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CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

POIARES MADURO

presentate il 7 aprile 2005 (1)

Causa C-255/02

Halifax plc,

Leeds Permanent Development Services Ltd,

County Wide Property Investments Ltd

contro

Commissioners of Customs and Excise

(domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dal Value Added Tax and Duties Tribunal, London)

Causa C-419/02

1) BUPA Hospitals Ltd,

2) Goldsborough Developments Ltd

contro

Commissioners of Customs and Excise

[domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dalla High Court of Justice of England and Wales (Chancery Division)]

Causa C-223/03

University of Huddersfield Higher Education Corporation

contro

Commissioners of Customs and Excise

(domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dal Value Added Tax and Duties Tribunal, Manchester)





«Sesta direttiva IVA – Artt. 2, n. 1, 4, nn. 1 e 2, 5, n. 1, 6, n. 1, 10, n. 2, e 17 – Cessioni di beni e prestazioni di servizi – Attività economica – Abuso del diritto – Operazioni effettuate al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale» 

1.     Il VAT and Duties Tribunal (London) (in prosieguo: il «VAT and Duties Tribunal, London»), la High Court of Justice of England and Wales (Chancery Division) (in prosieguo: la «High Court») e il VAT and Duties Tribunal (Manchester Tribunal Centre) (in prosieguo: il «VAT and Duties Tribunal, Manchester») con tre distinte ordinanze hanno sottoposto alla Corte di giustizia varie questioni pregiudiziali sull’interpretazione della Sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati Membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme (in prosieguo: la «Sesta direttiva»), come modificata (2).

2.     Le tre controversie hanno ad oggetto operazioni realizzate allo scopo di conseguire un vantaggio fiscale in termini di diritto alla detrazione dell’IVA. In sostanza si domanda alla Corte, in primo luogo, di stabilire se operazioni effettuate al solo scopo di rendere possibile il recupero dell’imposta assolta possano costituire un’«attività economica» nel senso dell’art. 4, n. 2, della Sesta direttiva; in secondo luogo, di considerare la possibile applicazione della dottrina sull’«abuso del diritto» nell’ambito dell’imposta sul valore aggiunto per respingere domande di detrazione dell’IVA avanzate in circostanze quali quelle di specie.

I –    La normativa comunitaria applicabile nelle tre fattispecie

3.     Ai sensi dell’art. 2, n. 1, della Sesta direttiva, l’IVA si applica alle «cessioni di beni e [al]le prestazioni di servizi, effettuate a titolo oneroso (…) da un soggetto passivo che agisce in quanto tale».

4.     L’art. 4, n. 1, definisce «soggetto passivo» «chiunque esercita in modo indipendente e in qualsiasi luogo una delle attività economiche di cui al paragrafo 2, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività»; l’art. 4, n. 2, definisce «attività economiche» «tutte le attività di produttore, di commerciante o di prestatore di servizi (…)».

5.     Ai termini dell’art. 5, n. 1, si considera «cessione di un bene» «il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario»; ai termini dell’art. 6, n. 1, si considera «prestazion[e] di servizi» «ogni operazione che non costituisce cessione di un bene ai sensi dell’articolo 5».

6.     L’art. 13, parte A, n. 1, esenta dall’IVA una serie di attività, fra cui l’ospedalizzazione e le cure mediche, allorché dispone che:

«Fatte salve le altre disposizioni comunitarie, gli Stati membri esonerano, alle condizioni da essi stabilite per assicurare la corretta e semplice applicazione delle esenzioni previste in appresso e per prevenire ogni possibile frode, evasione ed abuso:

(…)

b)      l’ospedalizzazione e le cure mediche nonché le operazioni ad esse strettamente connesse, assicurate da organismi di diritto pubblico oppure, a condizioni sociali analoghe a quelle vigenti per i medesimi, da istituti ospedalieri, centri medici e diagnostici e altri istituti della stessa natura debitamente riconosciuti».

7.     L’art. 13, parte B, lett. b), prevede, in termini identici a quelli dell’art. 13, parte A, n. 1, che siano esenti dall’IVA «l’affitto e la locazione di beni immobili». A sua volta l’art. 13, parte B, lett. d), sempre in termini identici a quelli dell’art. 13, parte A, n. 1, elenca una serie di attività finanziarie esentate anch’esse dall’IVA dagli Stati membri.

8.     Quanto alle detrazioni, l’art. 17, n. 1, precisa che «[i]l diritto a [detrazione] nasce quando l’imposta [detraibile] diventa esigibile». L’art. 17, n. 2, aggiunge che «[n]ella misura in cui beni e servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo è autorizzato a [detrarre] dall’imposta di cui è debitore (…) l’imposta sul valore aggiunto dovuta o assolta all’interno del paese per le merci che gli sono o gli saranno fornite e per i servizi che gli sono o gli saranno prestati da un altro soggetto passivo» (3).

9.     Per quanto riguarda i beni ed i servizi utilizzati da un soggetto passivo sia per operazioni che danno diritto a detrazione sia per operazioni che non conferiscono tale diritto, il primo comma dell’art. 17, n. 5, stabilisce che «la [detrazione] è ammessa soltanto per il prorata dell’imposta sul valore aggiunto relativo alla prima categoria di operazioni». In conformità al secondo comma della medesima disposizione, «[d]etto prorata è determinato ai sensi dell’articolo 19 per il complesso delle operazioni compiute dal soggetto passivo».

10.   L’art. 27, n. 1, relativo alle misure di semplificazione(4), dispone che «[i]l Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione, può autorizzare ogni Stato membro a introdurre misure particolari di deroga alla presente direttiva, allo scopo di semplificare la riscossione dell’imposta o di evitare talune frodi o evasioni fiscali. Le misure aventi lo scopo di semplificare la riscossione dell’imposta non devono influire, se non in misura trascurabile, sull’importo dell’imposta da versare allo stadio del consumo finale».

II – I fatti delle cause principali, le questioni sottoposte alla Corte e la normativa comunitaria e nazionale applicabile a ciascuna fattispecie

A –    Causa C-255/02

11.   La Halifax è una banca. Conformemente all’art. 13, parte B, lett. d), della Sesta direttiva, le sue prestazioni sono in gran parte servizi finanziari esenti dall’IVA. La Halifax intendeva costruire per la propria attività imprenditoriale centri di chiamata («call-centers») su quattro terreni situati nel Regno Unito, presi in locazione o di sua proprietà. In applicazione della regola del «prorata» di cui all’art. 17, n. 5, la Halifax poteva recuperare circa il 5% dell’IVA assolta sui lavori di costruzione. I suoi fiscalisti elaboravano, però, un piano che le permetteva di recuperare in pratica l’intero importo dell’IVA su tali lavori attraverso una serie di operazioni alle quali partecipavano varie compagnie del suo gruppo.

12.   Le compagnie coinvolte nell’operazione erano tutte interamente controllate dalla Halifax: la Leeds Permanent Development Services (in prosieguo: la «LPDS»), una società «a fini speciali», in passato impegnata nella gestione di progetti di sviluppo ed estranea al gruppo IVA Halifax; la County Wide Property Investments (in prosieguo: la «CWPI»), una società di sviluppo e investimento, e per finire la Halifax Property Investment Ltd (in prosieguo: la «HPIL»), che, a differenza delle altre compagnie summenzionate, non era registrata ai fini IVA.

13.   Il piano concerneva quattro terreni diversi, ma a tutte le operazioni si applicava lo stesso modello per ciascun terreno. Per prima cosa la Halifax accordava alla LPDS un prestito per l’acquisto dai necessari diritti sul terreno e per lo svolgimento dei lavori edilizi. Contemporaneamente, con un diverso contratto, la LPDS s’impegnava ad eseguire sul terreno lavori edilizi di modesto valore. Per essi, e per tutti e quattro i terreni, la Halifax pagava alla LPDS circa 164 000 sterline inglesi (GBP), di cui pressappoco 25 000 di IVA, contabilizzata dalla LPDS e detraibile dalla Halifax, pro rata, solo in piccola parte.

14.   La LPDS, da parte sua, concludeva con la CWPI un accordo di sviluppo e finanziamento in forza del quale la CWPI s’impegnava ad eseguire direttamente o a far eseguire su ciascun terreno i lavori edilizi, ivi compresi i lavori di modesto valore che la LPDS doveva realizzare per conto della Halifax. Con le somme anticipatele dalla Halifax in base al contratto di mutuo tra esse intercorso, la LPDS anticipava a sua volta alla CWPI buona parte del costo dei lavori (un totale di circa GBP 48 milioni per i quattro terreni, di cui oltre 7 milioni di IVA).

15.   Tutte queste operazioni avvenivano nello stesso giorno, nell’ambito dell’esercizio finanziario della LPDS che terminava il 31 marzo 2000 (5). Durante tale anno la LPDS eseguiva i lavori edilizi di modesto valore e soggetti a tassazione ordinaria, senza effettuare operazioni esenti. Di conseguenza reclamava la restituzione degli oltre 7 milioni di sterline inglesi versati a titolo di IVA in quell’anno e corrispondenti all’importo addebitatole dalla CWPI per eseguire i lavori edilizi sui terreni considerati. A sua volta la CWPI contabilizzava l’IVA sulle prestazioni rese alla LPDS, ma si riservava di detrarre l’IVA che le avrebbero imputato i costruttori e i professionisti che sarebbero stati incaricati dei lavori edilizi.

16.   Il 6 aprile 2000 la Halifax cedeva in locazione i singoli terreni alla LPDS contro il pagamento di un canone e la LPDS a sua volta cedeva ognuno di essi alla HPIL, prevedendo che ciascuna cessione sarebbe stata eseguita il primo giorno lavorativo successivo al completamento sul singolo terreno dei lavori promessi. Lo stesso giorno la HPIL s’impegnava contrattualmente a sublocare i locali su ciascun terreno alla Halifax contro pagamento di un canone. Queste operazioni avvenivano nel secondo anno di esenzione parziale della LPDS e, in conformità con l’art. 13, parte B, lett. b), erano considerate operazioni esenti dall’IVA.

17.   Per lo svolgimento dei lavori su ciascun terreno la CWPI incaricava, da parte sua, imprese di costruzione indipendenti e vari professionisti. Essendo stata pagata in anticipo dalla LPDS, la CWPI pagava le imprese di costruzione a completamento dei lavori.

18.   I Commissioners respingevano le richieste di rimborso avanzate dalla LPDS, nonché quelle della CWPI relativamente all’IVA pagata sulle prestazioni dei costruttori indipendenti. A loro giudizio, un’operazione, qualunque sia la sua effettiva natura, condotta al solo fine di evadere l’IVA non è in se stessa né una «cessione o prestazione» né un atto compiuto nell’ambito di un’«attività economica» ai fini IVA. Conseguentemente, né gli obblighi assunti dalla LPDS nei confronti della Halifax né i servizi di costruzione svolti dalla CWPI in favore della LPDS rappresentavano «cessioni o prestazioni» nel senso della Sesta direttiva. I Commissioners aggiungevano che un’operazione condotta al solo fine di evadere l’IVA configurava un «abuso del diritto» e perciò non la si doveva prendere in considerazione ai fini dell’IVA. Nell’uno come nell’altro caso, è chiaro che le uniche vere prestazioni di servizi di costruzione erano state quelle effettuate dai costruttori indipendenti e che esse erano state effettuate direttamente in favore della Halifax.

19.   La Halifax, la LPDS e la CWPI (in prosieguo: le «ricorrenti Halifax») impugnavano il rigetto [delle loro domande] da parte dei Commissioners dinanzi al VAT and Duties Tribunal, London, che respingeva i ricorsi. Esse adivano, allora, la High Court of Justice of England and Wales (Chancery Division), che annullava la sentenza e rimetteva al VAT and Duties Tribunal, London, con l’indicazione di accertare, fra l’altro, se l’unico scopo perseguito dalla LPDS e dalla CWPI nel concludere le operazioni controverse fosse di evadere l’IVA. Il Tribunale adito rispondeva in senso affermativo, sottoponendo altresì alla Corte di giustizia le seguenti questioni (pregiudiziali):

«1)      a)     Se, nelle circostanze rilevanti, le operazioni

i)      che sono state realizzate da ciascuna delle partecipanti al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale e

ii)      che sono prive di un autonomo obiettivo economico

siano qualificabili, ai fini dell’IVA, come cessioni o prestazioni effettuate dalle partecipanti o in favore delle stesse nell’ambito delle rispettive attività economiche.

b) Nelle circostanze rilevanti, quali elementi debbano essere considerati al fine di determinare l’identità dei beneficiari delle prestazioni svolte dai costruttori indipendenti.

2) Se, ai sensi della dottrina relativa all’abuso del diritto, come sviluppata dalla Corte, debbano essere respinte le domande formulate dalle appellanti per il recupero o la [detrazione] dell’imposta assolta a monte, derivanti dall’esecuzione delle operazioni rilevanti».

B –    Causa C-419/02

20.   La BUPA Hospitals Ltd (in prosieguo: la «BHL»), che appartiene al gruppo societario BUPA (in prosieguo: il «gruppo BUPA»), si occupa della gestione di ospedali privati. Le forniture effettuate in tale contesto erano considerate soggette ad un’aliquota pari a zero. Di conseguenza la BHL poteva recuperare l’imposta pagata a monte per l’acquisto di farmaci e protesi dai suoi fornitori senza dover contabilizzare l’imposta a valle sulle sue forniture di tali farmaci e protesi ai propri clienti.

21.   Il governo del Regno Unito annunciava come prossima una legge che escludeva l’applicazione a prestazioni del genere dell’aliquota zero, legge poi entrata in vigore il 1° gennaio 1998. L’effetto della modifica era di escludere le prestazioni in questione, eseguite da privati, dal regime dell’aliquota zero che il Regno Unito aveva applicato in conformità dell’art. 28, n. 2, lett. a) (6), della Sesta direttiva, e di assoggettarle al regime ordinario sancito all’art. 13, parte A, in base al quale ci sarebbe stato esonero senza rimborso dell’imposta assolta a monte.

22.   Nel periodo compreso tra l’annuncio da parte del governo e l’entrata in vigore della nuova legge, il gruppo BUPA elaborava e metteva in atto una serie di operazioni consistenti in accordi di pagamento anticipato che neutralizzavano l’impatto della nuova legge sulla posizione finanziaria della BHL. L’idea era di acquistare, pagandone in anticipo il prezzo, gran copia di farmaci e protesi da specificarsi, prima che la nuova legge entrasse in vigore.

23.   Gli accordi di pagamento anticipato permettevano alla BHL di recuperare l’imposta assolta sui propri acquisti in applicazione degli artt. 10 e 17 della Sesta direttiva. Ai termini dell’art. 17, n. 1, «[i]l diritto a [detrazione] nasce quando l’imposta [detraibile] diventa esigibile»; ai termini del n. 2, lett. a), «[n]ella misura in cui beni e servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo è autorizzato a [detrarre] dall’imposta di cui è debitore (…) l’imposta sul valore aggiunto dovuto o assolta per le merci che gli sono o gli saranno fornite e per i servizi che gli sono o gli saranno prestati da un altro soggetto passivo».

24.   L’art. 10 dispone quanto segue:

«1. Si considera

a) fatto generatore dell’imposta il fatto per il quale si realizzano le condizioni di legge necessarie per l’esigibilità dell’imposta;

b) esigilibità dell’imposta il diritto che l’Erario può far valere a norma di legge, a partire da un dato momento, presso il debitore, per il pagamento dell’imposta, anche se il pagamento può essere differito.

