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61998C0035

Conclusioni dell'avvocato generale La Pergola del 24 giugno 1999. - Staatssecretaris van Financiën contro B.G.M. Verkooijen. - Domanda di pronuncia pregiudiziale: Hoge Raad - Paesi Bassi. - Libera circolazione dei capitali - Tassazione diretta dei dividendi azionari - Esenzione - Limitazione ai dividendi di azioni di società aventi sede sul territorio nazionale. - Causa C-35/98.

raccolta della giurisprudenza 2000 pagina I-04071


Conclusioni dell avvocato generale


I - Oggetto delle odierne questioni pregiudiziali

1 Con il presente procedimento vengono posti alla Corte tre quesiti pregiudiziali sull'interpretazione della direttiva 88/361/CEE (1) e sugli artt. 6 e 52 del trattato CE (divenuti, a seguito di modifica, rispettivamente, artt. 12 CE e 43 CE). In particolare, lo Hoge Raad der Nederlanden (in prosieguo: lo «Hoge Raad») chiede alla Corte di indicare se una norma fiscale che subordina l'esenzione (sino a un determinato importo) dall'imposta sul reddito delle persone fisiche gravante sui dividendi distribuiti ai titolari di azioni o quote di società alla condizione che si tratti di dividendi di società stabilite nel medesimo Stato membro ove è residente il contribuente è compatibile con le norme che garantiscono la libera circolazione dei capitali, la non discriminazione sulla base della nazionalità ed il libero stabilimento. Le questioni pregiudiziali poste alla Corte dal giudice a quo sono le seguenti:

«1) Se il combinato disposto dell'art. 1, n. 1, della direttiva 88/361/CEE e del punto I, sub 2), dell'allegato I della detta direttiva debba essere interpretato nel senso che una limitazione derivante dalla normativa di uno Stato membro in materia di imposta sul reddito che, fino ad un certo importo, esenta i dividendi dall'imposta sul reddito dovuta dagli azionisti, ma limita la detta esenzione ai dividendi di azioni di società stabilite nel detto Stato membro sia vietata ai sensi dell'art. 6, n. 1, della menzionata direttiva a partire dal 1º luglio 1990.

2) In caso di soluzione in senso negativo della questione sub 1), se gli artt. 6 e/o 52 [del trattato CE (divenuti, a seguito di modifica, rispettivamente, artt. 12 CE e 43 CE)] debbano essere interpretati nel senso che una norma limitativa quale quella menzionata nella questione sub 1), è con essi incompatibile.

3) Se influisca sulla soluzione delle questioni di cui sopra la circostanza che l'applicazione di una siffatta disposizione di esenzione venga invocata da un semplice titolare di quote di capitale o invece da un lavoratore (di una società controllata) che detiene le quote di cui trattasi nel contesto di un piano di risparmio per il personale».

II - Le pertinenti norme comunitarie

2 L'art. 1, n. 1, della direttiva prevede che: «Gli Stati membri sopprimono le restrizioni ai movimenti di capitali effettuati tra le persone residenti negli Stati membri, fatte salve le disposizioni che seguono. Per facilitare l'applicazione della presente direttiva i movimenti di capitali sono classificati in base alla nomenclatura riportata nell'allegato I» (2). Il punto I, sub 2), dell'allegato I della direttiva intitolato «Nomenclatura dei movimenti di capitali di cui all'articolo 1 della direttiva» (in prosieguo: la «nomenclatura») tra gli «investimenti diretti» indica la «partecipazione a imprese nuove o esistenti al fine di stabilire o mantenere legami economici durevoli». Per effetto del suo art. 6, n. 1, la direttiva è entrata in vigore il 1_ luglio 1990. Ricordo, infine, che l'art. 6 del trattato CE vieta in linea generale ogni discriminazione effettuata sulla base della nazionalità, mentre l'art. 52 del trattato CE in combinazione con l'art. 58 (divenuto art. 48 CE) garantisce per le società la libertà di stabilimento assicurando il beneficio del «trattamento nazionale», ovvero l'applicazione da parte dello Stato membro ospitante della legislazione valida per i propri cittadini.

III - Il quadro normativo nazionale

3 Secondo quanto risulta dal fascicolo di causa, l'art. 47b (3) della Wet op de inkomstenbelasting del 1964 (legge sull'imposta sul reddito) prevedeva (4) l'esenzione sino a un certo ammontare dall'imposta sui redditi delle persone fisiche per i dividendi frutto di azioni o quote di capitale di società. Ai sensi del n. 1 di detto articolo: «L'esenzione dei dividendi si applica ai redditi da azioni o quote di capitale sociale che siano stati inclusi tra i redditi per la determinazione del reddito lordo sui quali sia stata effettuata la ritenuta dell'imposta sui dividendi» (5). L'art. 1, n. 1, della Wet op de dividendbelasting del 1965 (6) (legge sull'imposta sui dividendi) prevede che l'imposta venga percepita, mediante una ritenuta alla fonte, soltanto sui dividendi di società stabilite nei Paesi Bassi. Pertanto, l'esenzione di cui all'art. 47b si applica unicamente ai dividendi distribuiti da società stabilite nei Paesi Bassi. Dal fascicolo di causa non risulta in alcun modo che al momento della liquidazione dell'imposta sui redditi si proceda alla deduzione di quanto sia già stato percepito con l'imposta sui dividendi. La disposizione contestata non prevede alcuna distinzione a seconda che il titolare delle azioni che hanno maturato i dividendi oggetto dell'imposta sia oppure no un dipendente della società emittente che le abbia acquistate nel contesto di un piano di risparmio del personale.

4 Dai lavori preparatori relativi all'introduzione dell'art. 47b nell'ordinamento giuridico olandese risulta che esso faceva parte di un pacchetto di misure «intese a migliorare i capitali propri delle imprese e a stimolare l'interesse dei privati per le azioni olandesi» (7). Una seconda giustificazione è apparsa soltanto nell'ultima fase dei lavori preparatori; mentre il progetto di legge veniva esaminato dalla prima camera degli Stati generali (Eerste Kamer), si è infatti tenuto altresì conto dell'effetto «attenuante» che l'esenzione sui dividendi avrebbe avuto su quella che in sostanza costituisce una «doppia imposizione». Come ho poc'anzi accennato, il regime fiscale dei Paesi Bassi prevede sia una ritenuta alla fonte sui dividendi sia un'imposta sui redditi delle persone fisiche beneficiarie di quei dividendi (8).

IV - I fatti ed il giudizio principale

5 Nel 1991 il signor Verkooijen risiedeva nei Paesi Bassi e vi lavorava come dipendente della società olandese Fina Nederland BV, indirettamente controllata dalla società per azioni Petrofina NV avente sede in Belgio e quotata alle borse di Bruxelles e di Anversa (in prosieguo: «Petrofina»). Nel contesto di un piano aziendale di risparmio a cui avevano accesso i dipendenti del gruppo facente capo a Petrofina, il Verkooijen acquistava delle azioni di quest'ultima. Nel 1991 esse gli fruttarono dividendi per un importo di circa NGL 2 337 (9). Sempre dal fascicolo di causa risulta che tali dividendi sono stati oggetto in Belgio di una ritenuta alla fonte, ma non sono stati assoggettati ad alcuna imposizione nei Paesi Bassi, ad eccezione di quella che, vedremo in seguito, ha interessato lo stesso signor Verkooijen. Questi aveva incluso i dividendi in questione nella propria dichiarazione dei redditi per l'anno fiscale 1991. Nel liquidare l'imposta sul reddito a carico del signor Verkooijen, l'ufficio delle imposte ne accertava il reddito imponibile senza applicare, con riferimento ai dividendi distribuiti da Petrofina, l'esenzione di cui all'art. 47b. L'amministrazione riteneva, infatti, che il signor Verkooijen non potesse beneficiare dell'esenzione perché questa è prevista soltanto per i dividendi di azioni o quote sociali sui quali sia già stata prelevata l'imposta (olandese) sui dividendi. In sostanza, l'amministrazione fiscale, anziché accertare nei confronti del signor Verkooijen un reddito imponibile di NGL 164 697, ne ha determinato l'importo in NGL 166 697 (10).

