive o sostitutive dell' IVA che, del resto, risulterebbero comunque incompatibili con il sistema comune anche in mancanza dell' art. 33. Al contrario, come si evince chiaramente dalla giurisprudenza dianzi richiamata - ed in particolare dalle sentenze Rousseau Wilmot e Bergandi - l' art. 33 sancisce un divieto assoluto di cumulo fra l' IVA e le imposte nazionali che, come il contributo litigioso, "gravino sulla circolazione dei beni e dei servizi e colpiscano i negozi commerciali in modo analogo a quello che caratterizza l' IVA".

Al riguardo, va anche rilevato che la funzione di norma anticumulo che l' art. 33 viene ad assumere nell' ambito del sistema comune si presenta, in prospettiva, di crescente importanza. Man mano, infatti, che verrà realizzata l' armonizzazione delle aliquote IVA, la permanenza di imposte nazionali, sostanzialmente analoghe all' IVA, implicherebbe l' applicazione di una distinta aliquota che si aggiunge alle aliquote comuni, consentendo così di eludere il regime armonizzato.

D' altra parte, va altresì sottolineato che il contributo in questione, pur gravando sulle transazioni in modo analogo all' IVA, è retto esclusivamente dalle norme nazionali e che queste norme non coincidono con quelle del sistema comune per quanto riguarda, ad esempio, il novero delle attività esentate. Queste possibili discrepanze di regime fra due imposte, l' una comunitaria, l' altra nazionale, che presentano tuttavia la stessa natura e che sono destinate ad incidere, secondo le stesse modalità, sulle stesse transazioni, dimostrano che la sovrapposizione fra IVA ed imposte nazionali analoghe è tutt' altro che ininfluente sull' uniformità di funzionamento del sistema comune.

In secondo luogo, il governo danese contesta che il contributo litigioso presenti caratteristiche analoghe all' IVA, tenuto conto delle segnalate differenze di regime fra le due imposte.

A questa obiezione si è già risposto al punto 7 delle conclusioni. In questa sede, mi limiterò ad aggiungere schematicamente quanto segue:

- il governo danese riconosce che, in luogo del contributo, si sarebbe potuto semplicemente aumentare l' aliquota IVA; del resto, il giorno precedente l' udienza è stato presentato dal governo un progetto di legge che sostituisce il contributo con un aumento dell' IVA, e l' intercambiabilità fra i due strumenti ne conferma l' analogia;

- solo considerazioni economiche (consistenti principalmente in un' asserita minore incidenza sui prezzi di un' imposta non fatturata distintamente) avrebbero determinato, all' epoca, la preferenza del governo per l' istituzione del contributo, invece di un' aumento dell' IVA; tuttavia è evidente, e trova del resto conferma nella giurisprudenza della Corte, che "i motivi e le circostanze dell' adozione di un' imposta nazionale nell' ordinamento interno non possono avere incidenza sulla sua natura nei confronti del diritto comunitario" (v. sentenza Wisselink);

- la circostanza che il contributo non sia fatturato distintamente dal prezzo è una scelta di tecnica contabile che non influisce sulla natura dell' imposta, atteso che, come dianzi rilevato, il contributo costituisce un' imposta a cascata che incide sul solo valore aggiunto e che grava in definitiva sul consumatore finale (dal punto di vista pratico l' introduzione del contributo non si è tradotta in un corrispondente incremento dei prezzi solo perché, contestualmente alla sua istituzione, il governo aveva ridotto gli oneri sociali gravanti sulle imprese e quindi i costi di produzione).

9. Alla luce di tali considerazioni, ritengo che l' art. 33 della sesta direttiva vada interpretato nel senso che impedisce l' istituzione e il mantenimento in vigore di un' imposta quale "il contributo di sostegno al mercato del lavoro" oggetto delle procedure principali.

10. Il secondo quesito pregiudiziale verte sull' effetto diretto dell' art. 33. Si è già detto che la norma sancisce un divieto assoluto di istituire e mantenere in vigore imposte analoghe all' IVA. Si tratta dunque di un obbligo negativo, il cui contenuto è preciso ed incondizionato, e, di conseguenza, direttamente produttivo di effetti nei rapporti giuridici fra gli Stati e gli amministrati.

In questo senso, del resto, si è già espresso l' avv. gen. Mancini nella causa Bergandi e mi sembra che la Corte ne abbia pienamente recepito il suggerimento, affermando nella sentenza che "l' art. 33 della sesta direttiva deve essere interpretato nel senso che a decorrere dall' istituzione del sistema comune di IVA, gli Stati membri non possono più colpire le cessioni di beni, le prestazioni di servizi o le importazioni soggette ad IVA con imposte, diritti o tasse che abbiano la natura di imposte sull' entrata".