2. Il fatto generatore dell’imposta si verifica e l’imposta diventa esigibile all’atto della cessione di beni o della prestazione di servizi. Le cessioni di beni diverse da quelle di cui all’articolo 5, paragrafo 4, lettera b), e le prestazioni di servizi che comportano successivi versamenti di acconti o pagamenti, si considerano effettuate all’atto della scadenza dei periodi cui si riferiscono tali acconti o pagamenti.

(…)

Tuttavia, nel caso di pagamento di acconti anteriore alla cessione o alla prestazione di servizi, l’imposta diventa esigibile all’atto dell’incasso, a concorrenza dell’importo incassato» (7).

25.   In conformità con queste disposizioni, gli accordi di pagamento anticipato avrebbero condotto al risultato che, anche se le merci fossero state specificate e consegnate dopo l’abolizione del regime dell’aliquota zero, non sarebbe stata addebitata l’IVA, trattandosi di beni pagati mentre ancora sussisteva il diritto al rimborso dell’imposta assolta.

26.   Per ovviare ai rischi derivanti dall’ampio ricorso a pagamenti anticipati a terzi fornitori, il gruppo BUPA decideva di avvalersi di una controllata esterna al proprio gruppo IVA come fornitore da pagare in anticipo. La società indicata apparteneva al Goldsborough Group, un gruppo societario recentemente acquisito dal gruppo BUPA che gestiva parimenti un ridotto numero di ospedali privati. La controllata prescelta veniva ribattezzata BUPA Medical Supplies Ltd (in prosieguo: la «BMSL»). Il suo scopo sociale veniva rettificato ed essa otteneva una licenza per la distribuzione di prodotti farmaceutici.

27.   Per evitare i problemi di liquidità derivanti dall’obbligo di pagare ai Commissioners l’importo corrispondente all’imposta che la BMSL avrebbe dovuto contabilizzare, un’altra controllata del gruppo BUPA, la Goldsborough Developments Ltd (in prosieguo: la «GDL»), conveniva pagamenti anticipati di pari importo speculari e contrari, da effettuarsi entro un periodo contabile di identica durata, con un fornitore appartenente al gruppo IVA BUPA. Anche tale fornitore, la BUPA Gatwick Park Hospital Ltd (in prosieguo: la «Gatwick Park»), faceva parte del gruppo BUPA, aveva rettificato il proprio scopo sociale e ottenuto una licenza per la distribuzione di prodotti farmaceutici.

28.   Il 5 settembre 1997 venivano sottoscritti i contratti di pagamento anticipato tra la BHL e la BMSL, da un lato, e tra la GDL e la Gatwick Park, dall’altro. La BHL s’impegnava a pagare alla BMSL la somma di GBP 100 milioni per la fornitura di imprecisati farmaci (GBP 60 milioni più GBP 10,5 milioni di IVA) e protesi (GBP 40 milioni più GBP 7 milioni di IVA). Lo stesso giorno la BMSL inviava le fatture corrispondenti alla BHL. A quanto pare, questi importi bastavano ad assicurare alla BHL l’intero fabbisogno di farmaci e protesi per un periodo di cinque/otto anni. Sempre il 5 settembre 1997 la GDL s’impegnava a pagare alla Gatwick Park la somma di GBP 100 milioni per la fornitura di imprecisati farmaci (GBP 50 milioni più GPB 8,75 milioni di IVA) e protesi (GBP 50 milioni più 8,75 milioni di IVA). Lo stesso giorno la Gatwick Park inviava le fatture corrispondenti alla GDL. Per quanto riguarda questi ultimi pagamenti anticipati, a quanto pare gli importi convenuti per i farmaci e le protesi da fornire bastavano a soddisfare il fabbisogno in tali merci della GDL per un periodo di cinquanta/cento anni.

29.   In esito a questi due accordi speculari di pagamento anticipato, alla fine del periodo contabile rilevante non doveva essere pagata nessuna imposta ai Commissioners. Il gruppo IVA BUPA, infatti, doveva GBP 17,5 milioni di imposta a valle sulla fornitura della Gatwick Park, ma compensava tale somma con una domanda di rimborso dell’imposta assolta a monte sulle prestazioni della BMSL per un importo di GBP 17,5 milioni. Allo stesso tempo, il gruppo IVA Goldsborough doveva GBP 17,5 milioni di imposta a monte sulla fornitura della BMSL, ma compensava tale importo mediante una domanda di rimborso per le forniture effettuate dalla Gatwick Park. Altrimenti detto, ognuno dei due gruppi IVA era tenuto a versare GBP 17,5 milioni a titolo di IVA, ma aveva diritto a recuperare una somma identica allo stesso titolo. I fondi necessari a finanziare l’operazione erano stati stanziati dalla BUPA Investments Ltd, un’altra società del gruppo BUPA, e trasferiti alle partecipanti agli accordi di prepagamento. Quanto alla BHL, i nuovi contratti di vendita entravano in vigore nel settembre 1998. Gli accordi di prepagamento tra la GDL e la Gatwick Park, invece, venivano attuati nel 2001.

30.   I Commissioners rifiutavano di autorizzare la detrazione dell’IVA tanto alla BHL quanto alla GDL. Le ricorrenti BUPA si appellavano al VAT and Duties Tribunal, London, contro tale decisione. Quest’ultimo respingeva i loro appelli in quanto la BMSL e la Gatwick Park non avevano realizzato un’attività economica o effettuato prestazioni rilevanti ai fini IVA. Respingeva, però, la tesi dei Commissioners che potesse applicarsi la dottrina generale dell’abuso del diritto. Le ricorrenti si appellavano allora alla Chancery Division della High Court e i Commissioners presentavano domanda riconvenzionale.

31.   La High Court decideva di sottoporre alla Corte di giustizia le seguenti questioni pregiudiziali:

«1.      In che senso debba essere interpretata l’espressione “attività economica” di cui all’art. 4, nn. 1 e 2, della [Sesta direttiva IVA], con riferimento alle circostanze rilevanti, alle operazioni rilevanti e alla posizione delle società venditrici.

2.      In che senso debba essere interpretata l’espressione “cessione di un bene” di cui all’art. 5, n. 1, della direttiva, con riferimento alle circostanze rilevanti, alle operazioni rilevanti e alla posizione delle società venditrici.

3.      a) Se vi sia un principio di abuso di diritto e/o di abuso di legge che (indipendentemente dall’interpretazione data alla direttiva) possa precludere il diritto di [detrarre] l’imposta pagata a monte;

b)      In caso affermativo, a quali circostanze dovrebbe essere applicato;

c)      Se debba essere applicato a circostanze analoghe a quelle accertate dal Tribunal.

4.      Se comporti qualche differenza per la risposta alle questioni nn. 1-3 il fatto che il pagamento relativo alle operazioni rilevanti avvenga in un momento in cui qualsiasi cessione successiva dei beni sarebbe stata esente con rimborso dell’IVA pagata allo stadio anteriore come previsto dall’art. 28, n. 2, lett. a), della direttiva.

5.      In che senso debba essere interpretata la direttiva con riferimento particolare alle seguenti questioni. Se, in circostanze quali quelle rilevanti e con riferimento a operazioni quali quelle rilevanti:

a)      le cessioni debbano essere trattate come se fossero state effettuate da fornitori esterni alle società acquirenti, anche se non vi è stata alcuna cessione dalle o alle società venditrici;

o

b)      le cessioni debbano essere trattate come se fossero state effettuate da fornitori esterni alle società venditrici anche se non vi è stata alcuna cessione dalle società venditrici alle società acquirenti.

6.      In che senso debbano essere interpretati l’art. 17 della direttiva e le norme relative alla [detrazione], in circostanze in cui ogni società venditrice, durante un’attività economica, effettua cessioni ad una società acquirente e:

a)      le società acquirenti hanno concluso contratti con le società venditrici per ottenere la cessione di beni;

b)      i beni vengono fatturati e pagati prima della consegna;

c)      l’IVA viene imposta sul pagamento di acconti ai sensi dell’art. 10, n. 2, secondo comma, della direttiva;

d)      i beni devono essere utilizzati dalle società acquirenti per effettuare cessioni che, se fossero state effettuate al momento del pagamento, sarebbero state esenti con il diritto al rimborso delle imposte pagate allo stadio anteriore, ma

e)      ciascuna società acquirente intende farsi consegnare i beni oggetto dei contratti solo se la legge cambia in modo tale che l’uso dei beni da parte delle società acquirenti venga considerato come cessione esente senza diritto al rimborso

[con riferimento al paragrafo e), qualora la legge non sia modificata nel modo descritto, le società acquirenti sono autorizzate a risolvere i contratti con le società venditrici e a chiedere il rimborso del prezzo pagato. Nelle operazioni rilevanti i contratti tra le società acquirenti e le società venditrici contengono disposizioni che consentono tali risoluzioni].

7.      Il Tribunal (al punto 89 della decisione) ha affermato che “nessuno degli individui aventi il potere di prendere decisioni per [la BMSL e la Gatwick Park] (...) aveva un motivo o scopo sostanziale diverso da quello di portare a compimento il sistema di evasione dell’IVA”. Gli appellanti nell’appello proposto alla High Court hanno impugnato tale accertamento di fatto. Ci si chiede se, nel caso in cui tale accertamento di fatto dovesse essere annullato, ciò comporterebbe qualche differenza ─ e, in caso affermativo, quale ─ per le risposte alle questioni nn. 1-6».

C –    Causa C-223/03

32.   L’University of Huddersfield (in prosieguo: l’«Università») è un istituto di educazione superiore (Higher Education Corporation) che presta servizi didattici esenti. Essa aveva progettato di ristrutturare due edifici (noti come West Mill ed East Mill) sui quali aveva acquisito un diritto di locazione. L’IVA assolta sui costi di ristrutturazione sarebbe stata recuperabile per il 14,56% nel 1996 e solo per il 6,04% nel prosieguo. Di conseguenza, i suoi fiscalisti elaboravano alcuni piani per permetterle di recuperare l’intero importo dell’IVA sui lavori di ristrutturazione attraverso una serie di operazioni che coinvolgevano altre e distinte persone giuridiche.

33.   A quel fine veniva creato un discretionary trust (in prosieguo: il «Trust») dove l’Università aveva il potere di nominare e di destituire i fiduciari. Quanto a East Mill, l’edificio oggetto diretto del procedimento principale, il 22 novembre 1996 l’Università decideva di concederlo in locazione tassabile al Trust (8). Il canone annuo iniziale previsto era simbolicamente di GBP 12,50. Lo stesso giorno il Trust, avendo optato per l’imposizione delle sue operazioni, concedeva all’Università un under-lease back [retrosublocazione] contro pagamento di un simbolico canone annuo iniziale di GBP 13. Contemporaneamente, The University of Huddersfield Properties Ltd (in prosieguo: la «Huddersfield Properties»), una consociata non rientrante nel gruppo IVA dell’Università e di proprietà totale di quest’ultima, fatturava all’Università l’importo di GBP 3,5 milioni più un’IVA di GBP 612 500 per futuri servizi di costruzione su East Mill. Poco dopo la Huddersfield Properties stipulava un contratto con l’Università per ristrutturare East Mill e l’Università le pagava le relative fatture. Tale società, infine, concludeva con imprese terze indipendenti i contratti per assicurare i lavori necessari su East Mill. Questi venivano completati nel settembre 1998. In seguito i canoni dovuti per la locazione e la sublocazione furono aumentati, rispettivamente, a GBP 400 000 e GBP 415 000 annui.

34.   Tale piano permetteva all’Università nella sua dichiarazione IVA per il periodo 01/97 di chiedere la detrazione dell’imposta assolta sui lavori edilizi ricevuti, trattandosi di un servizio impiegato ai fini di una successiva operazione imponibile di East Mill per il Trust (9). Il 26 gennaio 2000 i Commissioners liquidavano all’Università gli importi di GBP 612 500 a titolo di IVA, per il periodo 01/97, sui servizi di costruzione forniti dalla Huddersfield Properties relativamente a East Mill, e di GBP 2,28 a titolo di IVA sul canone di affitto di East Mill percepito dal Trust. L’Università proponeva appello dinanzi al VAT and Duties Tribunal, Manchester, contro tale liquidazione dell’IVA.

35.   I Commissioners facevano valere, in sostanza, che un’operazione realizzata esclusivamente o prevalentemente al fine di evadere l’IVA non è una «cessione di beni o una prestazione di servizi». Allo stesso modo, non costituisce un atto compiuto nel corso o al fine di un’«attività economica». In subordine, i Commissioners sostenevano che un’operazione siffatta non avrebbe dovuto essere presa in considerazione, in conformità con il principio giuridico generale che vieta «abusi del diritto», e che, al contrario, alla sua vera natura si sarebbe dovuto applicare il disposto della Sesta direttiva. Da parte sua l’Università adduceva, inter alia, che le operazioni in questione non erano state realizzate «esclusivamente o prevalentemente al fine di evadere l’IVA». Anche se l’interpretazione dei fatti offerta dall’Università comportava ingenti rimborsi «in prima linea» dell’IVA assolta, gli stessi fatti generavano anche ingenti pagamenti dell’IVA sui canoni di locazione per un certo periodo di tempo.

36.   Il Tribunale remittente dichiarava che il ricorso al Trust in relazione a East Mill, la locazione dall’Università al Trust e la sublocazione di East Mill dal Trust all’Università erano state effettuate con l’unica intenzione di ottenere un vantaggio fiscale. A suo giudizio, poi, l’Università intendeva ottenere un risparmio assoluto dell’IVA recedendo dagli accordi IVA relativi a East Mill poco tempo dopo che avevano cominciato a decorrere i termini della locazione (ponendo così fine anche al pagamento dell’IVA sui canoni di locazione). Il medesimo Tribunale, comunque, considerava tutte queste operazioni reali, non fittizie, nel senso che esse si erano tradotte in cessioni e prestazioni effettivamente realizzate.

37.   Alla luce di ciò il VAT and Duties Tribunal, Manchester, decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di giustizia le seguenti questioni pregiudiziali:

«Se, nel caso in cui:

1. un’Università rinuncia al suo diritto all’esenzione dall’IVA riguardante qualsiasi fornitura o prestazione a un immobile di sua proprietà e dà in locazione l’immobile a un Trust costituito e controllato dall’Università,

2. il Trust rinuncia al suo diritto all’esenzione dall’IVA riguardante qualsiasi fornitura a tale immobile e concede all’Università la sublocazione dell’immobile,

3. l’Università ha concluso e dato esecuzione alla locazione e alla sublocazione al solo fine di ottenere un vantaggio fiscale, senza intenzione di svolgere un’attività economica indipendente,

4. la locazione e il leaseback [retrolocazione] costituivano, nell’intenzione dell’Università e del Trust, un piano per differire il pagamento dell’IVA con la caratteristica intrinseca di permettere un risparmio fiscale assoluto in un periodo successivo,

a) la locazione e la sublocazione costituiscano operazioni imponibili ai fini della Sesta direttiva;

b) esse costituiscano attività economiche nel senso della seconda frase dell’art. 4, n. 2, della Sesta direttiva IVA».

