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62001C0058

Conclusioni dell'avvocato generale Tizzano del 23 gennaio 2003. - Océ Van der Grinten NV contro Commissioners of Inland Revenue. - Domanda di pronuncia pregiudiziale: Special Commissioners of Income Tax - Regno Unito. - Direttiva 90/435/CEE - Imposta sulle società - Società madri e figlie di Stati membri diversi - Nozione di trattenuta alla fonte. - Causa C-58/01.

raccolta della giurisprudenza 2003 pagina I-09809


Conclusioni dell avvocato generale


I. Con ordinanza del 12 febbraio 2001, il presidente dei Commissioners for the special purposes of the Income Tax Acts di Londra (in prosieguo: lo «Special Commissioner») ha sottoposto alla Corte di giustizia una questione vertente sull'interpretazione della direttiva 90/435/CEE del Consiglio, del 23 luglio 1990, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi (in prosieguo: la «direttiva 90/435», o la «direttiva») . In buona sostanza, lo Special Commissioner chiede alla Corte se il prelievo del 5% previsto dall'art. 10, n. 3, lett. a), della Convenzione tra il Regno Unito ed il Regno dei Paesi Bassi per evitare la doppia imposizione e per la prevenzione dell'evasione fiscale con riferimento alle imposte sui redditi ed alle rendite da capitale, fatta all'Aja il 7 novembre 1980, in seguito modificata dal Protocollo fatto a Londra il 12 luglio 1983 (in prosieguo: la «convenzione sulla doppia imposizione», o la «DTC»), sia un'imposizione compatibile con la direttiva.

I - Quadro giuridico

A - Disposizioni comunitarie

II. La direttiva 90/435 istituisce un regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi, dettando regole minime di coordinamento dei sistemi fiscali nazionali. Ciò, come risulta dai primi tre considerando' del preambolo, al fine di garantire la neutralità fiscale delle operazioni transfrontaliere di distribuzione di utili ed evitare quindi che la cooperazione tra società di Stati membri diversi sia penalizzata rispetto a quella tra società di uno stesso Stato membro.

III. L'articolo 1 della direttiva così dispone:

«1. Ogni Stato membro applica la presente direttiva:

- alla distribuzione degli utili percepita da società di questo Stato membro e provenienti dalle loro filiali di altri Stati membri;

- alla distribuzione degli utili effettuata da società di questo Stato a società di altri Stati membri di cui esse sono filiali ».

IV. In forza dell'art. 5, n. 1, della direttiva:

«1. Gli utili distribuiti da una società figlia alla sua società madre, almeno quando quest'ultima detiene una partecipazione minima del 25% nel capitale della società figlia, sono esenti dalla ritenuta alla fonte ».

V. L'art. 7 della direttiva prevede che:

« 1. L'espressione "ritenuta alla fonte" utilizzata nella presente direttiva non comprende il pagamento anticipato o preliminare (ritenuta) dell'imposta sulle società allo Stato membro in cui ha sede la società figlia, effettuato in concomitanza con la distribuzione degli utili alla società madre.

2. La presente direttiva lascia impregiudicata l'applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali intese a sopprimere o ad attenuare la doppia imposizione economica dei dividendi, in particolare delle disposizioni relative al pagamento di crediti di imposta ai beneficiari dei dividendi».

B - La normativa nazionale

VI. Il quadro normativo nazionale, ampiamente descritto in allegato all'ordinanza di rinvio pregiudiziale, è piuttosto complesso: sarà sufficiente, in questa sede, tratteggiarne le linee fondamentali.

VII. Secondo quanto si desume dall'ordinanza del giudice di rinvio, in forza della normativa inglese in vigore all'epoca dei fatti, ed in particolare in forza dell'Income and Corporation Taxes Act 1988 (in prosieguo: l'«ICTA»), una società avente sede nel Regno Unito o ivi operante tramite una filiale o un'agenzia era soggetta alla corporation tax, un'imposta sui profitti applicata sulla base di un esercizio contabile di 12 mesi.