6 Dopo aver infruttuosamente proposto reclamo avverso tale accertamento, il signor Verkooijen ha impugnato innanzi al Gerechtshof di Gravenhage la decisione con cui l'ufficio delle imposte confermava l'accertamento stesso. Nell'accogliere l'impugnazione con sentenza del 10 aprile 1996, il Gerechtshof ha ridotto il reddito imponibile del signor Verkooijen per un importo pari a NGL 2 000, giudicando che la normativa fiscale olandese ostacolasse i movimenti di capitali e la libertà di stabilimento. Contro la pronunzia del Gerechtshof lo Staatssecretaris van Financiën (11) ha proposto ricorso per cassazione davanti allo Hoge Raad, il quale ha ritenuto di porre alla Corte i già ricordati quesiti pregiudiziali. Passo ad esaminarli nel merito con riferimento al quadro giuridico nazionale sopra delineato. Richiamerò dove occorre gli argomenti avanzati nel presente procedimento dal resistente e dai governi degli Stati membri intervenuti.

V - Il merito

A) Il primo quesito pregiudiziale

7 Con il primo quesito il giudice olandese, in sostanza, vi chiede se sia compatibile con la direttiva una disposizione nazionale che esonera parzialmente dall'imposta sul reddito delle persone fisiche i soli dividendi di azioni o quote di società stabilite nello Stato membro interessato.

1) Ordinamento comunitario e imposte dirette

8 Discostandosi dalla posizione assunta dal signor Verkooijen, dal governo britannico e dalla Commissione, il governo italiano ha in via preliminare sostenuto che la misura in esame non limita la libera circolazione dei capitali, perché la materia delle imposte dirette non è armonizzata a livello comunitario: ogni Stato membro sarebbe pertanto libero di determinare al suo interno le modalità di tassazione dei singoli redditi. E' un'opinione che non ritengo di poter condividere. Secondo la costante giurisprudenza della Corte, «se è pur vero che la materia delle imposte dirette rientra nella competenza degli Stati membri, questi ultimi devono tuttavia esercitare tale competenza nel rispetto del diritto comunitario» (12).

9 Sostanzialmente sulle tracce della tesi avanzata dal governo italiano, il governo dei Paesi Bassi fa valere la circostanza che nel 1975 la Commissione aveva presentato una proposta di direttiva del Consiglio concernente l'armonizzazione dei sistemi d'imposta sulle società e dei regimi di ritenute alla fonte sui dividendi (13), per poi ritirarla nel 1990 (14). Ora, la Commissione ha motivato il ritiro della proposta rilevando il carattere ormai obsoleto delle norme previste, sia dal punto di vista della concezione generale cui erano ispirate (15) sia da quello delle loro previsioni di dettaglio (16). Contrariamente a quanto suggerito dal governo olandese, l'esistenza stessa di quella proposta e le preoccupazioni ancora espresse dalla Commissione nel ritirarla nel 1990 dimostrano, a mio avviso, la rilevanza sul piano dell'ordinamento comunitario degli effetti che si correlano con la fiscalità diretta concernente i movimenti di capitali. Non a caso la Commissione, all'atto di ritirare la proposta, ha riconosciuto la necessità che il Consiglio adottasse senza indugio due proposte di direttiva (già al suo esame) dirette ad armonizzare alcuni aspetti dei regimi impositivi nazionali (17).

10 Secondo il governo olandese, inoltre, gli Stati membri sarebbero legittimati a considerare disposizioni quale quella contestata come compatibili con l'art. 1, n. 1, della direttiva. Questo perché la Commissione non ha avvertito lo stesso governo dei Paesi Bassi, al momento in cui la direttiva entrava in vigore, che le misure controverse avrebbero potuto essere contrarie al diritto comunitario. Cosa tanto più significativa, aggiunge il governo dei Paesi Bassi, in quanto i Paesi Bassi non sono i soli a prevedere nel proprio sistema fiscale un meccanismo di attenuazione della duplice imposizione limitato ai soli «rapporti interni», in modo da favorire gli investimenti in titoli nazionali (18). Senonché tale rilievo dei Paesi Bassi risulta del tutto inconferente nel contesto di un procedimento avviato innanzi alla Corte ai sensi dell'art. 177, paragrafo 1, lett. a), del trattato CE [divenuto art. 234 CE, paragrafo 1, lett. a)] che è esclusivamente inteso all'interpretazione del diritto comunitario. La pronuncia resa dalla Corte ai sensi dell'art. 177 deriva dal conferimento alla Corte di una giurisdizione «oggettiva», per l'esercizio della quale non viene in considerazione lo stato soggettivo (per esempio, la buona fede) del soggetto tenuto ad applicare la norma da interpretare. L'elemento soggettivo potrà, semmai, rilevare nei giudizi di cui la Corte è investita con riguardo alla lamentata inosservanza del Trattato e del diritto derivato (19).

2) L'eventuale ostacolo riguarda i movimenti di capitali?

11 Richiamando la giurisprudenza Bachmann (20), i governi britannico e francese hanno sostenuto la non rilevanza per il caso di specie dell'art. 67, che rivestirebbe carattere sussidiario rispetto alle disposizioni dettate per garantire altre libertà fondamentali. Ora, quel che la Corte ha affermato in Bachmann è che «l'art. 67 non vieta le restrizioni che non riguardano i trasferimenti di capitali, ma che sono la conseguenza indiretta di restrizioni riguardanti altre libertà fondamentali» (21). Altrimenti detto: l'art. 67 viene in giuoco solo quando un trasferimento di valori non costituisce un pagamento relativo a scambi di merci o di servizi (22). I governi presenti nell'attuale procedimento non hanno però indicato quali altre libertà fondamentali siano più direttamente ostacolate dalla disposizione contestata. A parte ciò, a me pare, ragionando secondo la giurisprudenza testé ricordata, che la specie che ci concerne sia chiaramente un caso in cui l'art. 67 non riveste carattere residuale. All'atto di acquistare le azioni di Petrofina (23), il signor Verkoijen non ha certo effettuato un pagamento a titolo di corrispettivo di una prestazione. Si tratta di una vera e propria operazione finanziaria, avente ad oggetto l'investimento di un determinato importo in azioni di società stabilita in un altro Stato membro: un vero e proprio movimento transfrontaliero di capitali, insomma. In Veronica (24), dove la misura nazionale controversa restringeva la partecipazione di una stazione radiotelevisiva, autorizzata in base alla normativa interna, al capitale di un'altra stazione creata, o da creare, in un altro Stato membro, la Corte ha dato per scontata la questione se l'acquisto di partecipazioni del genere costituisse un movimento di capitali ai sensi dell'art. 67, ed ha senz'altro proceduto all'esame del merito. Con il che essa ha mostrato come non fosse dubbia la pertinenza di tale disposto del Trattato per il caso sottoposto al suo esame. Ad ogni modo, è proprio il giudice remittente a dover valutare la pertinenza alla specie del quesito pregiudiziale attinente ai movimenti di capitali (25).

3) La misura nazionale pone un ostacolo ai movimenti di capitali?

12 Tutti i governi presenti in giudizio negano che sussista una qualsiasi restrizione contraria all'art. 1, n. 1, della direttiva. Questo, in sostanza, sulla base di un duplice ordine di considerazioni:

a) il legame tra la disposizione contestata (che si limita a incidere sui dividendi) e la libera circolazione dei capitali sarebbe troppo tenue ed indiretto perché l'art. 47b possa venire compreso nel campo di applicazione della direttiva;

b) né l'acquisto di azioni o quote di società stabilite in uno Stato membro diverso dai Paesi Bassi, né la distribuzione dei dividendi cui danno diritto partecipazioni in società straniere risulterebbero, in sé e per sé, impediti od ostacolati nella specie.

13 Quanto al punto indicato alla lett. a), vi è un nesso fra la misura olandese e la circolazione dei capitali, e non è un nesso indiretto al punto di rimuovere il caso dal campo di applicazione della direttiva. Vero è che la percezione di dividendi non è direttamente menzionata nella nomenclatura come un «movimento di capitali» (26). Il fruire di un dividendo ha tuttavia come presupposto indispensabile la «partecipazione a imprese» ovvero l'«acquisto di titoli», questi sì certamente movimenti di capitali ai sensi dell'art. 67 (27). E ciò basta, a mio avviso, per far rientrare la disposizione contestata nel campo di applicazione della direttiva. Del resto, il movimento di capitali che consiste nell'investire in azioni o quote di capitale di società è spesso motivato dall'intento di disporre dei dividendi ai quali l'interessato ha diritto per via di quella partecipazione. La stessa Corte ha di recente chiarito che, affinché un limite od ostacolo ad una determinata operazione cada sotto le previsioni dell'art. 73 B del trattato CE (divenuto art. 56 CE), è sufficiente che detta operazione sia «indissolubilmente legata» ad un movimento di capitali (28), ovvero ne costituisca il presupposto (29). La Corte ha, altresì, da tempo chiarito che la nozione di restrizione ai movimenti di capitali deve intendersi in senso ampio (30). Ai fini dell'applicazione dell'art. 67, pertanto, non importa la natura, né l'oggetto della disciplina nazionale dedotta in questione. Importa, invece, la sua eventuale incidenza sui movimenti di capitali. Un tale approccio mi sembra del tutto conforme al testo dell'art. 1, n. 1, della direttiva (norma vigente all'epoca dei fatti del giudizio principale) oltre che dell'art. 56 CE (norma attualmente vigente), il quale ultimo, proibendo senza qualificazioni ogni restrizione alla libera circolazione dei capitali, «consacra» il principio già fissato nella direttiva, e per così dire lo «costituzionalizza» (31).