11. L' interpretazione qui sostenuta dell' art. 33 della sesta direttiva rende inutile l' esame del terzo e quarto quesito formulati dal giudice nazionale, relativi all' applicazione degli articoli 9 e seguenti e dell' art. 95 del Trattato. Tuttavia, per l' ipotesi in cui la Corte propendesse per una lettura diversa della norma della direttiva, mi limito ad esporre le seguenti osservazioni.

Secondo una costante giurisprudenza della Corte, gli articoli 9 e seguenti e l' art. 95 non si applicano cumulativamente (v., per tutte, sentenza 22 marzo 1977, Steinike, causa 78/76, Racc. pag. 595). Il fondamentale elemento distintivo fra le tasse di effetto equivalente e le imposizioni interne discriminatorie consiste nella circostanza che le prime gravano sui soli prodotti importati, mentre le seconde gravano al contempo sui prodotti importati e sui prodotti nazionali (v. sentenza Steinike, citata).

Il contributo in questione grava - come più volte sottolineato - tanto sui prodotti nazionali che sui prodotti importati. Esso va dunque apprezzato esclusivamente alla stregua delle disposizioni di cui all' art. 95 del Trattato.

A tal riguardo, le ricorrenti nelle procedure principali sostengono che il contributo controverso avrebbe effetti discriminatori nei confronti dei prodotti importati in quanto, per questi ultimi, la base imponibile del contributo è calcolata secondo modalità parzialmente diverse da quelle previste per i prodotti di fabbricazione nazionale.

La Corte ha già stabilito che si ha violazione dell' art. 95 "quando due tributi sono calcolati secondo criteri e modalità differenti, con la conseguenza che il prodotto importato viene assoggettato - almeno in determinati casi - ad un onere più gravoso" (v. sentenza 17 febbraio 1976, Rewe, causa 45/75, Racc. pag. 181).

Ne consegue che un regime fiscale può ritenersi compatibile con l' art. 95 solo se è comprovato che esso sia strutturato in modo tale da escludere che in qualsivoglia ipotesi possa verificarsi una discriminazione del prodotto importato. Inoltre, la Corte ha statuito, in relazione a regimi fiscali che prevedono l' applicazione di criteri diversi ai prodotti nazionali ed a quelli importati, che, ove le modalità di applicazione non siano trasparenti, spetta allo Stato che ha istituito detto regime dimostrare che questo non produce in alcun caso effetti discriminatori (v. sentenza 26 giugno 1991, Commissione/Lussemburgo, causa C-152/89, Racc. pag. I-3141). Ritengo che una tale presunzione juris tantum si imponga anche nell' ambito di un giudizio nazionale inerente all' applicazione dell' art. 95.

É alla luce di tali principi che spetta al giudice nazionale verificare in concreto se il contributo controverso sia disciplinato in modo tale da escludere in ogni caso una discriminazione del prodotto importato. Una tale verifica va effettuata con riferimento all' incidenza fiscale sia del contributo in sé e per sé, sia di altri tributi, in particolare l' IVA, la cui incidenza può variare in ragione dell' esistenza del contributo.

12. Resta infine un ultimo punto, non evocato nell' ordinanza di rinvio.

Il governo danese chiede alla Corte di limitare gli effetti nel tempo della sua sentenza nell' ipotesi in cui si dichiari che il contributo controverso è incompatibile con il diritto comunitario.

Al riguardo richiamo quanto ho già avuto modo di osservare nella procedura Karella (v. sentenza 30 maggio 1991, cause riunite C-19/90 e C-20/90, Racc. pag. I-2691), ricordando che, secondo la giurisprudenza della Corte, l' interpretazione di una norma di diritto comunitario, data nell' esercizio della competenza attribuita dall' art. 177 del Trattato, chiarisce e precisa, quando ve ne sia bisogno, il significato e la portata della norma, quale deve o avrebbe dovuto essere intesa ed applicata dal momento della sua entrata in vigore. Ne risulta che la norma così interpretata può e deve essere applicata dal giudice anche a rapporti sorti e costituiti prima della sentenza interpretativa, se, per il resto, sono soddisfatte le condizioni che consentono di portare alla cognizione dei giudici competenti una controversia relativa all' applicazione di detta norma (v. sentenze 27 marzo 1980, Denkavit italiana, causa 61/79, Racc. pag. 1205, e 27 marzo 1980, Salumi, cause riunite 66/79, 127/79 e 128/79, Racc. pag. 1237).