III – Valutazione

38.   Nonostante le differenze fra i piani fiscali adottati, le tre fattispecie pongono problemi giuridici identici. I giudici nazionali sollevano, in sostanza, due questioni. La prima: si chiede alla Corte se le operazioni controverse costituiscano attività economiche nel senso dell’art. 4, n. 2, della Sesta direttiva e abbiano ad oggetto «cessioni di beni e (…) prestazioni di servizi, effettuate a titolo oneroso» da un «soggetto passivo che agisce in quanto tale», come indica l’art. 2 della stessa (10).

39.   La seconda questione: se le domande di rimborso o di detrazione dell’imposta assolta a monte possano essere respinte sulla base della dottrina comunitaria dell’abuso del diritto (11).

A –    La nozione di cessione o prestazione nell’esercizio di un’attività economica

40.   Il sistema delle detrazioni previsto dal sistema comune d’imposta sul valore aggiunto vigente nella Comunità è inteso ad esonerare interamente l’imprenditore dall’onere dell’IVA dovuta o pagata nell’ambito di tutte le sue attività economiche (12). È pacifico che la locuzione «attività economica» di cui all’art. 4, n. 2, della Sesta direttiva ha una portata ampia e un carattere obiettivo (13). Come la Corte ha affermato nella sentenza Rompelman, «[i]l sistema comune d’imposta sul valore aggiunto garantisce (…) la perfetta neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di dette attività (…)» (14). Conseguentemente, l’art. 4, n. 1, della direttiva si riferisce espressamente ad un’attività [economica] «indipendentemente dal [suo] scopo o dai [suoi] risultati». Nella sentenza 26 marzo 1987, Commissione/Paesi Bassi, la Corte dichiarava che un’attività, per accertare se sia economica nel senso del sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, «viene considerata di per sé, indipendentemente dalle sue finalità o dai suoi risultati» (15). Per identificare le sue caratteristiche e poter così stabilire se essa sia o meno di natura economica, è pertanto necessario considerare un’attività in modo obiettivo e per se stessa anziché guardare alla possibile finalità dell’operazione o ai motivi delle parti (16).

41.   Questa regola si basa sul presupposto che il sistema comune dell’IVA deve essere neutrale e sul principio della certezza del diritto, in forza del quale l’applicazione della normativa comunitaria dev’essere prevedibile per coloro che vi sono sottoposti (17). La certezza del diritto va garantita con rigore anche maggiore quando si tratta di una normativa che può avere conseguenze finanziarie, al fine di consentire agli interessati di riconoscere con esattezza l’estensione dei loro diritti e dei loro obblighi (18).

42.   Il governo del Regno Unito, con il largo sostegno dei governi di Irlanda, Paesi Bassi e Italia, fa valere, però, che operazioni come quelle in esame, realizzate al solo scopo di recuperare l’imposta assolta a monte e, dunque, di eludere o di differire il pagamento dell’IVA normalmente dovuta, non costituiscono attività economiche nel senso del sistema comune dell’IVA, né possono essere considerate cessioni o prestazioni nel senso della legislazione IVA. L’unico vero intento dei partecipanti alle stesse sarebbe stato di mettere in atto un piano di evasione fiscale, ragion per cui tali attività esulerebbero completamente dagli obiettivi della Sesta direttiva e non potrebbero essere classificate come economiche.

43.   Nell’esaminare gli argomenti esposti dal governo del Regno Unito a tale riguardo è opportuno focalizzare l’attenzione su tre punti. Primo punto. Intendo verificare se, come asserisce il detto governo, la distinzione tra attività lecite e illecite, formulata dalla Corte di giustizia nel determinare la portata della nozione di attività economica, sia rilevante ai fini delle presenti controversie. Secondo punto. Intendo valutare l’importanza attribuita dal governo britannico alle finalità sottese alle operazioni controverse in vista dell’esclusione delle stesse dal novero delle attività economiche. Terzo punto. Intendo discutere le più late conseguenze dell’adozione dell’interpretazione proposta dal governo del Regno Unito, che pretende di prevenire piani di evasione dell’IVA restringendo la portata delle regole IVA medesime.

1.      La nozione di attività economica e la distinzione tra attività lecite e attività illecite

44.   Il ragionamento del governo del Regno Unito, non condiviso dalle ricorrenti nelle tre cause né dalla Commissione, si basa fondamentalmente su un’analogia con una serie di decisioni della Corte di giustizia in cui a talune attività illecite fu dichiarata inapplicabile la legislazione IVA (19). A mio parere, la citata casistica non suffraga la tesi sostenuta dal governo britannico.

45.   Secondo una giurisprudenza costante, il principio della neutralità fiscale osta a una distinzione generalizzata tra attività lecite e illecite (20). In linea di principio perfino operazioni illecite rientrano nell’ambito di applicazione della Sesta direttiva e sono soggette all’IVA (21). È fatta eccezione solo per attività completamente estranee a settori economici leciti (22). Tale eccezione riguarda, però, solo beni o servizi soggetti a divieto tassativo nel territorio della Comunità i quali, a causa della loro stessa natura e delle loro speciali caratteristiche, non possono essere messi in commercio o introdotti in circuiti economici (23). Per esempio, non rientra nell’ambito della Sesta direttiva lo spaccio di droghe o di denaro falso (24). Ciò non vale per le attività in causa, che riguardano servizi di sviluppo e di investimento, la fornitura di protesi e di farmaci e la locazione di proprietà immobiliari: tali operazioni sono dunque intrinsecamente lecite, quand’anche eseguite per evadere il pagamento dell’imposta o per differirlo. Nelle presenti controversie la giurisprudenza in tema di attività illecite e di portata della Sesta direttiva non ha, quindi, la rilevanza che il governo del Regno Unito le attribuisce (25).

2.      La rilevanza dello scopo ai fini della qualificazione di un’attività economica

46.   Il Regno Unito ritiene che, al fine di identificare l’intrinseca natura di un’attività, si debba tener conto di tutte le circostanze in cui la relativa operazione si svolge (26), compreso lo scopo che questa persegue (27).

47.   A tale proposito il detto governo cita le sentenze Stockholm Lindöpark, Faaborg-Gelting e Sinclair Collis. In quei casi, però, le attività considerate erano incontestabilmente di tipo economico. Nella causa Faaborg-Gelting Linien si trattava di stabilire se la ristorazione configurasse una cessione di beni o piuttosto una prestazione di servizi nel senso della Sesta direttiva (28). Nella causa Stockholm Lindöpark andava accertato se l’attività di gestione di un campo da golf costituisse una locazione di proprietà immobiliare oppure una prestazione di servizi legati alla pratica dello sport o all’educazione fisica, e ciò allo scopo di stabilire se essa potesse essere considerata esente dall’IVA (29). Nella causa Sinclair Collis si doveva stabilire se il conferimento, da parte del proprietario di locali commerciali al proprietario di un distributore di sigarette, del diritto di installarvi il detto distributore e di assicurarne il funzionamento e il rifornimento integrasse una locazione di beni immobili (30). In ciascun caso la Corte tenne conto delle circostanze nelle quali le attività economiche si erano svolte per poterle correttamente classificare a norma della Sesta direttiva, senza discutere se esse rientrassero nell’ambito di applicazione di quest’ultima oppure no. Da nessuno di tali casi può inferirsi che un’attività cessa di essere «economica» se è eseguita al fine di evadere o di differire il pagamento dell’IVA.

48.   Vero è che le operazioni qui in causa sembrano essere meri strumenti ovvero forme indirette di attuazione di complessi piani di evasione fiscale. Evadere le tasse è, però, in ogni caso, un’attività che non inerisce in modo diretto alle varie attività imprenditoriali oggettivamente realizzate a titolo oneroso nelle singole operazioni controverse. L’intento di evadere le tasse è, insomma, una circostanza esterna che non incide sulla natura intrinseca e oggettiva di ciascuna di tali operazioni (31). Queste ultime devono essere analizzate una per una alla luce delle circostanze oggettive rilevanti per verificare se vi sia una cessione di beni o una prestazione di servizi a titolo oneroso e, di conseguenza, per identificare la loro intrinseca e oggettiva natura.

49.   Allo stesso modo, neanche la circostanza che le attività private di un soggetto passivo restino estranee all’ambito di applicazione della Sesta direttiva suffraga la tesi del governo del Regno Unito. Nella causa Wellcome Trust la Corte esaminò se la Wellcome avesse agito come un investitore privato oppure avesse esercitato un’attività commerciale nella gestione di un portafoglio di investimenti. La Corte valutò le circostanze di specie e concluse che la Wellcome andava considerata un consumatore finale e non «un soggetto passivo che agisce in quanto tale» nel senso dell’art. 2, n. 1, della Sesta direttiva. Nella causa Enkler (32) occorreva accertare se il dare in locazione un autocaravan configurasse un utilizzo di un bene materiale «per ricavarne introiti aventi effettivamente un certo carattere di stabilità» nel senso dell’art. 4, n. 2, della Sesta direttiva. La Corte considerò che un autocaravan «per sua natura (…) può essere usato sia per scopi economici sia a fini privati» (33). Per accertare se l’utilizzo di un bene materiale risponda ad una finalità economica, la Corte dichiarò che si deve tener conto di circostanze come la natura del bene, la durata effettiva della sua locazione, l’entità della clientela e l’importo degli introiti (34). Ad ogni modo, nessuno ha sostenuto nelle presenti controversie che le operazioni in esame sono state realizzate a fini privati. Trattasi di attività imprenditoriali, benché eseguite in applicazione di piani di evasione dell’IVA.

50.   Del pari, contrariamente a quanto sostiene il governo del Regno Unito, dalla posizione della Corte nelle cause Breitsohl (35) e INZO (36) non discende che un’attività perde il suo carattere economico se la si è eseguita al solo scopo di procurarsi un beneficio fiscale. Oggetto di quelle due cause era la posizione di una persona che chiedeva la detrazione dell’IVA dichiarando il falso quanto al suo status di soggetto passivo. La Corte affermò che «[n]elle situazioni fraudolente o abusive in cui ad esempio [l’interessato] ha finto di voler avviare un’attività economica specifica, ma ha cercato in realtà di far entrare nel suo patrimonio privato beni che potevano costituire oggetto di una detrazione, l’amministrazione tributaria può chiedere, con effetto retroattivo, il rimborso delle somme detratte poiché queste detrazioni sono state concesse sulla base di false dichiarazioni» (37).

51.   Nelle presenti controversie non si afferma che le ricorrenti intendono recuperare l’IVA sulla base di dichiarazioni false. Inoltre andrebbe operato un distinguo tra l’intenzione di intraprendere attività economiche, che è un presupposto per l’acquisto dello status di soggetto passivo, e lo scopo di tali attività, che, conformemente all’art. 4, n. 1, della Sesta direttiva, è irrilevante. Le controversie in esame, a differenza delle cause Breitsohl e INZO, vertono sullo scopo delle attività economiche eseguite dalle ricorrenti piuttosto che sull’eventuale intenzione di queste ultime di eseguirle in quanto soggetti passivi. Infatti i servizi e i beni erano stati realmente trasmessi a titolo oneroso, quantunque come parte di un’operazione accuratamente orchestrata per creare un diritto al recupero dell’imposta.

52.   Secondo l’interpretazione delle pertinenti disposizioni della direttiva offerta dal governo del Regno Unito, le intenzioni delle parti di un’operazione sono di centrale importanza per qualificare le conseguenti cessioni e prestazioni come cessioni e prestazioni fatte nell’ambito di un’attività economica da parte di un soggetto passivo nel senso della Sesta direttiva. Tale interpretazione collide con il carattere oggettivo della nozione di «attività economica», che costituisce un tratto fondamentale del sistema dell’IVA, imposto dal principio della certezza del diritto, e non dovrebbe essere rimesso alle intenzioni degli imprenditori interessati (38).

3.      Prevenire l’evasione dell’IVA restringendo la portata della legislazione IVA

53.   L’obiettivo perseguito dal governo del Regno Unito nel suggerire tale interpretazione sembra essere quello di contrastare i piani di evasione dell’IVA limitando l’ambito di applicazione dello stesso sistema IVA. Altrimenti detto, ad operazioni intese a evitare o a differire il pagamento dell’IVA, ove accertate, il detto sistema semplicemente non andrebbe applicato. A mio parere, la Corte non dovrebbe accogliere questo approccio, poiché è in contrasto con la sua giurisprudenza. La Corte, inoltre, qualora intendesse discostarsi dal suo corrente orientamento e optare per la tesi sostenuta dal governo del Regno Unito, dovrebbe considerare appieno i problemi che quell’approccio interpretativo pone, quali mi accingo a descrivere brevemente nei prossimi paragrafi. Infine, per una trattazione efficace dei piani di evasione dell’IVA, occorrerebbe considerare che esistono soluzioni meno drastiche, più consone allo spirito e alla natura del sistema comune dell’IVA. Il punto sarà discusso infra, nella sezione intitolata «Abuso del diritto».

54.   La tesi del Regno Unito, secondo cui è importante considerare lo scopo di una operazione, conduce de facto al paradosso che ad operazioni come quelle in discorso non si applichi la Sesta direttiva, giacché le parti intendevano per prima cosa evadere o differire il pagamento dell’IVA. Come la Commissione ha osservato all’udienza, questo approccio interpretativo potrebbe finire con l’essere adoperato non solo dalle autorità tributarie a loro vantaggio, come nei casi di specie, ma anche dai soggetti passivi dell’imposta. Questi ultimi potrebbero in linea di principio anche far valere che una certa operazione, alla luce del suo scopo, non avvenne nell’ambito di un’attività economica, con la conseguenza che non rientrerebbe nel sistema IVA. Così, per esempio, nel caso Halifax, dove fu realizzata una particolare operazione tra la Halifax e la LPDS per la prestazione di servizi edilizi che implicava l’effettivo pagamento da parte della Halifax di circa GBP 164 000 di cui GBP 25 000 di IVA. Quella operazione, al pari delle altre, era stata eseguita al solo scopo di evadere l’IVA (39), sicché, a seguire l’approccio suggerito dal governo del Regno Unito, non le si dovrebbe applicare il sistema IVA, benché abbia effettivamente dato luogo al pagamento dell’imposta. Non mi è del tutto chiaro come si debba trattare quella particolare operazione, ove si accolga l’approccio volontaristico propugnato dal Regno Unito, perché essa rimanga nell’ambito di applicazione della Sesta direttiva. A questo problema ne è strettamente legato un altro, sempre derivante dall’interpretazione proposta dal governo britannico.

55.   Come mostra l’ordinanza di rinvio nella causa Halifax, se non si tiene conto di operazioni di evasione fiscale, escludendole dal sistema IVA, diviene necessario ricostruire la catena delle forniture o prestazioni per capire chi tra i loro destinatari resti soggetto all’IVA. Il più delle volte i prenditori delle prestazioni non saranno quelli designati dai contratti o indicati sulle fatture per le operazioni di cui non si tiene conto. Tale ricostruzione pone seri problemi.

56.   Innanzitutto, essa presuppone che ci sia un unico modo normale di eseguire, per esempio, lavori edilizi, nelle cause Halifax e Huddersfield, e di acquistare farmaci e protesi, nella causa BUPA. Una normale operazione di questo genere rientrerebbe nel sistema IVA, ma sussiste il rischio che resti una pura speculazione, poiché in linea di principio non esiste un solo modo normale di condurre un’attività economica. Non è in sé anormale che, per esempio, una banca si avvalga dell’interposizione di società di investimento e di sviluppo per realizzare lavori edilizi, anziché contrattare direttamente con le imprese di costruzione. Nessuno di questi due modi di condurre gli affari può essere considerato più normale dell’altro. Sceglierne uno al posto dell’altro per le operazioni già eseguite dalle parti ma irrilevanti ai fini IVA sarebbe questione di puro arbitrio.