14 Quanto, poi, alla pretesa assenza di impedimenti od ostacoli ai movimenti di capitali [v. paragrafo 12, lett. b)], ricordo che, come rivelano chiaramente i relativi lavori preparatori, l'art. 47b ha inteso introdurre nel sistema fiscale un trattamento «preferenziale» per coloro che si indirizzano al mercato azionario olandese, incoraggiandoli così a collocare il proprio capitale nei Paesi Bassi. Tenuto conto del suo contenuto, la disposizione contestata è sicuramente diretta, e idonea, a sortire l'effetto voluto. Non lo nega nemmeno lo stesso governo dei Paesi Bassi. Se così è, si è introdotta una norma che sarei incline a definire di orientamento «protezionista». Si dirà che l'art. 47b - in quanto concerne i dividendi distribuiti da società olandesi ai contribuenti residenti nei Paesi Bassi - non impedisce tout court né gli investimenti in azioni di società stabilite in un altro Stato membro, né la distribuzione dei dividendi cui quelle azioni possono dare diritto. Mi sembra, tuttavia, difficile escludere che una tale disposizione sia quantomeno idonea a dissuadere o scoraggiare i cittadini residenti nei Paesi Bassi dal collocare i propri capitali all'estero. Ed infatti, secondo il luogo in cui si colloca il capitale, la disposizione controversa può operare come un fattore di distorsione del rapporto tra il tasso di redditività economica di un investimento ed il tasso di rendimento per l'investitore al netto delle imposte. Diversamente da quanto ritenuto dai governi intervenuti, un tale effetto distorsivo non deve considerarsi come un elemento così secondario da non poter influire sull'analisi giuridica (32). Come osservava anni fa la Commissione (33), con il completamento del mercato unico si è infatti pervenuti alla soppressione degli ostacoli fisici e tecnici all'esercizio delle libertà fondamentali. Di conseguenza, le differenze tra i regimi fiscali degli Stati membri vengono accentuate ed esercitano notevole influenza proprio sulle decisioni relative agli investimenti. Il trattamento fiscale dei dividendi acquista peraltro crescente rilievo per le decisioni di investimento - mi preme dirlo - in vista dell'attuazione dell'unione economica e monetaria (la tappa successiva a quella del 1992 nell'ottica di un mercato interno pienamente integrato), dal momento che all'interno di undici Stati membri sono, dal 1º gennaio 1999, spariti i rischi di cambio. L'ostacolo creato dalle differenze di trattamento fiscale deve quindi essere valutato nella prospettiva che vediamo chiaramente delinearsi. Vengono quotate in borsa le azioni di un sempre maggior numero di importanti società europee, e quelle azioni possono essere anche acquistate attraverso Internet, quale che sia lo Stato membro in cui sono stabilite le società emittenti. In un tale contesto, gli ostacoli alla libera circolazione si riducono enormemente e le differenze fiscali fondate sulla «nazionalità» dei titoli, le quali non possono non influire sulle scelte degli investitori, devono essere rigorosamente controllate alla stregua del diritto comunitario.

15 Sempre sulla base degli elementi della normativa nazionale, quali risultano dal fascicolo del procedimento, l'art. 47b presenta a mio parere un secondo aspetto pertinente ai sensi dell'art. 67 e dell'art. 1, n. 1, della direttiva. Il limite «geografico» dell'esenzione ha, per vero, effetto restrittivo e dissuasivo anche per le società stabilite in altri Stati membri, in quanto le ostacola nella raccolta di capitali: esse sono dissuase dal collocare le proprie azioni nei Paesi Bassi, perché le loro azioni o quote risultano meno attraenti per gli investitori, stante il fatto che quando quelle società procedono alla distribuzione dei dividendi a favore degli azionisti ivi contribuenti, il trattamento fiscale riservato a tali dividendi è meno favorevole di quello applicabile ai dividendi distribuiti da società stabilite nello Stato membro interessato (34).

16 Ritengo, pertanto, che, per quanto fin qui osservato, l'art. 47b configuri una restrizione ai sensi dell'art. 1, n. 1, della direttiva mediante la quale il legislatore comunitario ha realizzato la completa liberalizzazione dei movimenti di capitali (35). Secondo la costante giurisprudenza della Corte, del resto, può ravvisarsi una restrizione o un ostacolo ad una libertà fondamentale nel caso in cui la misura che si adotta in sede nazionale basti a «scoraggiare» o «dissuadere» gli interessati dall'esercitare un qualche diritto o facoltà che sia una componente di tale libertà (36).

17 I governi nazionali intervenuti, e soprattutto quello britannico, hanno, poi, argomentato la compatibilità della disposizione contestata con l'art. 1, n. 1, della direttiva in base ad una sorta di regola de minimis: la norma in questione, essi sostengono, dispiegherebbe sul movimento dei capitali un effetto troppo tenue (37). Mi sia al riguardo consentito qualche rilievo. La prospettata tenuità degli effetti della disposizione contestata dipende evidentemente dall'investimento previsto e dalle risorse di chi lo effettua. Per il piccolo risparmiatore, che opera investimenti di importo necessariamente limitato, il poter oppur no godere dell'esenzione prevista dall'art. 47b costituisce, diversamente da come ritiene il Regno Unito, verosimilmente un elemento importante nella scelta del luogo in cui collocare i propri capitali (38). Comunque, la tesi difesa dai governi intervenuti urta contro la giurisprudenza della Corte, in cui si è giudicata contraria alle direttive di attuazione dell'art. 67 anche una misura nazionale che determina un semplice «intralcio» ai movimenti di capitali (39). Questa giurisprudenza può, a mio avviso, porsi sullo stesso piano di quella relativa alla libera circolazione delle merci (40), in relazione alla quale la Corte ha infatti statuito che «un provvedimento non è sottratto al divieto di cui all'art. 30 per il solo fatto che l'ostacolo frapposto all'importazione è di poco conto» (41) oppure «di lieve entità» (42). Analoga giurisprudenza della Corte ha interessato la libera circolazione delle persone (43) e la libera prestazione dei servizi (44): «come la Corte ha avuto più volte occasione di dichiarare, gli articoli del trattato CEE sulla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali sono norme fondamentali per la Comunità ed è vietato qualsiasi ostacolo, anche di minore importanza, a detta libertà» (45).

4) La misura nazionale è distintamente applicabile?