A fronte di tali principi, l' eventualità di una limitazione degli effetti della sentenza interpretativa è assolutamente eccezionale (v. sentenze Denkavit italiana e Salumi, citate). La Corte vi ha fatto ricorso in presenza di circostanze ben precise, vale a dire un rischio di gravi ripercussioni economiche dovute in particolare all' elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base della normativa ritenuta validamente vigente, nonché la considerazione che i singoli e le autorità nazionali fossero stati indotti ad un comportamento non conforme alla normativa comunitaria in ragione di una obiettiva e rilevante incertezza relativa alla portata delle disposizioni comunitarie, incertezza cui avevano eventualmente contribuito gli stessi comportamenti tenuti da altri Stati membri o dalla Commissione (v. sentenze 17 maggio 1990, Barber, causa C-262/88, Racc. pag. 1889; 2 febbraio 1988, Blaizot, causa 24/86, Racc. pag. 379; 8 aprile 1976, Defrenne, causa 43/75, Racc. pag. 455).

Ciò premesso, ritengo che nel caso di specie la limitazione degli effetti della sentenza vada categoricamente esclusa.

L' interpretazione dell' art. 33 è chiara e risulta confortata da una giurisprudenza ampia ed univoca. Alcuna obiettiva incertezza poteva dunque sussistere sul fatto che il contributo fosse vietato alla stregua di tale disposizione.

D' altra parte, la Commissione ha comunicato al governo danese di ritenere incompatibile con l' art. 33 il contributo controverso già pochi giorni dopo la sua istituzione, avviando successivamente un ricorso per inadempimento ex art. 169.

Quanto alle conseguenze finanziarie che potrebbero derivare al governo danese da una dichiarazione di illegittimità del contributo, va rilevato che questo elemento, di per sé, non giustifica assolutamente una limitazione dell' efficacia della pronuncia della Corte. Se così non fosse, si correrebbe il rischio di trattare più favorevolmente proprio le violazioni di maggiore gravità, dal momento che sono queste che possono comportare implicazioni finanziarie di maggiore rilevanza per gli Stati membri: soluzione aberrante e chiaramente inaccettabile.

A ciò si aggiunga che, d' altronde, le cause aventi ad oggetto la legittimità comunitaria di tributi nazionali possono sovente avere importanti implicazioni finanziarie sul piano della ripetizione dell' indebito fiscale. Accordare dunque una limitazione degli effetti della sentenza in considerazione soltanto dell' entità di tali implicazioni, oltre che in contrasto con la precedente giurisprudenza della Corte (v. ad esempio sentenza 25 maggio 1989, Maxi-Di, causa 15/88, Racc. pag. 1391, relativa ad un tributo la cui importanza finanziaria era tutt' altro che trascurabile), costituirebbe un precedente rischioso nella misura in cui potrebbe portare ad una sostanziale riduzione della protezione giurisdizionale dei diritti che i contribuenti traggono dalla normativa fiscale comunitaria.

13. Concludo pertanto proponendo di rispondere come segue al giudice nazionale:

"1) L' art. 33 della sesta direttiva IVA osta all' istituzione ed al mantenimento in vigore di un' imposta nazionale quale 'il contributo di sostegno al mercato del lavoro' introdotto dalla legge danese n. 840, del 18 dicembre 1987.

2) L' art. 33 della sesta direttiva IVA, vietando l' istituzione ed il mantenimento in vigore di tributi che abbiano il carattere di imposta sulla cifra d' affari, attribuisce ai privati diritti invocabili dinanzi ai giudici nazionali.

3) Un tributo nazionale, quale il contributo controverso, gravante al contempo sui prodotti nazionali e sui prodotti importati, non rientra nell' ambito di applicazione degli articoli 9 e seguenti del Trattato.

4) Un regime fiscale nazionale può ritenersi compatibile con l' art. 95 del Trattato solo se è comprovato che esso sia strutturato in modo tale da escludere che in qualsivoglia ipotesi possa verificarsi una discriminazione del prodotto importato. Spetta al giudice nazionale accertare se il contributo controverso sia disciplinato in modo tale da escludere in ogni caso una discriminazione del prodotto importato".

(*) Lingua originale: l' italiano.

(1) Direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 388/77/CEE (GU L 145, pag. 1).

(2) Prima direttiva del Consiglio 11 aprile 1967, 67/227/CEE (GU 1967, pag. 1301).

(3) Seconda direttiva del Consiglio 11 aprile 1967, 67/228/CEE (GU 1967, pag. 1303).