57.   Secondariamente, la ricostruzione della catena non tiene conto di effettive cessioni di proprietà, o di prestazioni di servizi a titolo oneroso, per concentrarsi piuttosto sul risultato complessivo dell’operazione ritenuta imponibile. Ciò è incompatibile con il principio fondamentale del sistema comune dell’IVA che risulta dagli artt. 2 della Prima e della Sesta direttiva, ai cui sensi l’IVA si applica a qualsiasi operazione per ogni prestazione della catena distributiva (40).

58.   Un altro, e a mio avviso insoluto, problema cui dà adito l’interpretazione suggerita dal Regno Unito è stabilire se l’intenzione di ottenere un vantaggio fiscale fosse comune a tutte le parti coinvolte nel piano per escludere le suddette attività dall’applicazione della Sesta direttiva. Invero, come osservato dalla Commissione all’udienza, sussiste un concreto pericolo che i partecipanti all’operazione mossi dal solo scopo di conseguire benefici fiscali pregiudichino quelli ignari che abbiano eseguito o ricevuto beni e servizi. Trovo che l’unica soluzione soddisfacente al problema sia di rifiutarsi fermamente di accogliere l’interpretazione della nozione di cessione o prestazione eseguita da un soggetto passivo nell’ambito di un’attività economica che il governo britannico propone.

59.   Alla luce di quanto precede ritengo che la Corte debba rispondere ai giudici nazionali che le espressioni «attività economica», «cessioni» e «prestazioni» effettuate da un «soggetto passivo che agisce in quanto tale», di cui agli artt. 2 e 4 della Sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati Membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, devono essere interpretate nel senso che ogni operazione controversa va considerata oggettivamente e per sé. Sotto tale profilo, è irrilevante il fatto che una cessione o prestazione sia eseguita al solo scopo di conseguire un vantaggio fiscale.

B –    Abuso del diritto

60.   I giudici nazionali domandano se la nozione di abuso del diritto, già riconosciuta dalla Corte in altri settori del diritto comunitario, sia applicabile anche all’ambito IVA. Detta dottrina osterebbe a che i soggetti passivi traggano benefici fiscali da operazioni intraprese ed eseguite proprio e solo allo scopo di assicurarsi tali agevolazioni.

61.   La Corte ha avuto ripetute occasioni di affermare la sua posizione in materia di «abuso del diritto» o, più in generale, di semplice «abuso». Il governo del Regno Unito, sostenuto dai governi di Irlanda, Paesi Bassi e Francia nonché dalla Commissione, richiama tale giurisprudenza a suffragio della propria tesi che quella dottrina si applichi anche in materia di IVA.

1.      La nozione di abuso nella giurisprudenza della Corte

62.   Un’analisi della casistica della Corte rivela una cospicua serie di elementi convergenti per quanto riguarda la nozione di abuso nel diritto comunitario. Cominciamo con il contesto delle libertà fondamentali: la Corte ha affermato che il raggiro della normativa di uno Stato membro mediante l’esercizio di tali libertà è inammissibile (41). Questo principio è stato ribadito dalla Corte in altri settori come quello della sicurezza sociale, dove essa ha del pari affermato che non possono trarsi benefici da abusi o frodi (42). In altre controversie, in materia di politica agricola comune, la Corte ha affermato, seguendo la stessa logica, che l’applicazione della legislazione pertinente sulle restituzioni all’esportazione «non potrebbe in alcun caso estendersi fino a farvi rientrare pratiche abusive di operatori economici» (43). In un altro caso relativo allo stesso ambito, vertente sul pagamento di importi compensativi all’importazione di formaggio in Germania da un paese terzo, la Corte ha statuito che, «se fosse provato che l’importazione e la riesportazione di questi formaggi non sono state effettuate nell’ambito di operazioni commerciali normali, ma soltanto per beneficiare illegittimamente della concessione di ICM [importi compensativi monetari]», il pagamento non sarebbe dovuto (44). In un diverso ordine di casi, in materia di diritto societario, la Corte ha altresì riconosciuto che un azionista non deve poter invocare il diritto comunitario allo scopo di ottenere vantaggi illeciti e palesemente estranei all’obiettivo della disposizione considerata (45). Più di recente, nella causa Centros, che verteva su un asserito abuso del diritto di stabilimento, la Corte ha ribadito la sua posizione affermando che «uno Stato membro ha il diritto di adottare misure volte ad impedire che, grazie alle possibilità offerte dal Trattato, taluni dei suoi cittadini tentino di sottrarsi all’impero delle leggi nazionali, e che gli interessati non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente del diritto comunitario» (46).

63.   Quest’ultima sentenza riflette i due principali contesti in cui la Corte ha analizzato la nozione di abuso: quando s’invocano abusivamente le disposizioni del diritto comunitario per evadere la normativa nazionale e quando si invocano abusivamente le disposizioni del diritto comunitario per conseguire agevolazioni in una maniera che contrasta con gli scopi e le finalità di quelle stesse disposizioni (47).

64.   Ritengo che dalla casistica esaminata possa senz’altro inferirsi un principio generale di diritto comunitario (48). La Corte lo ha sintetizzato affermando che «i singoli non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente delle norme comunitarie» (49). Tale principio, però, enunciato in questa forma generale e piuttosto ridondante, di per sé non può chiarire se un diritto derivante da una specifica disposizione comunitaria sia stato esercitato in maniera abusiva. Perché diventi operativo, occorrono una dottrina o un criterio più puntuali (50).

65.   A tale proposito discende dalla casistica passata in rassegna che la Corte cerca un cauto bilanciamento tra lasciare ai giudici nazionali la valutazione degli abusi in conformità con il proprio diritto interno (51) e garantire che tale valutazione non pregiudichi la piena e uniforme applicazione della normativa comunitaria asseritamente invocata in maniera abusiva (52). Essa ha perciò sviluppato un parametro alla stregua del quale valutare gli abusi a livello nazionale. In primo luogo, la valutazione dell’abuso deve fondarsi su elementi oggettivi. In secondo luogo, e soprattutto, lo si deve valutare tenendo conto dello scopo e degli obiettivi della disposizione comunitaria che è invocata in maniera asseritamente abusiva (53). Al riguardo, dato che la determinazione dello scopo è questione di interpretazione, la Corte ha esplicitamente escluso in numerosi casi la sussistenza di un abuso (54).

66.   Nella causa Emsland Stärke (55), comunque, la Corte ha fatto un passo in avanti nella formulazione di una più elaborata dottrina comunitaria dell’abuso del diritto. Si chiedeva alla Corte se un esportatore potesse perdere il diritto al pagamento di una restituzione all’esportazione anche laddove le condizioni formali per assicurare tale restituzione fossero soddisfatte in conformità con le pertinenti disposizioni del regolamento (CEE) della Commissione 29 novembre 1979, n. 2730, recante modalità comuni di applicazione del regime delle restituzioni all’esportazione per i prodotti agricoli (56). In sostanza, le merci in questione erano state oggetto di uno «schema a U» in base al quale esse venivano esportate e immesse in libera pratica per uso interno in un paese terzo e reimportate subito dopo nella Comunità, immutate e con lo stesso mezzo di trasporto.

67.   La Corte ha dichiarato, pertanto, che le disposizioni comunitarie controverse vanno interpretate nel senso che il diritto alla restituzione si perde in caso di abuso. Per accertare comportamenti abusivi essa ha quindi introdotto un parametro dato dalla sussistenza, da un lato, di «un insieme di circostanze oggettive dalle quali risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa comunitaria, l’obiettivo perseguito dalla detta normativa non è stato raggiunto» (57) e, dall’altro, di «un elemento soggettivo che consiste nella volontà di ottenere un vantaggio derivante dalla normativa comunitaria mediante la creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento» (58). È in fondo proprio questo parametro che il governo del Regno Unito chiede venga applicato anche nel sistema comune dell’IVA, sebbene nessuna disposizione della Sesta direttiva o del diritto nazionale lo preveda espressamente.

68.   In sostanza, la casistica esaminata rivela un’impostazione costante della nozione di abuso (non sempre denominato abuso del diritto), alla cui stregua può parlarsi di abuso se il diritto invocato non è consono agli scopi delle norme da cui formalmente scaturisce (59). Il cittadino può invocare un diritto solo nei limiti in cui la disposizione comunitaria che formalmente glielo conferisce non gli serva a conseguire «vantaggi illeciti e palesemente estranei all’obiettivo di tale disposizione» (60). Al contrario, quando il diritto è esercitato nei limiti posti dagli obiettivi e dai risultati perseguiti dalla disposizione comunitaria di cui trattasi, non c’è abuso ma solo legittimo esercizio del diritto (61).

69.   Sono perciò del parere che questa nozione di abuso valga da principio interpretativo del diritto comunitario, come ha sostenuto la Commissione nelle sue osservazioni scritte (62). Decisivo nell’affermare l’esistenza di un abuso appare l’ambito teleologico della norma comunitaria invocata(63), il quale deve essere definito al fine di stabilire se tale disposizione effettivamente attribuisca il diritto rivendicato, nel senso che quest’ultimo non resti manifestamente fuori dal suo ambito di applicazione. Ciò spiega perché la Corte spesso parli non di abuso del diritto, bensì semplicemente di abuso.

70.   Al riguardo, ciò che nella sentenza Emsland Stärke è definito l’elemento soggettivo dell’abuso non pregiudica la natura interpretativa della nozione di abuso nel diritto comunitario (64). In quella sentenza la Corte associò il detto elemento soggettivo alla conclusione che la situazione che dava luogo all’applicazione di una determinata norma comunitaria era meramente artificiosa. Secondo me, questa conclusione di artificiosità di alcuni eventi od operazioni non deve basarsi su una valutazione delle intenzioni soggettive di chi invoca il diritto comunitario, bensì risultare con certezza da una serie di circostanze oggettive verificate caso per caso. Ciò è peraltro in linea con il riferimento della Corte, sempre nella sentenza Emsland Stärke, al «solo scopo» di un’attività o di un comportamento come elemento centrale a sostegno della conclusione che sia stato commesso un abuso del diritto comunitario (65). A mio avviso, la Corte, allorché assume il parere che esiste un abuso ogniqualvolta l’attività controversa non potrebbe avere altro scopo o giustificazione che attivare l’applicazione delle disposizioni di diritto comunitario in modo contrario al loro scopo, è come se adottasse un criterio oggettivo di valutazione dell’abuso. Vero è che quegli elementi oggettivi rivelano che chi ha posto in essere tale attività intendeva molto probabilmente abusare del diritto comunitario. Pure, non è questa intenzione il fattore decisivo per la valutazione dell’abuso, bensì l’attività stessa oggettivamente considerata. Al riguardo è sufficiente fare il caso in cui A si limita, senza riflettere oltre, a seguire il consiglio di B e compie un’attività per la quale non c’è altra spiegazione che procurare un beneficio fiscale ad A. Il fatto che A non intendesse abusare del diritto comunitario non rileverà ai fini della valutazione dell’abuso. Ciò che importa non è quanto A abbia effettivamente in mente, ma il fatto che l’attività, parlando oggettivamente, non ha altra spiegazione che assicurargli un beneficio fiscale.

71.   Dal mio punto di vista, quindi, non dovrebbero essere gli eventuali intenti elusivi soggettivi delle parti ad integrare l’elemento soggettivo di cui alla sentenza Emsland Stärke. Al contrario, gli intenti delle parti di conseguire un beneficio indebito dall’ordinamento comunitario si possono semplicemente inferire dal carattere artificioso della situazione da giudicarsi alla luce di una serie di circostanze oggettive. Qualora tali circostanze oggettive siano dimostrate, si deve concludere che chi si appelli al tenore letterale di una disposizione dell’ordinamento comunitario per far valere un diritto che confligge con gli scopi di quest’ultima non merita che gli si riconosca quel diritto. In circostanze del genere la norma di legge dev’essere interpretata, nonostante la sua lettera, nel senso che non conferisce in realtà il diritto. È sullo scopo oggettivo della norma comunitaria e sulle attività poste in essere, e non sull’intento soggettivo degli interessati, che, a mio avviso, s’incentra la dottrina comunitaria dell’abuso. Ritengo, pertanto, che il ricorso alla locuzione «abuso del diritto» per descrivere ciò che, secondo la giurisprudenza della Corte, è in sostanza un principio interpretativo del diritto comunitario possa in realtà trarre in inganno (66). Preferisco, perciò, l’espressione «divieto di abusi del diritto comunitario» e parlerò di «abuso del diritto» solo ove ciò serva a semplificare.

72.   Affronterò ora il problema, nelle presenti fattispecie, dell’applicabilità di tale principio interpretativo del diritto comunitario allo specifico settore del sistema comune armonizzato dell’IVA e, ove esso sia applicabile, della definizione dei suoi criteri di applicazione in eventu.

2.      L’applicabilità del principio del divieto di abusi del diritto comunitario nel sistema comune dell’IVA

73.   L’avvocato generale Tizzano osservava che «ogni ordinamento che aspiri ad un minimo di completezza deve contenere delle misure, per così dire, di autotutela, al fine di evitare che i diritti da esso attribuiti siano esercitati in maniera abusiva, eccessiva o distorta. Una tale esigenza non è affatto estranea all’ordinamento comunitario» (67). Secondo me, neanche il sistema comune dell’IVA è immune dal rischio, inerente a ogni sistema giuridico, che siano esercitate azioni formalmente conformi a una disposizione di legge, ma che costituiscono un abuso delle possibilità dischiuse dalla stessa, in contrasto con i suoi scopi ed i suoi obiettivi.

74.   Ciò considerato, è difficile immaginare il sistema comune dell’IVA come una sorta di ambito immune da abusi in seno al sistema giuridico comunitario, dove quel divieto non dovrebbe valere. Non c’è ragione per la quale tale principio generale del diritto comunitario debba dipendere, in questo ambito, dall’affermazione espressa da parte del legislatore che anche le disposizioni delle direttive IVA sono soggette alla regola, ripetutamente affermata dalla Corte, per la quale nessuna disposizione del diritto comunitario può essere legittimamente invocata per assicurare benefici manifestamente contrari ai suoi scopi e ai suoi obiettivi. Tale regola, concepita come un principio interpretativo, costituisce un’indispensabile valvola di sicurezza per tutelare gli obiettivi di tutte le disposizioni di diritto comunitario contro un’applicazione formalistica basata unicamente sul loro tenore letterale (68). L’idea che tale nozione si applichi anche all’ambito dell’IVA è del tutto coerente con la posizione recentemente assunta dalla Corte nella sentenza Gemeente Leusden, secondo la quale «la lotta contro ogni possibile frode, evasione ed abuso è un obiettivo riconosciuto e promosso dalla Sesta direttiva» (69).