18 Sulla questione se sussista oppure no un qualche ostacolo alla libera circolazione dei capitali si è appuntata l'attenzione dei soggetti intervenuti nel presente procedimento. Qui però si impone un'altra riflessione in ordine al problema della compatibilità dell'art. 47b con le disposizioni comunitarie a garanzia della libertà di movimento dei capitali. Tale rilievo mi è offerto dal tenore letterale dell'art. 67, n. 1 (pienamente attuato dall'art. 1, n. 1, della direttiva), che sancisce l'obbligo per gli Stati membri di sopprimere tutte le «discriminazioni di trattamento fondate sul luogo di collocamento dei capitali». Ebbene, con la direttiva il mercato unico ha raggiunto la «maturità» anche per quanto concerne i movimenti di capitali. La stessa nozione di una libera circolazione, pienamente garantita, dovrebbe comportare che il luogo dal quale proviene o al quale perviene il capitale - il luogo, diciamo, del suo collocamento - non possa essere assunto dal legislatore nazionale come un lecito fattore discretivo per la disciplina della materia. Più precisamente: una disposizione della legge interna che si limitasse a differenziare il trattamento della circolazione dei capitali esclusivamente in ragione del luogo in cui questi si trovino situati andrebbe considerata come incompatibile con il Trattato, a me pare, anche se non si procede ad accertare l'entità dei limiti posti dalla disciplina nazionale alla libertà in questione (46). E questo in quanto ogni discriminazione darebbe automaticamente luogo ad un ostacolo, salvo, beninteso, che le norme dettate dal legislatore interno risultino giustificate da un pertinente titolo di intervento ai sensi dell'ordinamento comunitario (47). In Svensson (48), la Corte ha ritenuto discriminatoria (oltre che non giustificata) una misura nazionale in materia di abbuoni sugli interessi dei mutui per la casa, che distingueva a seconda dello Stato membro in cui era stabilita la banca dalla quale il mutuo era erogato. Quel caso tocca la circolazione dei capitali ed è chiaramente vicino a quello che ci occupa. Non importa che in Svensson la misura nazionale operasse una differenza di trattamento, a seconda dello Stato membro da dove proveniva il capitale (ostacolo all'importazione) piuttosto che in funzione dello Stato membro verso il quale il capitale si era mosso (ostacolo all'esportazione), come accade nel presente giudizio. Sulla base di queste considerazioni, mi sembra indubitabile che l'art. 47b costituisce una misura distintamente applicabile a seconda del luogo di collocamento del capitale che produce i frutti di cui godono i contribuenti dello Stato membro interessato, e che, quindi, anche per questo motivo la disposizione contestata si pone in contrasto con l'art. 1, n. 1, della direttiva. Da ciò derivano importanti conseguenze quanto alle cause di giustificazione ammissibili per la specie: un motivo imperativo di interesse generale, non previsto dal Trattato, non può essere fatto valere per giustificare una disparità di trattamento in linea di principio incompatibile con l'art. 1, n. 1, della direttiva (e con l'art. 67 n. 1). Secondo una giurisprudenza costante, solo disposizioni derogatorie espresse [quali gli artt. 36, 48, n. 3, e 56, n. 1, del trattato CE (divenuti, a seguito di modifica, rispettivamente, artt. 28 CE, 39 CE, n. 3, 46 CE, n. 1) e l'art. 66 del trattato CE (divenuto art. 55 CE)] potrebbero rendere una discriminazione simile compatibile con il diritto comunitario (49).

5) La misura nazionale è giustificata?

19 Si tratta ora di vedere, alla luce delle considerazioni sopra svolte, se l'art. 47b contraddica i criteri enunciati dalla giurisprudenza secondo cui, per non porsi in contrasto con l'ordinamento comunitario, misure del genere devono essere giustificate, se distintamente applicabili, da deroghe espresse e, se indistintamente applicabili, anche da motivi cogenti di interesse pubblico, oltre che idonee e proporzionate rispetto all'obiettivo perseguito dall'autorità che le adotta (50).

20 Osservo innanzitutto che nessuna delle disposizioni derogatorie previste dalla direttiva - le uniche in vigore al tempo dei fatti di causa (51) - è stata invocata dai governi intervenuti, e tantomeno dal governo olandese, per giustificare la disparità di trattamento derivante dalla normativa in esame. A rigore, pertanto, l'ostacolo frapposto ai movimenti di capitale dall'art. 47b dovrebbe considerarsi tout court non giustificato né giustificabile. I governi intervenuti ritengono, tuttavia, che la misura contestata debba essere fatta salva per un duplice ordine di considerazioni, uno fondato sulla giurisprudenza della Corte in tema di ragioni imperative di interesse generale, l'altro ricavato da una specifica disposizione derogatoria espressa introdotta nel trattato CE per via del Trattato UE ed entrata in vigore successivamente ai fatti del giudizio principale: l'art. 73 D, n. 1, lett. a), del trattato CE [divenuto art. 58 CE, n. 1, lett. a)].

6) Le ragioni imperative di interesse generale

21 Gli Stati membri intervenuti nel presente procedimento identificano innanzitutto due motivi in base ai quali la disposizione contestata dovrebbe considerarsi oggettivamente giustificata: l'intento di promuovere l'economia del paese incentivando l'investimento del risparmio in azioni o quote di società stabilite nello Stato membro interessato, e quello di attenuare gli effetti della duplice imposizione dei dividendi delle società olandesi, risultante dall'applicazione sia dell'imposta sui dividendi sia dell'imposta sui redditi delle persone fisiche beneficiarie di quei dividendi. La seconda giustificazione, essi deducono, è strettamente connessa con l'obiettivo di garantire la coerenza del regime fiscale olandese. L'esenzione sarebbe limitata ai dividendi «nazionali», in ragione del fatto che solo i dividendi delle società stabilite nei Paesi Bassi sono ivi soggetti alla relativa imposta. Se l'esenzione fosse estesa ai dividendi di società stabilite in un altro Stato membro e, pertanto, non tenute a percepire la ritenuta sui dividendi per conto dell'amministrazione fiscale olandese, la coerenza del sistema fiscale sarebbe contraddetta ed il governo olandese si troverebbe costretto a rinunziare del tutto all'imposizione su una parte dei dividendi (di provenienza estera) percepiti da un azionista domiciliato fiscalmente nel territorio nazionale. Un'applicazione «allargata» dell'esenzione si sostanzierebbe, quindi, in una rinunzia completa ad ogni imposizione per una parte del reddito delle persone fisiche, laddove, sostengono i governi intervenuti, un tale risultato non è imposto da alcuna disposizione comunitaria. In sintesi, si fa valere la stretta correlazione tra esentabilità dei dividendi dall'imposta sul reddito che grava sulle persone fisiche e l'assoggettamento di quegli stessi dividendi all'imposta sui dividendi.

22 La Corte ha ripetutamente escluso che un obiettivo di natura economica, quale è certamente il proposito di promuovere l'economia del paese, possa costituire un motivo imperativo di interesse pubblico che giustifichi restrizioni ad una libertà fondamentale garantita dal Trattato (52). Per il fatto, poi, di non essere previsto da una disposizione derogatoria espressa, quel motivo non può giustificare una misura nazionale che sia distintamente applicabile. Del resto, come ha osservato in Svensson l'avvocato generale Elmer, «disposizioni normative nazionali possono, a prima vista, apparire giustificate se si guarda solo all'economia nazionale, pur essendo contrarie al diritto comunitario» (53). Inoltre, una misura nazionale che si ispiri a tale obiettivo ed abbia al tempo stesso l'effetto di ostacolare la libera circolazione deve senz'altro qualificarsi come protezionistica e, così, contraria alla fondamentale esigenza della realizzazione di un mercato unico. Ora, la Corte non esita a ritenere incompatibili con il Trattato misure di tipo protezionistico (54). Per le ragioni che ho appena indicato, sono convinto che deve essere respinta, perché inammissibile, la prima giustificazione addotta dai governi intervenuti in relazione all'art. 47b.

23 Passiamo quindi a esaminare se i governi nazionali abbiano invocato fondatamente l'esigenza di salvaguardare la coerenza del regime fiscale considerato. Nonostante che la disposizione contestata sia discriminatoria (v., supra, paragrafo 18), l'esame nel merito di tale motivo di giustificazione si rende necessario in considerazione di una certa giurisprudenza della Corte che, solamente in relazione a questa specifica ragione imperativa di interesse generale, ammette che anche misure nazionali distintamente applicabili (nella specie, a seconda del luogo di collocamento del capitale) possono essere fatte salve per motivi non previsti da alcuna clausola derogatoria espressa. In due pronunzie di pari data ed aventi ad oggetto la medesima misura nazionale, giudicata incompatibile con gli artt. 48 e 59 del trattato CE, la Corte ha per la prima volta accolto - in relazione ad una misura distintamente applicabile - la giustificazione, non prevista da alcuna disposizione del Trattato, della necessità di garantire la coerenza del regime fiscale (55). Quella giurisprudenza, che con una motivazione ellittica si poneva in distonia con la costruzione giurisprudenziale relativa alle quattro libertà fondamentali, sembra trovare conferma in altre pronunzie della Corte in materia di libertà fondamentali. In Svensson (56) ed in ICI (57), per esempio, la Corte ha esaminato, giudicandole incompatibili con il Trattato, misure nazionali (di tipo fiscale, in ICI) distintamente applicabili (58) che utilizzavano il criterio discretivo della sede della società (o, meglio, dello Stato membro in cui questa aveva sede) per riconoscere o negare agli interessati determinati vantaggi (59). Ebbene, di fronte a misure nazionali del genere, pur ribadendo a chiare lettere il principio generale secondo il quale motivi imperativi di interesse generale, non previsti dal Trattato (60), non possono essere fatti valere per giustificare una disparità di trattamento in linea di principio incompatibile con gli artt. 52 e 59 del trattato CE (61); la Corte, richiamando ogni volta la giurisprudenza Bachmann e Commissione/Belgio, ha esaminato nel merito, invece di respingerla come inammissibile, la giustificazione attinente all'esigenza di garantire la coerenza di un determinato regime fiscale (62). Così facendo, e sempre con motivazione assai succinta, la Corte sembra aver confermato che, tra le ragioni imperative di interesse generale che valgono a giustificare misure nazionali che restringono le libertà fondamentali, ve n'è una per così dire più «imperativa» delle altre, in quanto validamente invocabile anche nel caso di legislazioni nazionali distintamente applicabili (63).