VIII. Sempre secondo quanto si desume dall'ordinanza di rinvio, nel vigore di tale legislazione una società con sede legale nel Regno Unito che provvedesse ad una distribuzione di dividendi era assoggettata al pagamento di un anticipo sulla corporation tax (in prosieguo anche: l'«ACT»), con cadenza trimestrale, su un imponibile provvisorio pari al valore della distribuzione effettuata nell'ultimo trimestre. Gli anticipi versati in ragione di distribuzioni effettuate in un determinato esercizio contabile erano imputati al debito di imposta della società per tale esercizio, e trasferiti agli esercizi successivi, qualora l'imposta risultasse non dovuta, in seguito al calcolo del debito d'imposta sull'imponibile definitivo della corporation tax, rappresentato dai profitti della società.

IX. Nel vigore di quel sistema una società avente sede nel Regno Unito, o un singolo che ivi avesse il proprio domicilio fiscale, aveva diritto, qualora ricevesse dividendi da una società britannica, ad un credito d'imposta pari al valore dell'ACT versato dalla società che procedeva alla distribuzione dei dividendi. La società che riceveva i dividendi imputava quel credito al proprio debito d'imposta a titolo di corporation tax, mentre i dividendi da essa ricevuti restavano esclusi dalla base imponibile della corporation tax. Qualora il beneficiario fosse un singolo, questi era soggetto all'income tax sul dividendo ricevuto, ma poteva a sua volta imputare il credito d'imposta al proprio debito a titolo di income tax.

X. Dall'ordinanza di rinvio si desume infine che, nel vigore dell'ICTA, una società che non avesse sede nel Regno Unito o che non vi operasse attraverso una succursale o un'agenzia, non era assoggettata alla corporation tax. Tuttavia, essa era assoggettata nel Regno Unito ad un'imposta sui profitti di origine britannica, come i dividendi ad essa distribuiti da società aventi sede nel Regno Unito. Inoltre, la stessa società non poteva vantare alcun credito di imposta qualora ricevesse un dividendo da una società avente sede nel Regno Unito, salvo che ciò non fosse previsto da un'apposita convenzione sulla doppia imposizione.

C - La convenzione sulla doppia imposizione

XI. Nella specie, viene appunto in rilievo la convenzione del 7 novembre 1980 tra il Regno Unito e i Paesi Bassi.

XII. Ai sensi dell'art. 10, n. 3, lett. a), punto ii, DTC:

«Se [una società] residente nei Paesi Bassi ha diritto ad un credito di imposta con riguardo a dividendi ai sensi della lett. c) di questo numero, sulla somma del valore dei dividendi e del credito d'imposta può essere applicata un'imposta nel Regno Unito e in conformità alle leggi del Regno Unito, con un'aliquota non superiore al 5%».

XIII. L'art. 10, n. 3, lett. c), DTC, a sua volta, così dispone:

«(¼ ) una società avente sede nei Paesi Bassi e che riceve dividendi da una società avente sede nel Regno Unito (¼ ) ha diritto ad un credito di imposta pari alla metà del credito di imposta cui avrebbe diritto una persona fisica residente nel Regno Unito se avesse percepito gli stessi dividendi, ed al rimborso della differenza tra il credito d'imposta e quanto dovuto a titolo di imposta nel Regno Unito (¼ )».

XIV. Infine, l'art. 22, n. 2, lett. c), DTC stabilisce che:

« c) (¼ ) i Paesi Bassi accordano una detrazione dall'imposta olandese applicata per le voci di entrata che, ai sensi [dell'artt. 10, n. 3] della presente convenzione, vengono sottoposte a imposta nel Regno Unito in quanto tali voci siano comprese nella base imponibile richiamata dalla lettera a) del presente numero. L'importo di tale detrazione è pari all'imposta versata nel Regno Unito su tali voci di entrata, ma non supera l'importo della riduzione che sarebbe concessa se le voci di entrata ivi comprese fossero le sole voci di entrata esenti dall'imposizione olandese ai sensi delle disposizioni fiscali olandesi volte ad evitare la doppia imposizione».

II - Fatti, procedimento e questioni pregiudiziali

XV. La società Océ van der Grinten NV (in prosieguo: «Océ NV» o semplicemente «Océ») ha sede nei Paesi Bassi. Essa controlla, tra l'altro, la società Océ UK Limited (in prosieguo: «Océ UK»), con sede nel Regno Unito.