75.   Nella misura in cui quel principio è concepito come un principio interpretativo generale, non occorre un’espressa previsione da parte del legislatore comunitario perché lo si applichi alle disposizioni della Sesta direttiva. Dal mero fatto che un principio di interpretazione che vieti gli abusi non sia lì posto espressamente – e lo stesso potrebbe valere, per esempio, per i principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento, come ha osservato all’udienza il governo irlandese –, non possiamo inferire, insomma, che il legislatore comunitario intendesse escludere quel principio dalla Sesta direttiva. Al contrario, quand’anche nella Sesta direttiva ci fosse una norma che espressamente afferma quel principio, la si potrebbe considerare, come notava la Commissione, una mera dichiarazione o codificazione di un principio generale già esistente (70).

76.   Proprio per queste ragioni non posso convenire con l’opinione delle ricorrenti secondo cui nelle fattispecie in esame l’applicazione di un principio generale che vieti gli abusi nel contesto della Sesta direttiva dipende necessariamente dall’adozione da parte dei singoli Stati membri di adeguate disposizioni antifrode, conformi al procedimento descritto all’art. 27 della Sesta direttiva (71). Se così fosse, il sistema comune dell’IVA diventerebbe un settore giuridico speciale dove teoricamente ogni comportamento opportunistico dei soggetti passivi riconducibile alla lettera di una sua disposizione e teso ad ottenere indebiti benefici fiscali ai danni delle autorità tributarie sarebbe tollerato, salvo previa adozione da parte degli Stati membri di misure legislative contrarie.

77.   In sintesi, non vedo perché la normativa IVA non debba essere interpretata in conformità con il principio generale del divieto di abusi del diritto comunitario. Vero è che il diritto tributario è spesso dominato da legittime preoccupazioni connesse alla certezza del diritto, derivanti in particolare dalla necessità di garantire la prevedibilità degli oneri finanziari a carico dei soggetti passivi e dal principio della riserva di legge in materia tributaria. Tuttavia, già da un raffronto tra le legislazioni degli Stati membri si capisce che tali preoccupazioni non escludono il ricorso a certe disposizioni generali e ad indeterminate nozioni di diritto tributario per prevenire l’illegittima evasione fiscale (72). La certezza del diritto deve essere bilanciata con altri valori del sistema giuridico. La legislazione fiscale non può diventare una sorta di «giungla» giuridica dove in teoria qualunque comportamento opportunistico deve essere tollerato finché risponde ad un’interpretazione rigidamente formalistica delle disposizioni fiscali considerate e il legislatore non ha adottato espressamente apposite misure di prevenzione.

78.   L’art. 27 della Sesta direttiva non preclude l’adozione della dottrina dell’abuso per interpretare le comuni regole IVA. Indubbiamente la Corte ha più volte affermato che gli Stati membri sono tenuti al rispetto di tutte le disposizioni della Sesta direttiva e che non possono opporre al contribuente disposizioni che derogano al sistema della Direttiva ove la deroga non sia conforme allo stesso art. 27 (73). Ciò vuol dire che la necessità di prevenire l’evasione o la frode fiscale non può giustificare l’adozione di misure nazionali che deroghino alla Direttiva senza seguire la procedura prevista all’art. 27 (74); e che, inoltre, sono autorizzate solo le deroghe proporzionate e necessarie al raggiungimento degli scopi espressamente indicati nel detto articolo (75).

79.   Nondimeno, il divieto di abuso del diritto comunitario, visto come principio interpretativo, non genera deroghe al dettato della Sesta direttiva. Il risultato della sua applicazione è che la norma giuridica interpretata non può ritenersi conferire il diritto controverso, giacché è evidente che quest’ultimo è estraneo agli scopi e agli obiettivi perseguiti della stessa norma abusivamente invocata. Sotto tale profilo, e soprattutto, l’operatività di questo principio interpretativo non comporta che le attività economiche eseguite non rilevino ai fini IVA o debbano essere sottratte all’applicazione della Sesta direttiva. Un’interpretazione della Sesta direttiva conforme al detto principio può avere solo la più ovvia delle conseguenze possibili nel contesto dell’interpretazione giuridica: che quel diritto di fatto non è conferito, nonostante la lettera della disposizione di legge. Se questa interpretazione si presta a deroghe, ciò deriva solo dal testo della disposizione e non dalla disposizione stessa, la quale è più della sua lettera. L’applicazione di questo principio comunitario di interpretazione centra, inoltre, pienamente l’obiettivo di assicurare un’applicazione uniforme delle regole IVA in tutti gli Stati membri, sotteso ai requisiti di procedura e ai limiti all’adozione di misure nazionali finalizzate a prevenire alcune forme di evasione o di frode fiscale posti all’art. 27.

80.   Non sussiste, perciò, contraddizione tra l’applicazione del principio interpretativo di diritto comunitario che vieta abusi nel sistema comune dell’IVA e il procedimento descritto all’art. 27 per l’introduzione da parte degli Stati membri di speciali misure derogatorie alla Sesta direttiva finalizzate a prevenire alcune forme di evasione o di frode.

81.   Non condivido neppure l’obiezione sollevata da alcune ricorrenti secondo cui il detto principio interpretativo non varrebbe in relazione al diritto alla detrazione fiscale, in quanto questo sarebbe conferito da disposizioni interne di attuazione della Sesta direttiva. Il diritto alla detrazione è conferito dalla Sesta direttiva. È un diritto dell’ordinamento comunitario il cui fondamento normativo è l’art. 17 della Sesta direttiva e il cui contenuto, inoltre, non lascia agli Stati membri alcun margine di discrezionalità per quanto attiene alla sua attuazione (76). Dato che tali disposizioni comunitarie perseguono obiettivi e risultati precisi, le norme di diritto interno che le attuano devono essere interpretate e applicate dalle autorità nazionali conformemente a questi (77). Ne consegue che tale principio interpretativo di diritto comunitario, nella misura in cui è inteso a garantire che gli scopi e gli obiettivi della legislazione comunitaria – in particolare quelli delle disposizioni della Sesta direttiva che stabiliscono il diritto alla detrazione fiscale – non siano distorti, dev’essere seguito anche dalle autorità nazionali allorché applicano il proprio diritto in materia di detrazione fiscale (78). Convengo, poi, con la Commissione quando osserva che la circostanza che una nozione di abuso sia stata sviluppata dalla Corte, per esempio nella sentenza Emsland Stärke, nel contesto di un regolamento e in una situazione avente ad oggetto fondi comunitari, e non a proposito della Sesta direttiva, è inconferente. Ciò che importa è che l’IVA sia disciplinata da un sistema uniforme e che le sue disposizioni siano interpretate uniformemente. Faccio presente che nella sentenza Gemeente Leusden la Corte ha già fatto riferimento espresso alla nozione di abuso enunciata nella sentenza Emsland Stärke nell’esaminare la nozione di abuso nel contesto della Sesta direttiva (79).

82.   Le maggiori difficoltà e obiezioni all’applicazione di tale principio interpretativo alla Sesta direttiva riguardano la definizione dei criteri in base ai quali esso opererebbe in quello specifico settore. Al riguardo si deve tenere conto dei principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento.

3.      La costruzione della nozione di abuso del diritto comunitario come applicabile al sistema IVA, in conformità con i principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento

83.   I criteri di applicazione all’ambito IVA del principio interpretativo che vieta abusi del diritto comunitario devono essere stabiliti alla luce delle caratteristiche e dei principi di questo sistema armonizzato. Il parametro di valutazione dell’abuso enunciato nella sentenza Emsland Stärke è di grande utilità sotto questo profilo, ma la specificità dell’IVA come imposta di carattere oggettivo ne sconsiglia una trasposizione automatica. Inoltre, l’assenza di un unico criterio di applicazione, per ogni ambito del diritto comunitario, del principio che vieta abusi dev’essere considerata perfettamente naturale nell’ordinamento comunitario, come in ogni altro sistema legale (80).

84.   Definire la portata di questo principio del diritto comunitario, come applicabile al sistema comune dell’IVA, è in fondo un problema di determinazione dei limiti dell’interpretazione delle disposizioni delle direttive IVA che conferiscono certi diritti ai contribuenti. Al riguardo l’analisi oggettiva del divieto di abusi dev’essere bilanciata con i principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento che a propria volta «fanno parte dell’ordinamento giuridico comunitario» (81) e alla cui luce vanno interpretate le disposizioni della Sesta direttiva (82). Da questi principi discende che i contribuenti hanno diritto a conoscere in anticipo la loro posizione fiscale e, a tal fine, a poter fare affidamento sul comune significato della terminologia della legislazione IVA (83).

85.   La Corte ha poi ripetutamente affermato, in linea con la posizione generalmente assunta dagli Stati membri in materia fiscale, che i contribuenti sono liberi di organizzare i loro affari cercando di limitare il proprio carico fiscale. Nella sentenza BLP Group la Corte ha affermato che «la scelta, da parte di un imprenditore, tra operazioni esenti e operazioni soggette ad imposta può basarsi su tutta una serie di elementi, in particolare su considerazioni di carattere fiscale riguardanti il regime dell’IVA» (84). La legge non impone di gestire un affare nel modo che assicuri allo Stato il maggior gettito fiscale. Il principio base è quello della libertà di scegliere la forma di conduzione degli affari soggetta a minore imposta, al fine di minimizzare i costi (85). D’altro canto, tale libertà di scelta è subordinata alle legittime possibilità permesse dal sistema IVA. Il principio che vieta abusi nel sistema IVA è inteso proprio a definire la gamma di scelte che il sistema comune dell’IVA deve dischiudere ai contribuenti. Tale definizione deve tenere conto dei principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento dei contribuenti.

86.   In virtù di tali principi, la portata del principio interpretativo di diritto comunitario che vieta abusi della legislazione IVA deve essere definita in modo da non pregiudicare operazioni legittime. Il suo potenziale impatto negativo è scongiurato, comunque, se s’interpreta il divieto di abusi nel senso che il diritto invocato da un soggetto passivo è escluso solo quando l’attività economica corrispondente non ha altra spiegazione che quella di precostituire quel diritto contro le autorità tributarie ed il riconoscimento del diritto colliderebbe con gli scopi e i con risultati delle disposizioni in questione del sistema comune dell’IVA. Attività economiche siffatte, anche se non illecite, non meritano di essere protette invocando i principi comunitari di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento, perché rispondono all’unico scopo di sovvertire la finalità dello stesso sistema legale.

87.   Sono perciò del parere che la nozione di abuso del diritto comunitario applicabile al sistema IVA operi sulla base di un criterio costituito da due elementi i quali devono sussistere entrambi per poter affermare l’esistenza di un abuso del diritto comunitario in materia. Il primo corrisponde all’elemento soggettivo menzionato dalla Corte nella sentenza Emsland Stärke, ma è soggettivo solo in quanto intende verificare il fine delle attività di cui trattasi. Tale fine, che non va confuso con l’intento soggettivo di chi partecipa a quelle attività, va determinato oggettivamente dalla mancanza di ogni altra giustificazione economica per l’attività se non quella di procurare un vantaggio fiscale. Di conseguenza, quest’elemento può essere considerato un elemento di autonomia. Quando lo applicano, infatti, le autorità nazionali devono determinare se l’attività controversa abbia una base autonoma che, lasciando da parte le considerazioni di ordine fiscale, le fornisca una giustificazione economica nelle circostanze di specie.

88.   Il secondo elemento del criterio proposto corrisponde al cd. elemento oggettivo di cui sempre alla sentenza Emsland Stärke. Si tratta in realtà di un elemento teleologico in forza del quale lo scopo e gli obiettivi delle norme comunitarie asseritamente oggetto di abuso sono comparati allo scopo e ai risultati conseguiti dall’attività controversa. Questo secondo elemento è importante non solo perché offre il paradigma per valutare lo scopo e i risultati dell’attività in questione, ma anche perché fa salvi i casi in cui l’unico scopo dell’attività potrebbe essere di diminuire, sì, il carico fiscale, ma in esito ad una scelta tra differenti regimi che lo stesso diritto comunitario intendeva lasciare libera. Perciò, ove non sussista contraddizione tra il riconoscimento di un diritto invocato dal contribuente e gli obiettivi ed i risultati della disposizione fatta valere, non può parlarsi di abuso.

89.   Il divieto di abusi come principio interpretativo non vale più ove l’attività economica eseguita può spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di benefici fiscali ai danni delle autorità tributarie. In tali condizioni interpretare una disposizione di legge nel senso che non attribuisce alcun diritto sulla base di un principio generale non scritto significherebbe attribuire un potere discrezionale troppo ampio alle dette autorità nel decidere quali scopi di una data operazione considerare predominanti. Ne deriverebbe un alto livello di incertezza per le legittime scelte degli operatori economici e un pregiudizio per attività economiche chiaramente meritevoli di tutela, purché attuate, almeno in certa misura, per fini commerciali ordinari.

90.   Poco si può dubitare che debba riconoscersi la possibilità anche in tali casi, dove le attività sono eseguite per una serie di ragioni fiscali e non, di introdurre ulteriori restrizioni alla proponibilità di azioni in conseguenza di attività che, in varia misura, intendono principalmente conseguire benefici fiscali. Ciò richiederà, comunque, l’adozione di misure legislative nazionali appropriate. Una mera interpretazione non sarà sufficiente. Fra tali misure possono annoverarsi disposizioni antiabuso più generali, come quelle adottate da alcuni Stati membri, che sono applicabili inter alia all’IVA e possono differire, quanto a portata, modus operandi o effetti, dall’applicazione nel settore dell’IVA del principio interpretativo del diritto comunitario che vieta abusi (86). In ogni caso, tale legislazione dev’essere conforme al procedimento descritto all’art. 27 e ai limiti fissati in proposito dalla Corte (87).

91.   Sulla base dell’analisi svolta ritengo, perciò, che viga un principio interpretativo del diritto comunitario che vieta abusi delle disposizioni comunitarie valido anche per la Sesta direttiva. In conformità ad esso, il disposto della Sesta direttiva dev’essere interpretato nel senso che non conferisce diritti che possano risultare disponibili a causa del suo tenore letterale quando concorrano due elementi oggettivi: il primo, che gli obiettivi e i risultati perseguiti dalle disposizioni di legge che formalmente generano il beneficio fiscale invocato siano frustrati ove il diritto sia conferito; il secondo, che il diritto invocato derivi da attività economiche per le quali non c’è oggettivamente altra spiegazione che (appunto) procurarsi quel diritto.

4.      Lo scopo delle disposizioni della Sesta direttiva concernenti il diritto alla detrazione e la loro interpretazione alla luce del principio del divieto di abusi del diritto comunitario

92.   Le tre fattispecie in esame vertono su un asserito abuso delle disposizioni del diritto comunitario che conferiscono un diritto alla detrazione dell’IVA. In base al parametro di valutazione dell’abuso sopradescritto, è necessario determinare, per prima cosa, le finalità e gli obiettivi delle disposizioni della Sesta direttiva che disciplinano il diritto alla detrazione. Dopodiché i giudici nazionali potranno stabilire se, nei casi al loro esame, quegli scopi possano essere raggiunti qualora si riconosca il diritto alla detrazione o al recupero dell’IVA nella disponibilità delle ricorrenti, nelle circostanze in cui lo rivendicano.