24 Nella specie, l'esigenza di assicurare la coerenza del regime fiscale considerato è invocata dai governi britannico e olandese, non tanto con riferimento al campo materiale «positivo» della disposizione contestata (cioè i casi cui questa si applica) quanto in relazione al campo materiale «negativo» della stessa (cioè i casi cui questa non può applicarsi). In altre parole, proprio la necessità di salvaguardare la coerenza fiscale sarebbe la ragione che ha indotto il legislatore olandese, dopo aver contemplato l'esenzione della quale si discute (64), a non estenderla ai dividendi distribuiti da una società stabilita in un altro Stato membro.

25 Secondo la giurisprudenza della Corte, la necessità di garantire la coerenza del regime fiscale vale a giustificare una restrizione ad una libertà fondamentale soltanto quando esista una stretta correlazione tra un beneficio fiscale (ovvero una rinunzia impositiva dell'amministrazione) ed un'imposizione (65). Una correlazione del genere esiste, per esempio, nel caso in cui la deducibilità dal reddito imponibile di contributi assicurativi sia subordinata alla condizione che l'impresa assicuratrice sia anch'essa stabilita nello Stato membro considerato, in modo da garantire a detto Stato membro la possibilità di assoggettare effettivamente a imposta i capitali corrisposti in seguito al verificarsi dell'evento assicurato ovvero in occasione del riscatto della polizza (66). Un siffatto regime fiscale prevede che una sola e stessa persona possa differire nel tempo, ma non eludere, la propria imposizione. Consentire la deducibilità dei contributi a chi li versa ad un impresa stabilita in un altro Stato membro comporterebbe invece una sottrazione di fondi alla potestà impositiva dello Stato membro interessato, quando, al momento in cui si erogano gli indennizzi ovvero le liquidazioni anticipate, quel beneficiario sia rientrato nello Stato membro di origine. Secondo la Corte, pertanto, in un sistema così congegnato vi è correlazione tra detraibilità e successiva imposizione e correlazione diretta, nel senso che l'una e l'altra misura interessano la medesima persona in momenti diversi della propria vita. Al contrario, non può dirsi diretta la correlazione che esiste tra la concessione ai mutuatari dell'abbuono di interessi, da un lato, e il suo finanziamento mediante l'imposta percepita sugli utili degli istituti finanziari, dall'altro (67), in quanto «non è assolutamente certo che, per effetto del regime di abbuono degli interessi, si creino in capo agli istituti di credito (...) disponibilità finanziarie tassabili. Un imponibile sorge infatti solo se la gestione dell'istituto di credito considerato si traduce globalmente in un utile, caso che non ricorrerà necessariamente, in quanto il risultato di gestione può essere influenzato negativamente da altri fattori, per esempio da perdite su prestiti o da perdite di cambio su titoli in portafoglio» (68).

26 Facendo applicazione dei principi che si desumono dalla giurisprudenza della Corte, l'estendere l'esenzione di cui all'art. 47b ai dividendi del signor Verkooijen incrinerebbe, a mio avviso, la correlazione che esiste tra esentabilità dei dividendi dall'imposta sul reddito e l'assoggettamento degli stessi all'imposta sui dividendi. Effettivamente, i Paesi Bassi hanno introdotto il contestato beneficio fiscale esclusivamente nel presupposto che il proprio regime tributario possa comunque incidere sul reddito oggetto dell'esenzione. Si tratta dei casi che riguardano i dividendi distribuiti da società olandesi, in quanto solo questi dividendi sono soggetti all'imposta olandese sui dividendi, la cui percezione, ripeto, costituisce il presupposto dell'esenzione. Applicare l'esenzione a dividendi distribuiti da una società stabilita in un altro Stato membro inciderebbe negativamente sul gettito dell'imposizione fiscale qui considerata: da una parte, lo Stato membro che ha adottato la disciplina in esame non potrebbe percepire l'imposta sui dividendi e, dall'altra, esso si vedrebbe costretto a riconoscere al proprio contribuente un'esenzione (anche soltanto parziale) da quell'imposta per redditi che non si colpiscono con quell'imposta, la sola che può essere percepita in relazione ad un elemento del suo reddito, i dividendi di origine straniera.

27 Inoltre, ritengo che la correlazione che esiste tra l'esenzione prevista all'art. 47b e la percezione dell'imposta sui dividendi sia diretta. Infatti, come risulta dai lavori preparatori relativi alla disposizione contestata con cui il legislatore olandese ha inteso mitigare gli effetti della doppia imposizione (69), l'imposta sui dividendi e l'imposta sul reddito delle persone fisiche, indicati nell'ordinanza di rinvio, incidono, dal punto di vista economico, sul medesimo contribuente (il beneficiario dei dividendi). Al contrario, in Svensson, pronunzia in cui la Corte non ritenne sussistere alcun rischio di lesione alla coerenza del regime fiscale del Lussemburgo, l'abbuono e l'imposizione (tra i quali si asseriva esistere un legame) non riguardavano il medesimo contribuente, bensì soggetti fiscali diversi (70): i mutuatari e gli istituti finanziari (71). Non solo. Mentre in una situazione quale quella che forma l'oggetto della sentenza nel caso Bachmann il lasso di tempo intercorrente tra detraibilità dei contributi e l'imposizione delle prestazioni previdenziali può essere di diversi anni, nel nostro caso la percezione dell'imposta sui dividendi e l'applicazione dell'esenzione hanno invece luogo pressoché contemporaneamente, al momento in cui sono scontate le imposte relative ad un medesimo anno fiscale (72).

7) L'idoneità e la proporzionalità della misura nazionale

28 Come risulta dalla giurisprudenza della Corte, affinché le misure nazionali che ostacolano o scoraggiano l'esercizio delle libertà fondamentali garantite dal Trattato possano considerarsi effettivamente giustificate da motivi cogenti di interesse pubblico, esse devono essere idonee alla realizzazione dello scopo perseguito e non spingersi oltre quanto è necessario per il suo conseguimento (73).

29 Sull'idoneità della disposizione contestata a conseguire una quantomeno parziale attenuazione, a favore dell'azionista beneficiario, degli effetti della doppia imposizione che nei Paesi Bassi interessa i dividendi, non credo vi possano essere dubbi, non sollevati del resto da alcuno dei soggetti intervenuti nel presente procedimento. Quanto alla questione se la disposizione contestata sia proporzionale rispetto al fine perseguito dal legislatore olandese, nell'ambito della ripartizione delle competenze stabilite dall'art. 177, spetta al giudice nazionale stabilire se, per quanto giustificato in linea di principio, l'ostacolo frapposto da una misura nazionale ad una libertà fondamentale non possa essere evitato o ridotto senza che venga compromesso il raggiungimento degli scopi perseguiti dalla misura medesima (74). A me sembra, a tale proposito, che l'unica alternativa avanzata nel corso del presente procedimento - suggerita dalla Commissione nel corso della fase orale in quanto asseritamente meno limitativa dei movimenti di capitali -, e consistente nell'applicazione di un'esenzione o di un credito di imposta ai dividendi aventi origine in un altro Stato membro, sia - per quanto concerne la specie che qui interessa ed avendo riguardo al quadro normativo nazionale così come delineato sopra ai paragrafi 3 e 4 - in contraddizione con la coerenza che si intende preservare in quanto, in assenza di opportuni accordi convenzionali con altri Stati (75), si andrebbe evidentemente ad incidere sul gettito fiscale dei Paesi Bassi senza alcuna contropartita o bilanciamento.

8) La deroga prevista dall'art. 73 D, n. 1, lett. a)

30 In aggiunta alle giustificazioni fondate su ragioni imperative di interesse generale tratte dalla giurisprudenza della Corte, tutti gli Stati membri intervenuti ritengono che l'art. 47b debba comunque essere fatto salvo grazie alla deroga ora prevista all'art. 73 D, n. 1, lett. a) (76), argomentando che tale disposizione, seppure entrata in vigore nel 1994 (dopo i fatti di causa), in sostanza riproduce la normativa previgente (77).