XVI. Dal 1992 al 1993, Océ UK ha pagato dividendi alla sua società madre per un totale di GBP 13 milioni, versando contestualmente al fisco inglese l'anticipo sulla corporation tax relativo a tali dividendi. Con decisione degli Inland Revenue Commissioners, in forza dell'art. 10, n. 3, lett. c), DTC, il fisco britannico ha riconosciuto ad Océ NV un credito di imposta pari a circa GBP 2,174 milioni, in ragione degli anticipi sulla corporation tax versati da Océ UK. Con la stessa decisione veniva poi applicata nei confronti di Océ NV, ai sensi dell'art. 10, n. 3, lett. a), DTC, un'imposta pari al 5% della somma dei dividendi e del suddetto credito d'imposta, per un ammontare di GBP 761 000. Il rimborso ottenuto da Océ NV ai sensi dell'art. 10, n. 3, DTC, pari al credito d'imposta al netto della suddetta imposizione del 5%, ammonta pertanto a circa 1,4 milioni GBP.

XVII. Ritenendo che l'imposizione cui è stata assoggettata in forza dell'art. 10, n. 3, lett. a), DTC violi l'art. 5, n. 1, della direttiva 90/435, in quanto costituisce una ritenuta alla fonte sui dividendi pagati dalla sua filiale inglese, Océ NV ha presentato ricorso contro la decisione degli Inland Revenue Commissioners davanti allo Special Commissioner. Quest'ultimo, ritenendo che la decisione della causa richiedesse l'interpretazione di alcune disposizioni della direttiva, ha proposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1) Se, nelle circostanze esposte nell'ordinanza di rinvio, l'imposizione del 5% prevista dall'art. 10, n. 3, lett. a), punto ii), DTC costituisce una ritenuta alla fonte sugli utili distribuiti dalla controllata alla società capogruppo ai sensi dell'art. 5, n. 1, della direttiva 90/435.

2) Qualora l'imposizione del 5% costituisca una ritenuta alla fonte, se essa è fatta salva dall'art. 7, n. 2, della direttiva.

3) Qualora l'imposizione del 5% fosse fatta salva solo per effetto dell'art. 7, n. 2, della direttiva, se l'art. 7, n. 2 sia invalido per insufficienza di motivazione o per omessa consultazione del Comitato economico e sociale e del Parlamento europeo, con la conseguenza che non può conservare al Regno Unito il diritto di applicare l'imposta del 5%».

XVIII. Nel procedimento così instauratosi dinanzi alla Corte, oltre alle parti nel giudizio principale, sono intervenuti i governi inglese e italiano, la Commissione e il Consiglio.

III - Sulle questioni pregiudiziali

A - Sulla prima questione

XIX. Quanto alla prima questione, ritengo che la natura dell'imposizione del 5% applicata in forza dell'art. 10, n. 3, lett. a), DTC debba essere accertata separatamente per la parte in cui essa colpisce i dividendi e per quella in cui colpisce invece il credito d'imposta.

1. L'imposizione del 5% sui dividendi

XX. Dico subito che, per la parte in cui colpisce i dividendi, l'imposta in questione rappresenta, a mio avviso, una ritenuta alla fonte ai sensi della direttiva. Sembra infatti anche a me, come a tutti gli intervenienti, che una tale qualificazione sia l'unica coerente con la giurisprudenza della Corte.

XXI. Nelle precedenti occasioni in cui è stata chiamata ad interpretare l'art. 5, n. 1, della direttiva, la Corte ha chiarito che è «ritenuta alla fonte», ai sensi di tale disposizione, ogni imposizione sui redditi che sia percepita nello Stato in cui i dividendi sono pagati ed «il cui presupposto è il versamento di dividendi o di qualsiasi altro rendimento dei titoli», se «la base imponibile di tale imposta è il rendimento degli stessi e [i]l soggetto passivo è il loro detentore» , e ciò indipendentemente dal nomen iuris dell'imposta in diritto nazionale .

XXII. Con l'espressione «ritenuta alla fonte» si intendono, dunque, nell'ambito della direttiva, tutte quelle imposizioni che colpiscono direttamente il dividendo nel Paese in cui esso è percepito, diminuendone il valore per il titolare della partecipazione. Si deve pertanto ritenere che il divieto di ritenuta alla fonte, di cui all'art. 5, n. 1, abbracci anche l'ipotesi di un'imposizione come quella controversa, nella misura in cui colpisce i dividendi percepiti dalla società madre olandese, decurtando il reddito che a quest'ultima deriva dalla partecipazione al patrimonio della società figlia stabilita nel Regno Unito.