93.   È chiaro dall’art. 17, n. 2, della Sesta direttiva, a contrario, che un contribuente che esegue prestazioni esenti da IVA non ha diritto alla detrazione dell’imposta assolta su beni o servizi di cui si sia avvalso per eseguire le sue prestazioni esenti (88). La Corte ha peraltro affermato in proposito che «i beni o servizi di cui trattasi devono presentare una connessione diretta ed immediata con le operazioni soggette ad imposta» (89). Non è sufficiente che essi presentino solo una connessione indiretta alle operazioni soggette ad imposta del contribuente, poiché ciò richiederebbe attenzione per lo scopo ultimo di costui, laddove a tale riguardo esso deve essere indifferente (90). Il diritto di un contribuente a detrarre dall’IVA dovuta l’IVA assolta per prestazioni imponibili costituisce un corollario del principio della neutralità dell’imposizione fiscale (91). L’IVA è, infatti, un’imposta generale indiretta sui consumi che grava sui singoli utenti (92). Ne consegue che, in applicazione dello stesso principio, un contribuente non deve poter detrarre o recuperare l’IVA assolta su prestazioni ricevute relativamente a sue operazioni esenti. Siccome non grava IVA sui beni o sui servizi forniti da tali soggetti, la Sesta direttiva intende senz’altro impedire che la si possa recuperare. Ciò comporta, come ha sottolineato la Commissione all’udienza, che l’esenzione dell’IVA nel senso della Sesta direttiva non è (concepita come) un’esenzione assoluta dell’utente finale da ogni onere fiscale (93).

94.   Nelle tre fattispecie in esame, tuttavia, le ordinanze di rinvio mostrano che, in pratica, soggetti passivi i quali, conformemente agli scopi del sistema IVA di detrazione suddescritto, non avrebbero potuto detrarre o recuperare l’IVA assolta a monte se non in percentuale limitata, hanno messo in atto piani utili ad aggirare questo risultato e a recuperare integralmente l’IVA. Nel caso BUPA, in qualche misura diverso, sembra che il piano adottato permettesse a quest’ultima, in realtà, di continuare a beneficiare dell’aliquota zero abrogata nel Regno Unito con decorrenza 1° gennaio 1998 e sostituita da un regime di esenzione senza diritto a detrazione (94).

95.   In ogni caso, devono essere i giudici nazionali a stabilire se il riconoscimento del diritto alla detrazione o al recupero dell’IVA ai soggetti passivi che lo rivendicano nelle presenti fattispecie è compatibile con gli obiettivi e le finalità perseguiti dalle disposizioni rilevanti della Sesta direttiva, quali illustrati supra. Se, a loro giudizio, quegli scopi sono raggiunti solo in parte – dato che i soggetti passivi esenti possono recuperare una certa percentuale dell’IVA assolta –, allora le disposizioni della Sesta direttiva sulla detrazione devono essere interpretate nel senso che attribuiscono il diritto al recupero dell’IVA, in quella percentuale, ai soggetti passivi interessati. Questo sembra essere il caso della Halifax e della Hudddersfield, dove tutte e due queste società parzialmente esenti potevano a quanto pare recuperare l’IVA, sebbene solo limitatamente e pro rata.

96.   Riguardo al secondo elemento interpretativo del principio che vieta abusi del diritto comunitario, sono sempre i giudici nazionali a stabilire se, nei casi dinanzi a loro pendenti, le attività economiche eseguite dai soggetti passivi di cui trattasi non sono dirette ad altro scopo che a quello di creare un vantaggio fiscale. In altre parole, i giudici nazionali dovranno determinare se le attività controverse possono considerarsi dotate di un’autonoma giustificazione economica diversa dal mero intento di evitare o di differire il pagamento dell’IVA.

97.   Se i giudici nazionali dovessero ritenere che nei casi in esame concorrono tutti e due tali elementi, se ne concluderà che le disposizioni rilevanti della Sesta direttiva circa il diritto alla detrazione o al recupero dell’IVA, correttamente interpretate alla luce del principio che vieta abusi del diritto comunitario, non conferiscono quel diritto o lo conferiscono solo in parte.

5.      L’interpretazione dell’art. 10, n. 2, della Sesta direttiva relativamente al caso BUPA

98.   Per concludere, voglio sottolineare alcuni aspetti particolari del caso BUPA che, a mio avviso, giustificano una trattazione a parte alla luce del secondo comma dell’art. 10, n. 2, della Sesta direttiva.

99.   Nel caso BUPA, gli accordi controversi facilitano, in pratica, il recupero dell’IVA sull’acquisto di merci durante un periodo in cui quel diritto non sussisteva più. Un ruolo centrale nell’assicurare il buon esito del piano di ottimizzazione dell’IVA è svolto dagli accordi di prepagamento. A tale proposito vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che, come risulta dall’ordinanza di rinvio, tali accordi hanno ad oggetto espressamente «farmaci [o protesi] che la BHL [o la GDL] possono voler comprare» fra quelli genericamente descritti negli elenchi allegati agli accordi stessi. Non solo tali farmaci e protesi devono essere specificati in futuro dalla BHL o dalla GDL, ma poi ciascuna parte può recedere unilateralmente dal contratto, con conseguente restituzione integrale delle somme già versate in pagamento e non ancora utilizzate per l’acquisto di farmaci o di protesi.

100. Il testo del secondo comma dell’art. 10, n. 2, concerne situazioni di «pagamento di acconti anteriore alla cessione o alla prestazione di servizi». Ad intenderlo correttamente, esso mi pare richieda che, perché al pagamento di un acconto per beni o servizi si applichi quella disposizione, tali beni e servizi devono essere specificamente individuati all’atto del pagamento medesimo. Un mero pagamento in acconto per beni genericamente indicati in un elenco dal quale l’acquirente può scegliere in futuro uno o alcuni o nessuno di essi, in circostanze in cui l’acquirente può recedere dal contratto unilateralmente in qualsiasi momento e recuperare l’importo versato e ancora non speso, non è sufficiente a caratterizzare quel pagamento come «acconto» nel senso del secondo comma dell’art. 10, n. 2, della Sesta direttiva. Alla luce di ciò, accordi di prepagamento quali quelli controversi nel caso BUPA, nella misura in cui possono essere sostanzialmente classificati dal giudice remittente come contratti di vendita futura nel senso suddescritto, non rientrano nell’ambito di applicazione del secondo comma dell’art. 10, n. 2, della Sesta direttiva.

101. Se, invece, i giudici nazionali dovessero ritenere i fatti della causa BUPA incompatibili con l’interpretazione qui proposta per il secondo comma dell’art. 10, n. 2, della Sesta direttiva, sarà sempre possibile valutare l’abuso delle disposizioni comunitarie concernenti il diritto alla detrazione dell’IVA. Secondo me, tale abuso sussiste se gli accordi di prepagamento della BUPA siano stati attuati al solo scopo, in termini che il giudice nazionale valuterà con oggettività, di conseguire un risultato pratico che frustra gli obiettivi del sistema comune della detrazione IVA in vigore dal 1° gennaio 1998, vale a dire del regime di esenzione senza diritto alla detrazione.

IV – Conclusione

102. Tutto ciò considerato, propongo alla Corte di rispondere alle questioni sottopostele dal VAT and Duties Tribunal, London, dalla High Court e dal VAT and Duties Tribunal, Manchester, come segue:

– Nelle cause C-255/02 e C-223/03:

1)      Le espressioni «attività economica», «cessioni» e «prestazioni» effettuate da un «soggetto passivo che agisce in quanto tale» ai fini degli artt. 2 e 4 della Sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati Membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, vanno interpretate nel senso che ognuna delle operazioni controverse dev’essere considerata oggettivamente e per sé. A tale proposito, è irrilevante il fatto che una prestazione sia eseguita al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale.

2)      La Sesta direttiva dev’essere interpretata nel senso che non conferisce a un soggetto passivo il diritto di detrarre o di recuperare l’IVA, in conformità con il principio interpretativo del diritto comunitario che vieta abusi delle disposizioni comunitarie, qualora i giudici nazionali accertino la compresenza di due elementi oggettivi: il primo, che gli obiettivi ed i risultati perseguiti dalle disposizioni di legge che formalmente generano il diritto sarebbero frustrati se realmente si conferisse il diritto invocato; il secondo, che il diritto invocato deriva da attività per le quali non c’è altra spiegazione che quella di creare il diritto medesimo.

– Nella causa C-419/02:

1)      Le espressioni «attività economica», «cessioni» e «prestazioni» effettuate da un «soggetto passivo che agisce in quanto tale» ai fini degli artt. 2 e 4 della Sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati Membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, vanno interpretate nel senso che ognuna delle operazioni controverse dev’essere considerata oggettivamente e per sé. A tale proposito, è irrilevante il fatto che una prestazione sia eseguita al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale.

2)      L’art. 10, n. 2, della Sesta direttiva va interpretato nel senso che il pagamento di un acconto per beni imprecisati e genericamente indicati in un elenco dal quale il compratore può scegliere in futuro uno o alcuni o nessuno di essi, in circostanze in cui l’acquirente può recedere unilateralmente dal contratto in qualsiasi momento e recuperare l’importo versato e ancora non speso per l’acquisto di beni compresi nell’elenco e da lui medesimo non ancora specificati, non può ritenersi, ai sensi del secondo comma dell’art. 10, n. 2, un «pagamento di acconti anteriore alla cessione o alla prestazione di servizi» e non rende, pertanto, l’imposta «esigibile all’atto dell’incasso, a concorrenza dell’importo incassato».


1 – Lingua originale: il portoghese.


2 – GU L 145, pag. 1.


3  – Nella versione modificata dalla direttiva del Consiglio 10 aprile 1995, 95/7/CE (GU L 102, pag. 18).


4  – Nella versione in vigore prima della direttiva del Consiglio 20 gennaio 2004, 2004/7/CE (GU L 27, pag. 44), che l'ha emendato.


5  – In applicazione del secondo comma dell'art. 19, n. 1, della Sesta direttiva, il prorata di detrazione della tassa pagata a monte è determinato su base annuale.


6  – Ai termini di tale articolo, «[p]ossono essere mantenute le esenzioni con rimborso della tassa pagata nella fase precedente e le aliquote ridotte inferiori all'aliquota minima prescritta all'articolo 12, paragrafo 3 in materia di aliquote ridotte, applicabili al 1° gennaio 1991, conformi alla legislazione comunitaria e rispondenti ai requisiti figuranti all'articolo 17, ultimo trattino della seconda direttiva del Consiglio dell'11 aprile 1967».


7  –       La Sezione 6, n. 4, del VAT Act 1994 dispone, parimenti, che «se, prima del tempo di cui ai nn. 2) o 3), il prestatore del servizio emette una fattura o se, prima del tempo di cui ai nn. 2, lett. a) o b), e 3, ne riceve il pagamento, la prestazione, in quanto coperta dalla fattura o dal pagamento, deve ritenersi avvenuta nello stesso momento in cui è stata emessa la fattura o riscosso l'importo corrispondente». Inoltre, ai termini della Sezione 10, n. 2, sempre del VAT Act 1994, «l'evento imponibile s'intende avvenuto e il pagamento esigibile allorché i beni sono ceduti e i servizi prestati (…). Quando, però, il pagamento va eseguito in anticipo sulla consegna dei beni o sulla prestazione dei servizi, l'imposta diventa esigibile al momento del pagamento e sulla somma percepita».


8  – L'art. 13, parte C, lett. a), dispone che «[g]li Stati membri possono accordare ai loro soggetti passivi il diritto di optare per l'imposizione nel caso di (…) affitto e locazione di beni immobili».


9 – In conformità, quindi, con l'art. 17, n. 2, della Sesta direttiva.


10  – E ciò sebbene il VAT and Duties Tribunal, Manchester, non ponga questioni d'interpretazione delle pertinenti disposizioni della Sesta direttiva, bensì e piuttosto di applicazione della stessa ai fatti di specie, ciò che chiaramente compete ai giudici nazionali.


11  – Il VAT and Duties Tribunal, Manchester, non ha sollevato tale questione nella causa C-223/03 (Huddersfield), essendo essa stata già sottoposta, a quanto risulta dall'ordinanza di rinvio, alla Corte di giustizia nella causa C-255/02 (Halifax). Il detto Tribunale attende, perciò, la pronuncia della Corte, ritenendo superfluo porre a sua volta sul punto una questione pregiudiziale.


12 – Sentenze 14 febbraio 1985, causa 268/83, Rompelman (Racc. pag. 655, punto 19), e 21 settembre 1988, causa 50/87, Commissione/Francia (Racc. pag. 4797, punto 15).


13 – V., per esempio, sentenze Rompelman, punto 19; 26 marzo 1987, causa 235/85, Commissione/Paesi Bassi (Racc. pag. 1471, punto 8); 4 dicembre 1990, causa C-186/89, Van Tiem (Racc. pag. I-4363, punto 17), e 26 giugno 2003, causa C-305/01, MKG-Kraftfahrzeuge-Factoring (Racc. pag. I-6729, punto 42).


14 – Sentenze Rompelman, cit., punto 19, e Commissione/Francia, cit., punto 15.


15 – Sentenza Commissione/Paesi Bassi, cit., punto 8.


16 – Sentenza Commissione/Paesi Bassi, cit., punto 8. V. anche sentenze 12 settembre 2000, causa C-408/97, Commissione/Paesi Bassi (Racc. pag. I-6417, punto 25); causa C-260/98, Commissione/Grecia (Racc. pag. I-6537, punto 26); causa C-359/97, Commissione/Regno Unito (Racc. pag. I-6355, punto 41); causa C-358/97, Commissione/Irlanda (Racc. pag. I-6301, punto 29), e causa C-276/97, Commissione/Francia (Racc. pag. I-6251, punto 31).


17  – Per esempio, sentenze 22 febbraio 1984, causa 70/83, Kloppenburg (Racc. pag. 1075, punto 11); 15 dicembre 1987, causa 348/85, Danimarca/Commissione (Racc. pag. 5225, punto 19); 1° ottobre 1998, causa C-209/96, Regno Unito/Commissione (Racc. pag. I-5655, punto 35); 22 novembre 2001, causa C-301/97, Paesi Bassi/Consiglio (Racc. pag. I-8853, punto 43), e 29 aprile 2004, causa C-17/01, Sudholz (Racc. pag. I-0000, punto 34).


18  – V. sentenze 15 dicembre 1987, causa 325/85, Irlanda/Commissione (Racc. pag. 5041, punto 18); 15 dicembre 1987, causa 326/85, Paesi Bassi/Commissione (Racc. pag. 5091, punto 24); Sudholz, cit., punto 34, e 9 luglio 1981, causa 169/80, Gondrand Frères e Garancini (Racc. pag. 1931, punto 17).


19  – A tale proposito il governo del Regno Unito rinvia alle sentenze nelle cause 269/86, Mol (Racc. pag. 3627); 289/96, Happy Family (Racc. pag. 3655), e C-283/95, Fischer (Racc. pag. I-3369).


20  – V., per esempio, sentenze Rompelman, cit., punto 19, e Fischer, cit., punto 27. V. paragrafo 12 delle conclusioni dell'avvocato generale Fennelly per la causa C-158/98, Coffeshop Siberië (Racc. 1999, pag. I-3971).


21  – Sentenze 28 febbraio 1984, causa 294/82, Senta Einberger (Racc. pag. 1177); 2 agosto 1993, causa C-111/92, Lange (Racc. pag. I-4677, punto 16); Happy Family, cit., punto 20; Mol, cit., punto 18; 28 maggio 1998, causa C-3/97, Goodwin e Unstead (Racc. pag. I-3257, punto 9); Coffeshop Siberië, cit., punti 14 e 21, e 29 giugno 2000, causa C-455/98, Salumets e a. (Racc. pag. I-4993, punto 19).