31 Sebbene le disposizioni introdotte con il Trattato UE non formino oggetto degli odierni quesiti pregiudiziali, è chiara la pertinenza al caso in esame della tesi appena accennata. Il suo interesse discende per vero dal fatto che i governi intervenuti non pretendono che la deroga sia «nuova» ed abbia effetto retroattivo, ma che essa rappresenti semplicemente la «costituzionalizzazione» in seno al Trattato di un principio previgente e, quindi, applicabile alla specie del giudizio principale. Lo stesso giudice di rinvio si sofferma diffusamente sul punto nella parte motiva del provvedimento di rinvio alla Corte. La deroga è dunque invocata per dedurre, in definitiva, che le norme previgenti prevedevano già la facoltà per gli Stati membri di applicare disposizioni fiscali che distinguono tra i contribuenti in situazioni diverse quanto al luogo di collocamento del loro capitale. In aggiunta, mi pare di capire, i governi intervenuti invocano la specificità della normativa fiscale: quella facoltà sarebbe, data la natura della materia con riguardo alla quale essa si esercita, praticamente incondizionata. Di conseguenza, la deroga non sarebbe, a loro avviso, neppure soggetta alle limitazioni previste dall'art. 73 D, n. 3, equivalente all'ultima frase dell'art. 36 del trattato CE. Tale conclusione è argomentata essenzialmente in base ad un'interpretazione letterale della norma stessa (78). Per questa via, si configura la facoltà in questione come incondizionata: essa non è soggetta al controllo giurisdizionale né quanto alla fondatezza dei motivi cogenti di interesse generale addotti per giustificare la differenza di trattamento secondo il luogo di collocamento del capitale, né quanto alla proporzionalità della misura adottata rispetto agli obiettivi che essa si propone.

32 Ebbene, posso condividere la tesi ora richiamata, ma solo in parte. Per un verso, sono convinto che la deroga non costituisce un passo indietro rispetto all'acquis comunitario. Si può ragionevolmente affermare che essa era già consentita dal Trattato in vigore prima del 1_ gennaio 1994 (79). E' vero, infatti, che secondo la giurisprudenza della Corte determinate distinzioni (per esempio, fondate sulla residenza dei contribuenti) contenute in disposizioni fiscali possono essere mantenute dagli Stati membri, purché siano fondate su situazioni sostanziali oggettivamente non equiparabili (80) oppure, se distintamente applicabili, siano giustificate da motivi imperativi di interesse generale (81).

33 Per altro verso, escluderei che la differenza di trattamento fiscale in ragione del luogo di collocamento dei capitali - qual è stato consentito nel Trattato, con il prevedere la possibilità della deroga - debba essere considerata come giustificata in ogni caso. Innanzitutto, è la stessa giurisprudenza della Corte che abbiamo testé evocato ad imporre che qualunque distinzione (82) posta nella normativa fiscale di uno Stato membro debba essere fondata su elementi oggettivi (83) o comunque giustificata e, quindi, soggetta al vaglio del test della proporzionalità: diversamente, si priverebbe di ogni significato l'affermazione, da cui mi pare muovano i governi intervenuti e che condivido, secondo la quale la deroga deve intendersi ed applicarsi in conformità della giurisprudenza dettata dalla Corte. Pertanto, le limitazioni previste dall'art. 73 D, n. 3, valgono altresì per la deroga di cui al n. 1, lett. a), del medesimo articolo, il quale dovrà leggersi come un tutt'uno, contrariamente a quanto ritenuto dai governi intervenuti (84). In secondo luogo, il ritenere giustificate per se - in via di presunzione assoluta - tutte le fattispecie previste dalla deroga condurrebbe ad attribuire alla deroga stessa il significato particolare, sconosciuto al Trattato, di distinguere - non riesco a vedere per quale motivo - i casi che essa concerne da tutti gli altri di ordine eccezionale - indicati expressis verbis nel Trattato - che valgono a giustificare ostacoli alle libertà fondamentali.

34 Ora, se applichiamo all'attuale caso di specie la deroga di cui all'art. 73 D, n. 1, lett. a), e adottiamo al riguardo i criteri interpretativi sopra richiamati, il risultato corrisponderà in sostanza a quello che dovremmo raggiungere sulla base delle disposizioni previgenti. In sé e per sé considerato, l'art. 47b detta un regime differenziato esclusivamente in ragione del luogo in cui è collocato il capitale del contribuente olandese, e la disposizione che lo prevede non sfugge al divieto di cui all'art. 73 B. Il fatto, poi, che quella disparità di regime, contenuta in una disposizione fiscale, possa essere giustificata in base ad un'esigenza imperativa di interesse generale riconosciuta dalla Corte altro non significa se non che la misura nazionale in questione può - sempre in linea di principio, ed in quanto non arbitrariamente discriminatoria - esser fatta ricadere nel campo di applicazione della deroga. La disparità di trattamento operata dalla normativa fiscale olandese potrà poi dirsi giustificata, ed effettivamente coperta dalla deroga, solo se essa risulta avere in concreto soddisfatto il requisito della proporzionalità secondo i canoni ermeneutici tradizionalmente applicati dalla Corte sin da prima dell'entrata in vigore delle nuove disposizioni sui movimenti di capitali (85).

35 In conclusione, una misura che limiti il riconoscimento di un'esenzione dall'imposta sui redditi ai soli dividendi distribuiti da una società stabilita nello Stato membro interessato costituisce un ostacolo contrario all'art. 1, n. 1, della direttiva. Senonché, il diniego di applicare tale esenzione anche ai dividendi distribuiti da una società stabilita in un altro Stato membro è in linea di principio giustificato dalla necessità di garantire la coerenza del regime fiscale considerato. Le mie conclusioni, fondate sulle disposizioni di diritto comunitario vigenti all'epoca dei fatti oggetto del giudizio principale, restano ferme anche alla luce della deroga prevista dall'art. 73 D, n. 1, lett. a). Nel consentire la deroga che importa ai fini del presente giudizio, il legislatore comunitario non introduce alcun nuovo principio fra le disposizioni sui movimenti di capitali; esso rende invece esplicita nel testo del Trattato una regola preesistente e, pertanto, inquadrata nel sistema che ho già considerato in sede di analisi della disposizione controversa.

B) Il secondo quesito pregiudiziale

36 In caso di risposta negativa al primo quesito, lo Hoge Raad desidera sapere se gli artt. 6 e/o 52 del trattato CE ostano ad una misura nazionale quale l'art. 47b.

37 Sono d'accordo con i governi intervenuti. L'art. 6 il quale sancisce il principio del divieto di discriminazione fondata sulla nazionalità, non rileva nella specie in quanto norma generale destinata ad applicarsi alle situazioni disciplinate dal diritto comunitario per le quali il Trattato non abbia stabilito norme specifiche di non discriminazione (86), quale è proprio l'art. 52, in combinato disposto, per quanto concerne le società, con l'art. 58. Questa disposizione conferisce la libertà di stabilimento ai cittadini di un altro Stato membro, riconoscendo loro la possibilità di costituire e gestire imprese e società nello stesso modo stabilito dalle leggi dello Stato membro di stabilimento per i propri cittadini.

38 In via preliminare, i governi britannico e olandese hanno sostenuto che l'art. 52 non è applicabile alla specie in esame in quanto norma generale rispetto a quelle più specifiche sulla libera circolazione dei capitali, che devono essere fatte salve. Quei governi, come si è visto, hanno difeso la disposizione contestata asserendone la compatibilità con le disposizioni comunitarie poste a garanzia dei movimenti di capitali. Secondo quei governi, se ho ben capito, l'art. 52 non osta alla disposizione contestata, la quale sarebbe compatibile con l'art. 1, n. 1, della direttiva. Ora, a me pare che, nella specie, detto argomento non sia pertinente. E' bensì vero che l'art. 52, n. 2, sancisce il principio del trattamento nazionale per quanto concerne lo stabilimento di società in un altro Stato membro, «fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali» (87); tuttavia, tale disposizione esprime semplicemente la preoccupazione dei redattori del Trattato che non vi siano sovrapposizioni delle disposizioni a tutela del diritto di stabilimento e della libera circolazione dei capitali, ovvero dei casi di applicazione congiunta di due serie di disposizioni al medesimo ostacolo. Invece, non si può escludere che una medesima disposizione della legislazione di uno Stato membro presenti più profili distinti, tutti rilevanti innanzi al Trattato, qual è il caso di una misura nazionale che ostacola, al contempo e con pari rilievo, più di una libertà fondamentale. In Svensson, la Corte ha giudicato la medesima misura incompatibile, in ugual misura, sia con l'art. 59, sia con l'art. 67. Più di recente, l'avvocato generale Tesauro ha ammesso in linea di principio «l'ipotesi di un'applicazione combinata [di] due gruppi di norme (...) rispetto a misure che contestualmente ostacolino, beninteso in relazione a profili distinti, [due diverse libertà fondamentali]», ivi compresa quella di circolazione dei capitali (88). A questo proposito, osservo, infine, che, in Veronica, dove la misura nazionale in questione (v. paragrafo 11) è stata giudicata al contempo compatibile con le diposizioni a tutela delle libertà di circolazione dei servizi e dei capitali, la Corte ha proceduto ad un esame parallelo del caso alla luce di due distinti gruppi di norme, non escludendo affatto la rilevanza dell'aspetto «servizi», nonostante che la misura nazionale fosse, in relazione al profilo «capitali», compatibile con il Trattato.