XXIII. L'analisi che precede è del resto pienamente coerente con le finalità della direttiva, in generale, e del divieto di cui al suo art. 5, n. 1, in particolare. Com'è noto, infatti, e come risulta dai suoi primi tre considerando', la direttiva persegue l'obiettivo della neutralità dell'imposizione fiscale degli Stati membri riguardo alle relazioni tra società madri e figlie di Stati membri diversi.

XXIV. Ora, come ha evidenziato la Corte nella sentenza Athinaïki , la ritenuta alla fonte è in linea di principio uno strumento fiscale neutro se la società madre è stabilita nello stesso Stato in cui è operata la ritenuta, cioè nello Stato in cui è stabilita anche la figlia, poiché il fisco tiene conto, nel momento dell'imposizione sui redditi della società madre, della ritenuta già operata. Tale imposizione dà luogo invece a una doppia imposizione "economica" quando la società che riceve il dividendo così decurtato abbia sede in un diverso Stato, poiché in tale diverso Stato, in assenza di una convenzione sulla doppia imposizione, non si tiene conto, nel momento dell'imposizione sui redditi della società madre, della ritenuta già operata nello Stato in cui è stabilita la società figlia, e si finisce così per tassare due volte lo stesso reddito.

XXV. Ne concludo quindi che, per la parte in cui colpisce i dividendi, l'imposizione del 5% prevista dall'art. 10, n. 3, lett. a), DTC è una ritenuta alla fonte ai sensi dell'art. 5, n. 1, della direttiva.

2. L'imposizione del 5% sul credito d'imposta

XXVI. Sono invece dell'avviso che, nella parte in cui colpisce il credito sull'imposta sui redditi riconosciuto dal fisco inglese alla società madre olandese, la suddetta imposizione non rappresenti una ritenuta alla fonte.

XXVII. La contraria tesi di Océ si fonda sul fatto che un credito d'imposta concesso in occasione della distribuzione di dividendi sarebbe un beneficio patrimoniale del tutto analogo ad un «utile» derivante dalla partecipazione societaria, e la sua tassazione sarebbe pertanto vietata ai sensi dell'art. 5, n. 1, della direttiva. La giurisprudenza della Corte avrebbe chiarito, infatti, che «utili distribuiti da una società» ai sensi di quella disposizione sono tutti i tipi di reddito e di guadagno da capitale . In tale nozione dovrebbe allora rientrare anche un beneficio fiscale come quello di cui si tratta. Per di più, una nozione ampia di utile sociale, che comprenda anche il credito d'imposta in quanto beneficio monetizzabile, corrisponderebbe a quella fatta propria dall'art. 10 della Convenzione modello sulla tassazione dei redditi e dei capitali dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, del 1977 (a cui è ispirata la DTC), nel cui commento ufficiale si precisa che la nozione di dividendo può estendersi, oltre che agli utili ripartiti ogni anno dall'assemblea degli azionisti, ad ogni altro beneficio suscettibile di essere monetizzato.

XXVIII. A me pare, tuttavia, che tale interpretazione non corrisponda alla logica e alla ratio della direttiva in esame e, in particolare, del suo art. 5, n. 1.

XXIX. Scopo di tale disposizione, come ho sopra ricordato, è l'eliminazione o l'attenuazione della doppia imposizione economica degli utili distribuiti da una società figlia a una società madre, in quanto pregiudizievole per la creazione di gruppi societari transfrontalieri all'interno della Comunità. Occorre pertanto chiedersi se nel caso in esame, alla luce dei criteri indicati dalla Corte nella sentenza Epson, la tassazione del credito d'imposta in capo alla società madre costituisca un'imposizione su un utile distribuito dalla società figlia nello Stato in cui questa è stabilita (e dunque una ritenuta alla fonte), in presenza della quale la successiva tassazione dei redditi della società madre nel rispettivo Stato di stabilimento dia luogo ad un fenomeno di doppia imposizione economica.