22  – Sentenze Happy Family, cit., punto 20, e Mol, cit., punto 18.


23  – Sentenze Coffeshop Siberië, cit., punto 21; Lange, cit., punto 12; Fischer, cit., punto 20, e Salumets e a., cit., punti 19 e 20.


24  – Sentenze Senta Einberger, cit.; Happy Family, cit., punto 23, e 6 dicembre 1990, causa C-343/89, Witzemann (Racc. pag. I-4477, punto 20).


25  – Comunque sia, il governo del Regno Unito ammette nelle sue osservazioni che le operazioni controverse, sebbene sottese da una finalità di evasione fiscale, non sono illecite.


26  – Sentenze 18 gennaio 2001, causa C-150/99, Stockholm Lindöpark (Racc. pag. I-493); 2 maggio 1996, causa C-231/94, Faaborg-Gelting Linien (Racc. pag. I-2395), e 12 giugno 2003, causa C-275/01, Sinclair Collis (Racc. pag. I-5965).


27  – Il Regno Unito rinvia qui alle sentenze 20 giugno 1996, causa C-155/94, Wellcome Trust (Racc. pag. I-3013, punti 31-36), e 20 giugno 1991, causa C-60/90, Polysar Investments (Racc. pag. 3111, punto 13).


28  – La Corte affermò che le operazioni di ristorazione configurano una prestazione di servizi, giacché sono caratterizzate da una serie di elementi e di atti, dei quali la cessione di cibi è soltanto una parte e nel cui ambito predominano ampiamente i servizi (sentenza Faaborg-Gelting Linien, cit., punto 14).


29  – La Corte affermò che «l'attività di gestione di un campo da golf implica, in linea generale, non soltanto la messa a disposizione passiva di un terreno, ma altresì un gran numero di attività commerciali, come la supervisione, la gestione e l'assistenza costante da parte del prestatario, la messa a disposizione di altri impianti, e così via». In assenza di circostanze del tutto eccezionali, la locazione di un campo da golf non può costituire, pertanto, la prestazione principale (sentenza Stockholm Lindöpark, cit., punto 26).


30  – La Corte affermò che il conferimento di quel diritto, alla luce delle circostanze in cui l'operazione si era svolta, non ineriva a una locazione di proprietà immobiliare. L'occupazione dello spazio dei locali commerciali costituiva solo un mezzo per attuare la prestazione che costituiva l'oggetto principale del contratto, «ossia garantire l'esercizio del diritto di vendita esclusiva di sigarette nello stabilimento mediante l'installazione e il rifornimento di distributori automatici, in cambio di una percentuale dei ricavi» (sentenza Sinclair Collis, cit., punti 30 e 31).


31  – V., a fortiori, il ragionamento svolto nella sentenza Coffeshop Siberië, cit., punto 22: secondo la Corte, una locazione, anche nel caso in cui attività criminose la rendano illecita, manterrebbe il suo carattere di attività economica nel senso della Sesta direttiva.


32  – Sentenza 26 settembre 1996, causa C-230/94, Enkler (Racc. pag. I-4517).


33  – Ibidem, punto 27.


34 – Ibidem, punto 29.


35  – Sentenza 8 giugno 2000, causa C-400/98, Breitsohl (Racc. pag. I-4321).


36  – Sentenza 29 febbraio 1996, causa C-110/94, INZO (Racc. pag. I-857).


37  – Sentenze INZO, cit., punto 24; Breitsohl, cit., punto 39, e 21 marzo 2000, causa C-110/98, Gabalfrisa (Racc. pag. I--1577).


38  – V. anche, a tale riguardo, sentenza 6 aprile 1995, causa C-4/94, BLP Group (Racc. pag. I-983, punto 24). Il Regno Unito giustamente sostiene che l'IVA deve essere applicata tenendo conto della situazione economica reale e che le apparenze non sono decisive. In proposito rinvia alla sentenza 20 febbraio 1997, causa C-260/95, DFDS (Racc. pag. I-1005), dove una consociata nel Regno Unito, interamente controllata da una società madre danese che eseguiva suo tramite prestazioni nel Regno Unito, è stata considerata uno stabilimento fisso della società danese nel Regno Unito, nel senso dell'art. 9, n. 1, della Sesta direttiva. È stato inoltre considerato che quel punto di connessione prevaleva sul luogo in cui il fornitore aveva stabilito la propria sede di affari. Era in quel contesto che, alla luce della situazione economica reale, la controllata fu ritenuta agire come mero strumento della società madre danese. In ogni caso, la DFDS non intendeva affatto escludere dalla portata della Sesta direttiva attività di natura oggettivamente economica solo perché erano state intraprese e realizzate da un soggetto passivo e da altre persone giuridiche da esso interamente controllate al fine di evadere l'IVA. Il caso DFDS non può deporre nel senso che ad operazioni di natura oggettivamente economica non debba applicarsi la Sesta direttiva.


39 – Si trattava, peraltro, di un elemento centrale del piano di evasione fiscale, in quanto copriva tutte le prestazioni eseguite dalla LPDS durante l'esercizio fiscale di riferimento, nel quale tale società poteva agire per il recupero dell'IVA contabilizzatale dalla CWPI, nello stesso periodo, per i servizi edili che le aveva fornito.


40 – V. sentenze 6 luglio 1995, causa C-62/93, BP Soupergas (Racc. pag. I-1883, punti 16-18); 8 giugno 2000, causa C-98/98, Midland Bank (Racc. pag. I-4177, punto  29), e 27 settembre 2001, causa C-16/00, Cibo Participations (Racc. pag. I-6663, punto 30).


41  – V., per esempio, sentenze 3 dicembre 1974, causa 33/74, Van Binsbergen (Racc. pag. 1299, punto 13); 3 febbraio 1993, causa C-148/91, Veronica (Racc. pag. I-487, punto 12), e 5 ottobre 1994, causa C-23/93, TV10 (Racc. pag. I-4795, punto 21), sulla libera prestazione di servizi; 21 giugno 1988, causa 39/86, Lair (Racc. pag. 3161, punto 43), sulla libera circolazione dei lavoratori; 10 gennaio 1985, causa 229/83, Leclerc (Racc. pag. 1, punto 27), sulla libera circolazione delle merci. Anche nella sentenza 7 febbraio 1979, causa 115/78, Knoors (Racc. pag. 399, punto 25), sulla libertà di circolazione delle persone e la libertà di stabilimento, la Corte ha riconosciuto esplicitamente «l'interesse legittimo che uno Stato membro può avere ad impedire che, grazie alle possibilità offerte dal Trattato, taluni dei suoi cittadini tentino di sottrarsi all'impero delle leggi nazionali». Giudizio riformulato successivamente, nelle sentenze 3 ottobre 1990, causa C-61/89, Bouchoucha (Racc. pag. I-3551, punto 14), e 7 luglio 1992, causa C-370/90, Singh (Racc. pag. I-4265, punto 24).


42  – Sentenza 2 maggio 1996, causa C-206/94, Palletta (Racc. pag. I-2357, punto 24).


43  – Sentenza 11 ottobre 1977, causa 125/76, Cremer (Racc. pag. 1593, punto 21).


44  – Sentenza 3 marzo 1993, causa C-8/92, General Milk Products (Racc. pag.  I-779, punto 21). V. anche, riguardo alla politica agricola comune, sentenza 27 ottobre 1981, causa 250/80, Schumacher (Racc. pag. 2465, punti  16 e 18), dove la Corte ha adottato un approccio squisitamente teleologico, senza alcun bisogno di ricorrere alla dottrina dell'abuso del diritto.


45  – V. sentenze 12 maggio 1998, causa C-367/96, Kefalas (Racc. pag. I-2843, punti 20 e 28), e 23 marzo 2000, causa C-373/97, Diamantis (Racc.  pag. I-1705, punto  33).


46  – Sentenza 9 marzo 1999, causa C-212/97, Centros (Racc. pag. I-2357, punto 24). V., poi, riguardo ad un asserito abuso del diritto di stabilimento, sentenze 30 settembre 2003, causa C-167/01, Inspire Art (Racc. pag. I-10155, punto 136), e 21 novembre 2000, causa C-436/00, X e Y (Racc. pag. I-10829, punti 41 e 45).


47  – La Corte ha dovuto anche analizzare, per esempio nelle cause Kefalas e Diamantis, il problema dell'applicazione della normativa interna sull'abuso del diritto da parte dei giudici nazionali per limitare l'esercizio di diritti conferiti dall'ordinamento comunitario.


48  – V. conclusioni dell'avvocato generale La Pergola per la causa Centros, paragrafo 20.


49  – V., inter alia, sentenza Diamantis, cit., punto 33.


50  – Ciò è evidente, per esempio, al punto 21 della sentenza Kefalas, dove la Corte riconosce la necessità di regole «per valutare se un diritto derivante da una disposizione comunitaria sia esercitato in maniera abusiva».


51  – V., in tal senso, conclusioni dell'avvocato generale Tesauro per la causa Kefalas, cit., al paragrafo 27: «[i]n buona sostanza (…) la Corte ha finora ammesso che ciascun ordinamento nazionale ben può utilizzare le proprie norme di diritto comune (che si tratti di norme che sanzionano la «frode alla legge», la «simulazione» e, perché no, lo stesso «abuso di diritto») per negare l'invocabilità di norme comunitarie in ipotesi ben circoscritte».


52  – Questo risulta essere l'approccio, per esempio, nelle sentenze Palletta, cit., punto 25; Kefalas, cit., punti 21 e 22; Diamantis, cit., punti 34 e 35, e Centros, cit., punti  24 e 25.


53  – Nella sentenza Centros, cit., punto 25, la Corte ha affermato che «i giudici nazionali possono tener conto, basandosi su elementi obiettivi, del comportamento abusivo o fraudolento dell'interessato per negargli eventualmente la possibilità di fruire delle disposizioni di diritto comunitario invocate[;] tuttavia, nel valutare tale comportamento, essi devono tener presenti le finalità perseguite dalle disposizioni comunitarie di cui trattasi».


54  – V., per esempio, sentenze Kefalas, cit., punti 24, 25 e 29, e Centros, cit., punti 26, 27 e 30.


55  – Sentenza 14 dicembre 2000, causa C-110/99, Emsland Stärke (Racc. pag. I-11569).


56  – GU L 317, pag. 1.


57  – Sentenza Emsland Stärke, cit., punto 52.


58  – Ibidem, punto 53.


59  – V., in merito, paragrafo 69 delle conclusioni dell'avvocato generale Alber per la causa Emsland Stärke, cit. : «[i]l metro di giudizio della legalità di transazioni concrete d'importazione ed esportazione è dunque il fine delle disposizioni di volta in volta applicabili». V. anche punto 52 della sentenza. Più di recente l'avvocato generale Tizzano, nelle conclusioni per la causa C-200/02, Zhu e Chen (Racc. 2004, pag. I-0000, paragrafo 115), ha a sua volta sostenuto che, per stabilire se sia stato commesso abuso di un dato diritto, «[o]ccorre (…) accertare se l'interessato, nell'invocare la norma comunitaria che attribuisce il diritto in questione, ne tradisca lo spirito e la portata». Al paragrafo 116 Tizzano enfaticamente afferma che il parametro di riferimento dell'abuso «è dunque, essenzialmente, se vi sia stato o meno un travisamento delle finalità e degli obiettivi della norma comunitaria che attribuisce il diritto in questione».


60  – Sentenze Diamantis, cit., punto 33; 12 marzo 1996, causa C-441/93, Pafitis (Racc. pag. I-1347, punto 68), e Kefalas, cit., punto 22.


61  – V. in proposito sentenza Centros, cit., punto 27, dove la Corte ha affermato che, alla luce dello scopo per il quale era stato assicurato il diritto di stabilimento, il fatto che un cittadino crei una società in uno  Stato membro e ne apra una succursale in un altro per sottrarsi alle più severe norme di diritto societario di quest'ultimo, «non può costituire di per sé un abuso del diritto di stabilimento». La definizione della portata del diritto di stabilimento teneva anche conto dell'interpretazione data dalla Corte a questo proposito nella sentenza 10 luglio 1986, causa C-79/85, Segers (Racc. pag. 2375, punto 16).


62  – V., in merito, A. Kjellgren, «On the Border of Abuse», in European Business Law Review (2000), pag. 192. Anche nella sentenza Emsland Stärke, in cui la nozione di abuso fu sviluppata con maggiore ampiezza, la Corte decise per l'interpretazione delle pertinenti disposizioni di legge. Sempre a tale riguardo è sintomatico che nel dispositivo essa dichiarasse: «[il] regolamento [(CEE) n. 2730/79] dev[e] essere interpretat[o] nel senso che…». Per l'analisi dei casi in esame è a mio parere irrilevante se il principio assurga o meno progressivamente al rango di vero e proprio principio generale autonomo del diritto comunitario, come propugnano D. Simon e A. Rigaux in «La technique de consécration d'un nouveau principe général du droit communautaire: l'exemple de l'abus de droit», in Mélanges en hommage à Guy Isaac, 50 ans de droit communautaire, II, Presse de l'Université des Sciences Sociales (Tolosa 2004), pag. 579.


63  – Come affermato da Kjellgren («On the Border of Abuse», cit., pag. 193), «la dottrina della Corte sull'abuso si basa in larga parte sull'interpretazione delle disposizioni comunitarie considerate: il problema dell'abuso si trasforma, così, in un altro, ossia se all'asserito comportamento abusivo si applichino o meno quelle disposizioni». V. anche, in tal senso, conclusioni dell'avvocato generale La Pergola per la sentenza Centros, cit., paragrafo 20.


64  – Il riferimento all'elemento soggettivo nella sentenza Emsland Stärke è peraltro perfettamente comprensibile alla luce delle circostanze del caso, in cui le parti dell'operazione pretendevano sin dall'inizio di reimmettere le merci nel territorio della Comunità senza intenzione di esportarle definitivamente in Svizzera. Lo «schema ad U» adottato era solo una facciata (seppure reale) che dissimulava un'altra realtà, e cioè che le parti non avevano mai voluto una definitiva fuoriuscita delle merci dal territorio comunitario. L'operazione oggetto della causa Emsland Stärke può, perciò, considerarsi una messinscena, visto che tutte le parti interessate erano concordi nel volere che i documenti utilizzati e gli atti posti in essere non producessero in realtà le conseguenze giuridiche (diritti e obblighi) che apparentemente costituivano agli occhi dei terzi.


65  – V. sentenza Emsland Stärke, cit., punto 50, che descrive l'abuso in causa come «una fuoriuscita dal territorio comunitario meramente formale realizzata al solo scopo di beneficiare delle restituzioni all'esportazione». Altre volte la Corte ha guardato al «solo scopo» di una determinata attività o comportamento oggettivamente, come ad un criterio di valutazione della sussistenza di un abuso. V., per esempio, sentenza Leclerc, cit., punto 27, ove si legge che non è possibile invocare il diritto comunitario quando i prodotti «siano stati esportati al solo fine di reimportarli, nell'intento di eludere una legge come quella di cui trattasi nel caso di specie», e sentenza Lair, cit., punto 43: «quando elementi oggettivi consentano di stabilire che un lavoratore entri in uno Stato membro al solo scopo di fruirvi del sistema di sussidi agli studenti, dopo un brevissimo periodo di attività lavorativa, va osservato che simili abusi non sono coperti dalle norme comunitarie in causa».