39 Quanto al merito dell'esame dell'art. 47b, devo subito rilevare come esso sia, anche se esaminato dal diverso punto di vista delle disposizioni poste a garanzia della libertà di stabilimento (delle società), distintamente applicabile (come non ha mancato di osservare il signor Verkooijen), in quanto distingue tra dividendi distribuiti da società olandesi e quelli di società stabilite in un altro Stato membro. Questo rilievo, qualora la distinzione operata dalla legislazione fiscale olandese non sia fondata su situazioni oggettivamente non analoghe oppure non sia giustificata da una pertinente ragione imperativa di interesse generale (v. paragrafo 32, in fine), basterebbe - da solo - a far ritenere la disposizione contestata incompatibile con l'art. 52: «l'art. 52 vieta qualsiasi discriminazione, sia pure di lieve entità» (89).

40 In relazione, poi, alla questione della sussistenza o meno di un ostacolo ai sensi dell'art. 52, a seguito di una prima lettura potrebbe apparire che le società emittenti siano solo «indirettamente» interessate dalla disposizione contestata: l'art. 47b è estraneo al regime fiscale delle società in senso stretto, in quanto incide sui benefici goduti dagli azionisti persone fisiche (l'esenzione vale solo per l'imposta sul reddito delle persone fisiche, v. paragrafo 3), dopo che gli utili derivanti dall'attività di impresa (e che sono serviti per la distribuzione dei dividendi) sono già stati assoggettati all'imposta sul reddito delle società. Tuttavia, come vedremo in appresso, il regime fiscale previsto per i dividendi aventi origine in un altro Stato membro non può - in relazione a profili distinti da quelli esaminati nella parte relativa al primo quesito pregiudiziale - non influenzare (90) determinate decisioni che società stabilite nel territorio comunitario (anche nei Paesi Bassi, dunque) debbano prendere in relazione al loro stabilimento, principale o secondario.

41 E' infatti possibile identificare tutta una serie di ipotesi in cui la libertà di stabilimento sia in qualche misura ostacolata da una misura nazionale quale l'art. 47b:

a) come ha osservato il signor Verkooijen, una società con sede principale in un altro Stato membro che intenda stabilirsi a titolo secondario (91) nei Paesi Bassi sarà scoraggiata dal farlo in una forma diversa da quella societaria nell'ipotesi in cui intenda far ricorso al mercato dei capitali di quello Stato membro, capitali ovviamente necessari alla gestione d'impresa (92). In sostanza, la disposizione contestata induce a preferire uno stabilimento in forma di affiliata, giuridicamente indipendente dalla società madre da cui è controllata, rispetto all'alternativa della succursale, definita come un'universalità di fatto, ovvero un semplice smembramento dell'impresa, che consente di realizzare una certa decentralizzazione (93). Ora, in Centros, la Corte ha recentemente ribadito che la libertà di stabilimento comprende la facoltà, per la società che intende stabilirsi a titolo secondario in un altro Stato membro, di svolgere la propria attività nella forma che ritiene più opportuna (94): ogni ostacolo a quel diritto di scelta deve pertanto ritenersi incompatibile con l'art. 52.

b) Una società stabilita nei Paesi Bassi e con un azionariato consistente (non necessariamente in modo integrale) di persone fisiche fiscalmente residenti nel medesimo Stato membro, la quale intenda stabilirsi a titolo primario in un altro Stato membro (trasferendovi la sede principale ed acquisendo così la qualità di società dello Stato membro di accoglienza) (95), sarà scoraggiata dall'effettuare tale passo, atteso che i propri azionisti olandesi perderebbero automaticamente il beneficio di cui all'art. 47b dal momento che i dividendi che essi ricevono non sarebbero più distribuiti da una società «olandese».

c) L'art. 47b gioca un ruolo, a mio parere, anche nell'ipotesi di operazioni di fusione che interessino una società stabilita nei Paesi Bassi e con azionisti persone fisiche ivi residenti. Infatti, come nel caso sub b), tali azionisti perdono il beneficio di cui alla disposizione contestata: i) nel caso di una fusione per incorporazione in cui la società incorporante non abbia sede nei Paesi Bassi, e ii) nel caso di una vera e propria fusione quando la società neocostituita risultante dall'operazione non abbia sede nei Paesi Bassi (96). Nei casi i) e ii), infatti, i dividendi ricevuti da contribuenti olandesi, all'indomani di operazioni quali quelle descritte, non avranno più origine da una società stabilita nei Paesi Bassi.

42 I profili qui indicati a titolo esemplificativo vengono ad interessare l'art. 52 in via autonoma. Infatti, nei casi sub a), b) e c), l'esercizio della libertà di stabilimento che risulta ostacolato (ovvero scoraggiato o influenzato) dalla disposizione contestata attiene a scelte gestionali di un'impresa in forma societaria (rispettivamente, forma della decentralizzazione delle attività, localizzazione della sede principale, fusione con altre imprese) che prescindono (quantomeno in via diretta) da movimenti di capitali, ai sensi dell'art. 67 e della direttiva, quale quello effettuato dal signor Verkooijen all'atto dell'acquisto delle azioni di Petrofina.

43 In relazione, poi, alla pretesa tenuità degli effetti che, secondo i governi intervenuti, l'art. 47b dispiegherebbe sulla libertà di stabilimento, ricordo che, secondo una giurisprudenza costante della Corte, l'art. 52 vieta «qualsiasi ostacolo, anche di minore importanza, a detta libertà» (v. paragrafo 17, in fine) (97).

44 Posto che la disposizione contestata presenta profili di incompatibilità con l'art. 52, è ora necessario verificare se essa possa considerarsi giustificata, idonea al raggiungimento dello scopo perseguito dal legislatore e proporzionale. Nonostante i distinti profili in relazione ai quali l'art. 47b può dirsi in contrasto con le disposizioni del Trattato poste a tutela della libertà di stabilimento, ritengo che - in merito all'individuazione ed alla sussistenza di una causa di giustificazione oltre che all'idoneità ed alla proporzionalità della misura nazionale in questione - valgano qui le riflessioni già svolte nel corso della trattazione del primo quesito pregiudiziale (v. paragrafi 19-29): la disposizione contestata resta la medesima (all'interno del medesimo regime fiscale), ed il fatto che essa sia distintamente applicabile anche per quanto concerne il profilo dell'esercizio del libero stabilimento importa le conseguenze già descritte (v. paragrafo 23) in ordine all'individuazione delle possibili cause di giustificazione.

45 In conclusione, ritengo che una misura nazionale quale la disposizione contestata presenti distinti profili di incompatibilità con l'art. 52, ma che essa debba tuttavia considerarsi in linea di principio giustificata dall'esigenza di garantire la coerenza del regime fiscale dello Stato membro interessato.