XXX. Ora, così non è, a mio avviso, per due ragioni. Da un lato, il credito d'imposta, in ragione delle sue caratteristiche e del suo funzionamento, non può ritenersi un utile distribuito dalla società figlia; dall'altro lato, la parziale riduzione dell'ammontare di detto credito, dovuta all'imposta del 5% di cui è gravato, non può in alcun modo determinare una duplice tassazione economica degli utili prodotti dalla società figlia e percepiti dalla società madre.

XXXI. Quanto al primo punto, devo osservare che il credito d'imposta, che il fisco inglese riconosce alla società madre percettrice del dividendo in ragione dell'avvenuto pagamento dell'ACT da parte della società figlia, lungi dal costituire un frutto della partecipazione al capitale sociale di questa, rappresenta un bonus monetario rientrante nel sistema inglese d'imputazione dell'imposta sui redditi delle società; costituisce cioè, in buona sostanza, una partita di giro tra contribuenti e fisco, che, in una fattispecie retta dalla DTC, si trasforma in un bonus monetario attribuito dal fisco britannico alla società madre olandese, al fine di alleviare l'onere fiscale che la percezione del dividendo determinerebbe per questa, a titolo di imposta sul reddito, nei Paesi Bassi.

XXXII. Orbene, se così è, si deve convenire che tale bonus fiscale non è un «rendimento dei titoli» della società figlia, ma uno strumento fiscale che non attribuisce alcun «nuovo» reddito al possessore di quei titoli: il suo effetto è unicamente di preservare, in una certa misura, dagli effetti negativi dell'imposizione fiscale il reddito derivante dalla partecipazione al capitale della società che ha emesso i titoli.

XXXIII. Vengo ora al secondo punto, ovvero alla valutazione degli effetti della tassazione del bonus fiscale. Per stabilire se tali effetti contrastino con il divieto di ritenuta alla fonte di cui alla direttiva, si deve ricordare anzitutto che il divieto mira ad impedire che il dividendo sia soggetto ad imposizione nello Stato in cui è pagato, dato che esso andrà comunque ad aumentare il debito d'imposta del percettore nello Stato in cui quest'ultimo è stabilito (v. supra, paragrafo 24). La funzione del divieto è, in altri termini, di assicurare la neutralità fiscale della distribuzione di dividendi in una fattispecie transfrontaliera.

XXXIV. Ora, la tassazione nel Regno Unito del bonus pagato dal fisco inglese alla società madre non compromette in alcun modo la neutralità fiscale della distribuzione dei dividendi, dato che non colpisce la distribuzione dei dividendi della società figlia e non ne diminuisce il valore per il soggetto cui sono versati. Ciò è tanto più vero se si considera che, attraverso il riconoscimento del credito d'imposta, il sistema fiscale inglese persegue un obiettivo di neutralità fiscale ulteriore e più ambizioso di quello perseguito dall'art. 5, n. 1, della direttiva, poiché consente di limitare, a livello di gruppo societario, il peso dell'imposizione sui redditi d'esercizio della società figlia che stanno all'origine della distribuzione dei dividendi .

XXXV. Ne consegue che la tassazione del credito d'imposta non dà luogo ad un fenomeno di doppia imposizione economica e, per ciò stesso, non contrasta con il divieto di ritenuta alla fonte previsto dalla direttiva.

XXXVI. Tale conclusione è rafforzata, del resto, dalla considerazione che, nel sistema della convenzione sulla doppia imposizione, il prelievo del 5% sul credito d'imposta, previsto dall'art. 10, n. 3, lett. a), DTC, trova il corrispettivo nell'obbligo del fisco olandese di consentirne la detrazione dal debito fiscale della società madre, in forza dell'art. 22, n. 2, lett. c), DTC. In buona sostanza, dunque, all'imposizione del 5% sul credito d'imposta non corrisponde una reale diminuzione del bonus fiscale, ma piuttosto la ripartizione dell'esborso di una parte di questo tra il fisco britannico e quello olandese.

XXXVII. Se così è, a me pare che la tassazione di tale credito d'imposta non possa ritenersi una ritenuta alla fonte sugli utili derivanti da una partecipazione societaria, ma una mera modalità di calcolo - tanto complicata, per la verità, da apparire barocca - del credito d'imposta stesso, di un beneficio cioè che, come si è detto, è eminentemente destinato a ridurre la doppia imposizione economica, oltre quanto già non faccia il divieto di ritenuta alla fonte.