66  – Si osservi a tale proposito che nella sentenza Emsland Stärke, per esempio, la locuzione «abuso del diritto» non compare. La Corte parlava invece di «abuso». Parimenti, e sempre con riferimento semplicemente all'abuso, la Corte ha affermato di recente, nella sentenza 23 settembre 2003, causa C-109/01, Hacene Akrich (Racc. pag. I-9607, punto 57), che si commette «abuso», e perciò «[l]'art. 10 del regolamento n. 1612/68 non è applicabile[,] quando il cittadino di uno Stato membro e il cittadino di un paese terzo hanno contratto un matrimonio di comodo, al fine di eludere le disposizioni relative all'ingresso e al soggiorno dei cittadini di paesi terzi» (dispositivo, sub 2). Si tratta chiaramente, in quella causa, di un principio interpretativo dell'abuso. L'applicazione della dottrina dell'abuso comporta la disapplicazione della norma comunitaria e, di conseguenza, la conclusione che il diritto non è conferito – non si trattava di limitare l'esercizio di un diritto effettivamente conferito da una norma comunitaria.


67  – Conclusioni per la causa Kefalas, cit., paragrafo 24. V., nello stesso senso, D. Simon e A. Rigaux, La technique, cit., pag. 568, dove gli AA. affermano che «il sistema comunitario non è immune dal rischio, comune a tutti gli ordinamenti giuridici, di pratiche che formalmente ossequiano la regola, ma che in sede di applicazione ne abusano».


68  – È pacifico che ogni disposizione di legge e ogni diritto contengono in nuce la possibilità di un abuso e che il sistema giuridico non deve tollerarlo per principio. V. L. Cadiet e P. Tourneau, «Abus de Droit», in Recueil Dalloz (Droit civil) (2002) pagg. 3 e 4, e Ghestin e Goubeaux, Traité de Droit civil, Introduction Générale, III ed., LGDJ (Parigi 1990), pagg. 673-676 e 704, che riconducono alla giurisprudenza la creazione di dottrine come quella dell'«abuso del diritto» (lo stesso si può dire dell'«evasione della legge»), originariamente sviluppate dai tribunali per impedire che applicazioni formali e meccaniche di norme giuridiche sortiscano risultati inaccettabili per gli obiettivi del sistema normativo.


69  – Sentenze 29 aprile 2004, cause riunite C-487/01 e C-7/02, Gemeente Leusden (Racc. pag. I-0000, punto 76). V. anche, in tal senso, conclusioni dell'avvocato generale Tizzano per le stesse cause, paragrafi 98 e 99 e giurisprudenza ivi citata.


70  – V., al riguardo, il parere dall'avvocato generale Alber nelle conclusioni per la causa Emsland Stärke, cit., secondo cui l'art. 4, n. 3, del regolamento n. 2988/95, relativo alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, «non crea di per sé un nuovo istituto giuridico, ma codifica un principio generale di diritto vigente nel diritto comunitario». Ne consegue che l'applicazione di tale divieto di abusi al caso di specie non dipendeva dalla successiva entrata in vigore del detto regolamento.


71  – Ibid., punto 10.


72  – V., per esempio, in Germania, l'art. 42 dell'Abgabenordnung (v. Kruse e Düren, in Tipke e Kruse, Abgabenordnung, Finanzordnung, Otto Schmitdt, Köln, 2003, § 42), che introduce la nozione di abuso da parte delle istituzioni giuridiche («Steuerumgehung durch Missbrauch von Gestaltungsmöglichkeiten»); in Austria, l'art. 22 del Bundesabgabenordnung (BGBl. 194/1961), come modificato, che contiene a sua volta una nozione simile di abuso delle forme e degli strumenti giuridici di diritto civile («Missbrauch von Formen und Gestaltungsmöglichkeiten des bürgerlichen Rechts»); in Finlandia, l'art. 28 del Laki verotusmenettelystä 1558/1995, che parimenti applica una nozione di abuso di strumenti di diritto civile nella legislazione fiscale; in Lussemburgo, l'art. 6, n. 1, della Loi d'adaptation fiscale del 1934 applica anch'esso una nozione simile di abuso. In Portogallo, l'art. 38, n. 2, della Lei Geral Tributária (Decreto Legge 17 dicembre 1998, n. 98), come modificato dalla legge 27 giugno 1999, n. 100, e dalla legislazione posteriore, contiene una disposizione generale di lotta all'evasione fiscale ai cui sensi «gli atti giuridici essenzialmente o principalmente destinati, attraverso misure artificiali (…) o abusi di forme giuridiche», a ridurre il carico fiscale, non possono produrre effetti per il diritto tributario. In Spagna, l'art. 15 della Ley General Tributaria (legge 17 dicembre 2003, n. 58), sui conflitti di applicazione della normativa tributaria («Conflicto en la aplicación de la norma tributaria»), si basa su nozioni come quella di atti o di negozi palesemente fittizi; in Francia, l'art. L. 64 del Livre des procédures fiscales applica la nozione di abuso del diritto nella legislazione fiscale, compreso l'abuso del diritto attuato mediante operazioni fittizie o frode della legge; in Irlanda, l'art. 811, n. 2, del Tax Consolidation Act 1997 contiene una disposizione generale di lotta all'evasione perpetrata mediante operazoni finalizzate ad eludere gli obblighi tributari, utilizzando nozioni come quella di operazioni «not undertaken or arranged primarily for purposes other than to give rise a tax advantage» [v. art. 811, secondo comma, lett. c), sub ii)]; in Italia, l'art. 37 bis del DL 600/1973, introdotto con DLgs 8 ottobre 1997, n. 358 (GU 24 ottobre 1997, n. 249), contiene una disposizione generale di lotta all'evasione basata sulla nozione di «atti privi di valide ragioni economiche»; in Svezia, l'art. 2 del Lag om skatteflykt (1995/575) stabilisce una disposizione generale di lotta all'evasione che si riferisce alla nozione di vantaggio fiscale come ragione principale di un atto giuridico. Nei Paesi Bassi, gli organi giurisdizionali si riferiscono di frequente alla nozione giurisprudenziale di fraus legis nel diritto tributario, di modo che occorre considerare se l'obiettivo esclusivo o principale perseguito con una operazione sia di ottenere un vantaggio fiscale.


73  – Sentenza 13 febbraio 1985, causa 5/84, Direct Cosmetics (Racc. pag. 617, punto 37).


74  – Sentenze 21 settembre 1988, Commissione/Francia, cit., punto 22; 11 luglio 1991, causa C-97/90, Lennartz (Racc. pag. I-3795, punto 35), e 20 gennaio 2005, causa C-412/03, Hotel Skandic Gåsabäck, AB (Racc. pag. I-0000, punto 26).


75  – Sentenza 10 aprile 1984, causa 324/82, Commissione/Belgio (Racc. pag. 1861, punti 31 e 32). Per quanto attiene in particolare alla lotta all'evasione fiscale, la Corte dichiarò, nella sentenza 12 luglio 1988, cause riunite 138/86 e 139/86, Direct Cosmetics Ltd (Racc. pag. 3937, punti 21-24), che uno Stato membro può adottare misure derogatorie alla Sesta direttiva per prevenire l'evasione fiscale anche quando l'attività economica del contribuente sia oggettivamente condotta senza l'intenzione di ottenere un vantaggio fiscale. Si osservi, comunque, che le nozioni di frode fiscale, evasione fiscale e abuso della legislazione tributaria differiscono da uno Stato membro all'altro. Nel Regno Unito, la nozione di evasione fiscale è legale, quella di frode fiscale no. La mancanza nel Regno Unito di una nozione generale di abuso della legislazione tributaria impedisce di stabilire una distinzione comune ad altri Stati membri tra la pianificazione fiscale abusiva (corrispondente in Francia all'«évasion fiscal»), che è illecita, e la mera pianificazione fiscale («habileté fiscale» in Francia), che, pur se senz'altro invisa all'amministrazione tributaria, è lecita. V. al riguardo S.N. Frommel, «United Kingdom tax law and abuse of rights», Intertax 1991/2, pagg. 54-81, specialmente pag. 57.


76  – V. sentenza BP Soupergas, cit., punto 35: «le disposizioni di cui (…) all'art. 17, nn. 1 e 2, indicano (…) i requisiti ai quali è subordinato il diritto alla detrazione nonché la portata del medesimo. Tali disposizioni non lasciano agli Stati membri alcun margine di discrezionalità per quanto attiene alla loro attuazione».


77  – V. sentenza 13 novembre 1990, causa C-106/89, Marleasing (Racc. pag. I-4135, punto 8): «nell'applicare il diritto nazionale, a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva, il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest'ultima». V., in tal senso, P. Farmer, «VAT Planning: Assessing the “Abuse of Rights” Risk», in The Tax Journal, 27 maggio 2002, pag. 16.


78  – V., sentenza 11 luglio 2002, causa C-62/00, Marks & Spencer (Racc. pag. I-6325, punto 27): «l'adozione di misure nazionali che traspongono correttamente una direttiva non comporta l'esaurimento degli effetti di quest'ultima e che uno Stato membro rimane obbligato ad assicurare effettivamente la piena applicazione della direttiva stessa anche dopo l'adozione delle dette misure». V. anche conclusioni dell'avvocato generale Geelhoed, paragrafo 42: «[a]nche le autorità incaricate dell'esecuzione ed il giudice nazionale hanno l'obbligo di controllare che il risultato voluto dalla direttiva venga garantito».


79  – V. sentenza Gemeente Leusden, cit., punto 78.


80  – Basti ricordare che tale principio può far parte delle dottrine specifiche di «abuso del diritto» o di «frode alla legge» nel diritto privato dei sistemi di diritto civile, ma nel sistema tributario, per esempio, nonostante la possibile somiglianza dei nomi, i criteri in base ai quali opera sono profondamente diversi. Così, nella legislazione tributaria francese la nozione di abuso del diritto di cui all'art. L. 64 del Livre des procédures fiscales, cit. supra alla nt. 72, è duplice, perché vale sia per operazioni «fraudolente», sia per operazioni che implicano la «frode alla legge». In quella legislazione l'abuso del diritto non ha, perciò, lo stesso significato che nel diritto di proprietà o delle obbligazioni. V. M. Cozian, «La notion d'abus de droit en matière fiscale», in Gazette du Palais, Doctrine (1993), pagg. 50-57 e, per un esame comparativo tra Francia e Regno Unito, S. Frommel, «United Kingdom tax law and abuse of rights», cit., pagg. 57 e 58.


81  – V. sentenze Gemeente Leusden, cit., punto 57; 3 dicembre 1998, causa C-381/97, Belgocodex (Racc. pag. I-8153, punto 26); 8 giugno 2000, causa C-396/98, Schloβstraβe (Racc. pag. I-4279, punto 44), e Marks & Spencer, cit., punto 44.


82  – V. sentenza Gemeente Leusden, cit., punti 58, 65 e 69.


83  – V. sentenza 22 febbraio 1989, cause riunite 92/87 e 93/87, Commissione/Francia e Regno Unito (Racc. pag. 405, punto 22), e sentenza Sudholz, cit., punto 34. V. anche, nello stesso senso, supra, nt. 18, sulla giurisprudenza applicabile per analogia all'IVA.


84  – Sentenze BLP Group, cit., punto 26; 9 ottobre 2001, causa C-108/99, Cantor Fitzgerald (Racc. pag. I-7257, punto 33), e Gemeinde Leusden, cit., punto 79.


85  – Il pagamento delle imposte è certamente un costo di cui un operatore economico può legittimamente tener conto allorché sceglie tra vari modi di condurre un affare, sempre che soddisfi gli obblighi impostigli dalla legge. Si può dubitare forse della moralità di questa libertà, ma certo non della sua legittimità.


86  – Alcune misure nazionali antiabuso di carattere generale adottate da una serie di Stati membri (descritte supra, alla nt. 72) sono dunque applicabili, almeno in linea di principio, all'IVA in quegli Stati. È il caso di Francia, Germania, Austria, Spagna, Finlandia, Irlanda, Lussemburgo e Portogallo.


87  – V. supra, punto 77. La Corte ha, inoltre, nel contesto dell'art. 27, riconosciuto che «nulla impedisce che una disposizione (…) present[i] un certo grado di generalità o di astrattezza». V. sentenza 29 maggio 1997, causa C-63/96, Skripalle (Racc. pag. I-2847, punto 29).


88  – V. sentenze BLP Group, cit., punto 28; 26 settembre 1996, causa C-302/93, Debouche (Racc. pag. I-4495, punto 16), e 4 ottobre 1995, causa C-291/92, Armbrecht (Racc. pag. I-2775, punti 27 e 28). V. anche B. Terra e J. Kajus, AGuide to VAT, pag. 802, e P. Farmer e R. Lyal, EC Tax Law, pagg. 190 e 191.


89  – Sentenze BLP Group, cit., punto 19; Midland Bank, cit., punti 30-33, e Cibo Participations, cit., punti 31-35. V. anche sentenza Armbrecht, cit., punto 29.


90  – Sentenze BLP Group, cit., punti 19 e 24; Midland Bank, cit., punto 20, e Cibo Participations, cit., punto 29.


91  – Come affermato sia nella causa C-50/87, Commissione/Francia, cit., punto 15, che nella sentenza Rompelman, cit., punto 19, «il sistema delle detrazioni è inteso ad esonerare interamente l'imprenditore dall'IVA dovuta o pagata nell'ambito di tutte le sue attività economiche. Il sistema comune di imposta sul valore aggiunto garantisce, di conseguenza, la perfetta neutralità dell'imposizione fiscale per tutte le attività economiche (…), purché queste siano di per sé soggette all'IVA» (il corsivo è mio).


92  – V. Terra e Kajus, op. cit., pagg. 361-365.


93  – Invece una certa percentuale dell'IVA non detraibile assolta dai contribuenti sarà incorporata nel prezzo pagato dall'utente finale.


94 – C'è un certo parallelismo tra le attività oggetto delle fattispecie in esame e l'operazione analizzata nella sentenza 2 aprile 1998, causa C-296/95, EMU Tabac (Racc. pag. I-1605), la quale, secondo la descrizione fatta dal giudice nazionale, permetteva ai cittadini del Regno Unito di acquistare in patria tabacco, restando comodamente seduti sulle loro poltrone, da un negozio del Lussemburgo. Quel piano prevedeva il ricorso ad agenti e permetteva, in sostanza, ai consumatori di evitare il pagamento dell'accisa applicabile nel Regno Unito, ben maggiore di quella esigibile nel Granducato. Come osservava l'avvocato generale Ruiz-Jarabo Colomer, al paragrafo 89 delle conclusioni, «se in ultima istanza ciò si rivelasse necessario, il giudice nazionale potrebbe respingere il ricorso alla norma di copertura fatta valere dalle ricorrenti (la regola dell'imposizione all'origine) col motivo che il risultato della sua applicazione al caso di specie è palesemente in contrasto con lo spirito e la finalità della (…) direttiva [92/12/CEE] e contrario all'effettività di altre disposizioni della medesima. Con ciò non si farebbe altro che applicare il principio generale di diritto che vieta qualsiasi frode alla legge». La Corte fondò la sua risposta sull'interpretazione delle disposizioni rilevanti della direttiva, segnatamente l'art. 8, affermando che esse non si possono applicare quando l'acquisto e/o il trasporto di merci soggette ad accisa sono stati effettuati per il tramite di un agente (v. punto 37 della sentenza).