XXXVIII. In conclusione, ritengo che la Corte debba rispondere alla prima questione nel senso che l'imposizione del 5% prevista dall'art. 10, n. 3, lett. a), punto ii), DTC costituisce una ritenuta alla fonte sugli utili distribuiti da una società figlia ad una società madre ai sensi dell'art. 5, n. 1, della direttiva 90/435, per la parte in cui colpisce i dividendi, mentre non lo è per la parte in cui colpisce il credito d'imposta.

B - Sulla seconda questione

XXXIX. Sulla seconda questione le posizioni degli intervenienti divergono. Da un lato, Océ sostiene che il prelievo del 5% di cui all'art. 10, n. 3, lett. a), DTC non possa trovare alcuna giustificazione, neppure nell'art. 7, n. 2, della direttiva. Dall'altro lato, il Regno Unito, l'Italia e la Commissione ritengono invece che quel prelievo, pur costituendo una ritenuta alla fonte in linea di principio contraria all'art. 5, n. 1, sia tuttavia compatibile con la finalità della direttiva e si giustifichi ai sensi del predetto art. 7, n. 2, in quanto parte integrante di una disciplina convenzionale che mira ad attenuare la doppia imposizione economica.

XL. A sostegno della propria tesi, Océ fa anzitutto valere che l'imposizione in questione non rientra in alcuna delle ipotesi derogatorie espressamente previste da altre disposizioni della direttiva, né, per quanto più interessa, può essere giustificata in virtù dell'art. 7, n. 2. Come ha sottolineato l'avvocato generale Alber nelle sue conclusioni nella causa C-294/99 (cit., paragrafo 41), tale articolo non mira a far salve tutte le disposizioni di una convenzione sulla doppia imposizione, ma soltanto quelle che sono concretamente finalizzate ad evitare una doppia imposizione. Nel caso in questione, però, l'imposizione del 5%, integrando gli estremi di una ritenuta alla fonte sull'ammontare del dividendo e del credito d'imposta, avrebbe proprio l'effetto di instaurare o accentuare una doppia imposizione.

XLI. Del resto, continua Océ, anche se l'effetto di quell'imposizione fosse neutro, nella misura in cui è possibile dedurre il pagamento di tale imposta britannica dall'imposta sui redditi dovuta al fisco olandese ai sensi dell'art. 22 DTC, non per questo potrebbe dirsi che l'art. 10, n. 3, lett. a), DTC, in sé considerato, persegua l'obiettivo di evitare una doppia imposizione. Neppure sotto questo aspetto, quindi, la disposizione può trovare giustificazione nell'art. 7 della direttiva.

XLII. Né varrebbe sostenere che l'art. 10, n. 3, DTC, considerato nel suo insieme, contiene «disposizioni relative al pagamento di crediti di imposta ai beneficiari dei dividendi», ai sensi dell'art. 7, n. 2, della direttiva. Ciò perché, ribadisce la ricorrente nel giudizio principale, quest'ultimo non intende far salva l'applicazione di qualsiasi disposizione convenzionale relativa al pagamento di crediti di imposta, ma unicamente di quelle che siano nel contempo finalizzate ad evitare una doppia imposizione. Una tale lettura, conclude Océ, sarebbe d'altronde conforme all'esigenza di dare all'art. 7 quell'interpretazione stretta che emerge dalla giurisprudenza della Corte .

XLIII. Come già detto, il Regno Unito, la Commissione ed il governo italiano sostengono invece la tesi opposta. A loro avviso, infatti, la percezione di una ritenuta alla fonte in forza dell'art. 10, n. 3, lett. a), punto ii), DTC rientra nella deroga prevista dall'art. 7, n. 2, della direttiva, fondamentalmente perché essa non va considerata isolatamente, ma come parte essenziale di un sistema che, nel suo complesso, persegue il medesimo obiettivo della direttiva.

XLIV. Per parte mia, devo osservare sin d'ora che tra le due interpretazioni dell'art. 7 della direttiva mi sembra senz'altro preferibile quest'ultima, per le ragioni che passo ora a illustrare.

XLV. Anzitutto, come osserva il Regno Unito, confortato sul punto anche dalla Commissione, l'art. 10, n. 3, DTC va letto nel suo complesso e non isolandone le singole previsioni.

XLVI. In particolare, si deve a mio avviso considerare unitariamente il disposto della lettera c), che prevede il beneficio del credito d'imposta nei confronti del fisco inglese, e quello della lettera a), che ne precisa l'ammontare, decurtandolo in ragione del 5%. Solo in tal modo si può cogliere appieno il senso di un regime, quale appunto quello instaurato dalla convenzione, che attribuisce un credito d'imposta ad una società straniera che, diversamente, non ne avrebbe alcun diritto in base alle norme comuni. Un regime cioè che, in piena coerenza con la finalità che la direttiva persegue a livello comunitario, ha precisamente lo scopo di attenuare gli effetti di doppia imposizione economica derivanti dal coesistere, nei due Stati contraenti, di differenti sistemi fiscali.

XLVII. Ma vi è di più. Lo stesso art. 10, n. 3, DTC, a sua volta, non va letto in modo isolato, ma alla luce dell'art. 22, n. 2, lett. c), della convenzione. Come si è visto più sopra (paragrafi 14 e 36), infatti, quest'ultima disposizione impone al fisco olandese di riconoscere un credito d'imposta, a favore della società madre britannica, corrispondente a quanto da questa pagato ai sensi dell'art. 10, n. 3, lett. a), DTC. Pertanto, anche nella misura in cui colpisce i dividendi, l'imposizione prevista dall'art. 10, n. 3, lett. a), DTC è neutra dal punto di vista fiscale e non determina una doppia imposizione economica, in coerenza, ancora una volta, con le finalità della direttiva.

XLVIII. Si può anche ammettere, astraendo dalla previsione del suddetto art. 22 DTC, che l'attenuazione della doppia imposizione sarebbe più incisiva qualora il prelievo del 5% non venisse effettuato. Ma, anche a voler seguire questa logica, si deve comunque riconoscere, come sottolineano il Regno Unito ed il governo italiano, che la direttiva non esige né la soppressione integrale della doppia imposizione né la sua attenuazione entro un livello minimo prestabilito, cosicché la limitazione degli effetti positivi del credito d'imposta non può certo dirsi contraria alla direttiva.

XLIX. Aggiungo infine che un'interpretazione come quella sostenuta da Océ finirebbe col privare l'art. 7, n. 2, di ogni significato. Non avrebbe senso, infatti, "far salve" le disposizioni delle convenzioni che perseguono l'attenuazione della doppia imposizione solo se sono pienamente conformi alle disposizioni materiali della direttiva: così interpretato, l'art. 7, n. 2, sarebbe una disposizione puramente pleonastica.

L. In conclusione, e per le ragioni che ho sinora illustrato, ritengo che alla seconda questione pregiudiziale la Corte debba rispondere nel senso che l'imposizione del 5% prevista dall'art. 10, n. 3, lett. a), punto ii), DTC può essere considerata compatibile con la direttiva 90/435 in virtù dell'art. 7, n. 2, di quest'ultima, anche per la parte in cui rappresenta una ritenuta alla fonte.

C - Sulla terza questione

LI. Con la terza questione, posta a titolo evidentemente sussidiario, il giudice del rinvio chiede se la direttiva 90/435 sia viziata per violazione di forme sostanziali, e dunque invalida, nella parte in cui, all'art. 7, n. 2, possa far salve delle imposte nazionali contrarie, in linea di principio, al divieto di ritenuta alla fonte di cui al suo art. 5, n. 1.

LII. Tutti gli intervenienti propongono una risposta negativa a tale questione, salvo Océ, che ritiene che la direttiva debba considerarsi invalida, in parte qua, per difetto di motivazione e per mancata consultazione del Comitato economico e sociale e del Parlamento.

LIII. A dire di Océ, la direttiva difetterebbe anzitutto di motivazione in relazione all'art. 7, n. 2, poiché nessun considerando' del preambolo farebbe riferimento ad una tale ipotesi derogatoria, contrariamente a quanto avverrebbe per quanto riguarda altri regimi, anch'essi derogatori, contenuti nella direttiva.

LIV. Quanto all'altro motivo, Océ fa valere che, nella sua formulazione originaria, l'art. 7 della direttiva conteneva soltanto disposizioni relative al consolidamento degli utili e che nella versione finale dell'articolo tali disposizioni sono state soppresse. Il parere del Parlamento e del Comitato economico e sociale era stato però raccolto solo sulla versione originaria e non anche su quella finale. Ciò comporterebbe una violazione di forme sostanziali perché i mutamenti intervenuti tra le due versioni non sono di poco conto e avrebbero dunque richiesto un secondo parere dei due organi.

LV. Dico subito che non ritengo la direttiva viziata per violazione delle forme sostanziali, né per ciò che attiene alla motivazione, né per ciò che attiene alle modalità di consultazione del Parlamento europeo e del Comitato economico e sociale.

LVI. Quanto al primo profilo, ricordo, da un punto di vista generale, che la Corte ha sempre sottolineato che la portata dell'obbligo di motivazione dipende dalla natura dell'atto di cui trattasi e che per quelli di portata generale essa può limitarsi ad indicare, da un lato, la situazione complessiva che ha condotto all'adozione dell'atto e, dall'altro, gli obiettivi generali che esso si prefigge. Se l'atto contestato evidenzia nella sua essenza lo scopo perseguito dall'istituzione, sarebbe eccessivo pretendere una motivazione specifica per le diverse scelte d'indole tecnica operate .

LVII. Nel caso di specie, mi pare che a giusto titolo il Regno Unito, la Commissione e il Consiglio sottolineino che la motivazione della direttiva indichi con chiarezza l'obiettivo generale della stessa, cioè la neutralità fiscale delle operazioni di distribuzione transfrontaliera di utili, e che ciò sia sufficiente a coprire anche la clausola di salvezza delle disposizioni convenzionali che mirano al medesimo fine, vale a dire l'art. 7, n. 2, della direttiva.

LVIII. Quanto alla mancata consultazione del Parlamento e del Comitato economico e sociale, è ben vero che, secondo una consolidata giurisprudenza della Corte, «l'obbligo di consultare il Parlamento durante il procedimento legislativo, nei casi previsti dal Trattato, comporta l'obbligo di una nuova consultazione ogni volta che l'atto infine adottato, considerato complessivamente, sia diverso quanto alla sua sostanza da quello sul quale il Parlamento sia stato già consultato» .

LIX. Al pari della Commissione, del Consiglio e del governo del Regno Unito, però, credo anch'io che l'inserimento dell'art. 7, n. 2, nel suo testo attuale non abbia inciso sulla sostanza della direttiva, ma abbia solo apportato un aggiustamento tecnico nella struttura di questa, consentendo di far salve specifiche discipline nazionali nella misura in cui fossero coerenti con la finalità della direttiva. Anche alla luce delle risposte che ho proposto di fornire alle questioni precedenti, pertanto, mi sembra di poter dire che una simile modifica non richiedeva un secondo parere da parte di Parlamento e Comitato economico e sociale.

LX. In conclusione, ritengo che l'esame della terza questione proposta non abbia rivelato vizi di forma e di procedura tali da mettere in discussione la validità dell'art. 7, n. 2, della direttiva.

IV - Conclusioni

LXI. Alla luce delle considerazioni che precedono suggerisco alla Corte di rispondere alle tre questioni proposte dallo Special Commissioner nel senso che:

«1. L'imposizione del 5% prevista dall'art. 10, n. 3, lett. a), punto ii), della Convenzione tra il Regno Unito ed il Regno dei Paesi Bassi per evitare la doppia imposizione e per la prevenzione dell'evasione fiscale con riferimento alle imposte sui redditi ed alle rendite da capitale, fatta all'Aja il 7 novembre 1980, costituisce una ritenuta alla fonte sugli utili distribuiti da una società figlia ad una società madre ai sensi dell'art. 5, n. 1, della direttiva 90/435, per la parte in cui colpisce i dividendi, mentre non lo è per la parte in cui colpisce il credito d'imposta.

2. Tale imposizione può essere considerata compatibile con la direttiva 90/435 in virtù dell'art. 7, n. 2, di quest'ultima, anche per la parte in cui rappresenta una ritenuta alla fonte.

3. L'esame della terza questione proposta non ha rivelato vizi di forma e di procedura tali da mettere in discussione la validità dell'art. 7, n. 2, della direttiva».