C) Il primo ed il secondo quesito pregiudiziale: una prospettiva completa

46 L'esame dei primi due quesiti pregiudiziali fin qui effettuato si è incentrato sui dati che più chiaramente emergono dal fascicolo del procedimento. A mio parere, è ora opportuno far riferimento ad altri elementi che ritengo pertinenti ai fini di una corretta soluzione a detti quesiti: le pattuizioni contenute nella convenzione fiscale bilaterale contro le doppie imposizioni stipulata tra il Belgio ed i Paesi Bassi (98) (cioè il primo, lo Stato membro in cui ha sede Petrofina ed hanno origine i dividendi oggetto del giudizio principale, il secondo, lo Stato membro in cui risiede il signor Verkooijen), e ciò per le ragioni che passo a esporre. E' bensì vero che il fatto che a tale convenzione non sia praticamente fatto cenno né nell'ordinanza di rinvio né nelle osservazioni presentate nel procedimento innanzi alla Corte (99) potrebbe indurre a considerare addirittura come mal posta la domanda di pronunzia pregiudiziale sottoposta dallo Hoge Raad: l'ordinanza di rinvio, infatti, omettendo di considerare la convenzione (non foss'altro per escluderne la rilevanza per la specie) non sembra definire con sufficiente precisione l'ambito di diritto in cui si inseriscono le questioni sollevate. Del resto, come ha correttamente osservato l'avvocato generale Léger in Wielockx (100), «le convenzioni contro le doppie imposizioni (...) costituiscono parte integrante del sistema tributario nazionale» e di esse pertanto occorre tenere, comunque, debito conto per un completo inquadramento di fattispecie giuridiche attinenti al diritto fiscale e caratterizzate da un elemento transfrontaliero.

47 Nondimeno, in ottemperanza agli obblighi di cooperazione giudiziaria derivanti dall'art. 177, a mio parere, incombe alla Corte di prendere in considerazione ogni elemento pertinente di cui essa sia a conoscenza, al fine di rendere una risposta utile al giudice remittente. A questo proposito, ricordo che in passato la Corte si è più volte soffermata (in varia misura) su tali convenzioni, sebbene esse non formassero oggetto dei quesiti pregiudiziali rivoltile (101). E' evidente, quindi, nel nostro caso, la necessità (o, quantomeno, l'opportunità) di non trascurare (102) disposizioni di una convenzione bilaterale, quale quella stipulata tra il Belgio ed i Paesi Bassi, convenzione che la Corte ha già avuto occasione di esaminare da vicino (103) e che contiene disposizioni pattizie che riguardano specificamente e direttamente il caso de quo (104).

48 Sempre in via preliminare, osservo, da ultimo, come la Corte abbia già avuto occasione di statuire su quesiti pregiudiziali con un dispositivo dalla valenza duplice, al fine di tener conto di tutte le alternative quanto al possibile quadro giuridico di riferimento. In Naranjo Arjona (105), la Corte ha interpretato il diritto comunitario facendo innanzitutto riferimento alle norme interne indicate dal giudice remittente (punti 15-24 e dispositivo), per poi allargare la propria analisi sino a ricomprendervi una convenzione internazionale (citata dalla Commissione, ma non indicata nell'ordinanza di rinvio), nell'ipotesi in cui quest'ultima si fosse, in concreto, rivelata «effettivamente» applicabile (punti 25-29 e dispositivo). In quel caso, la Corte precisò che «spetta al giudice nazionale accertare se l'applicazione d[ella] convenzione risulti effettivamente [pertinente]» (punto 29), poi indicando, nel dispositivo, quale fosse la soluzione delle questioni sollevate dal giudice, sia per il caso in cui fosse applicabile soltanto il diritto interno dello Stato membro interessato, sia per il caso in cui il giudice nazionale ritenesse più corretta una pronunzia che si basasse sulla convenzione internazionale (106). Del pari, per i motivi già illustrati, la specie oggetto del giudizio principale pendente innanzi allo Hoge Raad richiede, a mio avviso, che non si ometta di considerare, nell'alternativa, uno sfondo normativo comprendente la convenzione, oltre alle norme di diritto interne richiamate nell'ordinanza di rinvio.

1) La convenzione Belgio-Paesi Bassi contro le doppie imposizioni

49 Ora, mi fermo, appunto, a considerare la convenzione, limitatamente alla sua incidenza sul presente giudizio. Le considerazioni che formulerò potranno, tuttavia, rilevare per altri casi, oltre a quello da cui trae origine il presente quesito pregiudiziale, perché quanto è stato pattuito in materia di dividendi «transfrontalieri» tra il Belgio ed i Paesi Bassi ricalca (praticamente al pari di tutte le analoghe convenzioni fra gli Stati membri della Comunità (107)) il modello di convenzione contro le doppie imposizioni predisposto dall'OCSE (108). Peraltro, le mie conclusioni fondate esclusivamente sulle disposizioni interne dei Paesi Bassi rimangono ferme per il caso, non ipotetico (109), in cui la legislazione nazionale non si accompagni ad una convenzione fiscale contro le doppie imposizioni contenente disposizioni quali quelle che passo ad illustrare.

50 L'art. 10, n. 1, della convenzione enuncia il principio di base, secondo il quale lo Stato contraente in cui è residente l'azionista può assoggettare ad imposta i dividendi che provengono dall'altro Stato contraente (110). L'art. 10, n. 2, della convenzione prevede che anche lo Stato da cui originano i dividendi (presso il quale, cioè, è stabilita la società che li distribuisce) possa assoggettarli ad imposta (normalmente con un ritenuta alla fonte, ulteriore rispetto all'imposta che incide sugli utili delle società), ma in una percentuale limitata nel suo massimo (111). Inoltre, con l'art. 24 della convenzione (112) i Paesi Bassi si impegnano a riconoscere un credito d'imposta al fine di evitare la doppia imposizione dei dividendi di cui abbia beneficiato un proprio contribuente che è azionista di società stabilita in Belgio, e ciò qualora, ed in quanto, quei dividendi abbiano già scontato in Belgio la ritenuta alla fonte prevista all'art. 10, n. 2, della convenzione (113). In sostanza, il regime convenzionale che concerne il caso del contribuente olandese beneficiario di dividendi distribuiti da una società belga prevede un meccanismo, assai diffuso nella pratica, non tanto per attenuare quanto, piuttosto, per evitare gli effetti della doppia imposizione.

51 In considerazione del quadro complessivo delle pertinenti disposizioni - nazionali, e come ora dico, convenzionali - il regime fiscale olandese, nel prevedere l'eliminazione o, comunque, l'attenuazione degli effetti della doppia imposizione sia per le situazioni puramente «interne» sia per quelle «transfrontaliere», si caratterizza dunque per una coerenza del trattamento di fattispecie diverse. Osservo, poi, che mediante il credito d'imposta sui dividendi distribuiti da una società belga i Paesi Bassi pervengono ad un risultato che mi pare più efficace di quello che si ottiene, per i dividendi distribuiti da società olandesi, mediante il riconoscimento della parziale esenzione prevista dall'art. 47b. Come ho poc'anzi rilevato, infatti, nel caso di dividendi «transfrontalieri», più che di attenuazione della doppia imposizione, è corretto parlare di una sua eliminazione.

2) I movimenti di capitali

52 Premesso ciò, soffermiamoci ora sulla fattispecie oggetto del primo quesito pregiudiziale. Guardiamo al caso del contribuente olandese che, come il signor Verkooijen, abbia investito in azioni di società stabilita in Belgio con il risultato di godere del credito d'imposta previsto dall'art. 24, n. 1, della convenzione. Che cosa accade quando tale contribuente chiede altresì l'esenzione di cui all'art. 47b? In realtà, pur motivando la propria richiesta con il principio della parità di trattamento dei capitali collocati in luoghi diversi, egli non solo pretende di essere trattato in modo più favorevole di chi, fiscalmente residente nei Paesi Bassi, abbia investito in azioni olandesi, ma, addirittura, pur avendo diritto, in ipotesi, di beneficiare del credito d'imposta previsto dalla convenzione (che di per sé evita già gli effetti della doppia imposizione) in buona sostanza vuole sottrarsi all'imposta sul reddito, almeno per un imponibile di NGL 2 000. Orbene, un risultato di tal genere per un verso non coincide con gli obiettivi del Trattato (e della direttiva), per l'altro incide - ingiustificatamente - sulla potestà impositiva dello Stato membro interessato. Le disposizioni comunitarie in materia di movimenti di capitali mirano ad eliminare ogni ostacolo, non a creare incentivi per tali movimenti, prevedendo l'obbligo per gli Stati membri di non trattare in modo più sfavorevole la situazione di rilevanza comunitaria rispetto a quella puramente interna. Ci troviamo di fronte ad uno Stato membro il quale ha già stipulato e reso operante nel proprio ordinamento un accordo convenzionale idoneo ad evitare la doppia imposizione dei dividendi «transfrontalieri», accordo che non pone certo ostacoli alla libera circolazione dei capitali ai sensi dell'art. 1, n. 1, della direttiva (o dell'art. 73 B). Non vedo come il diritto comunitario possa obbligare questo stesso Stato membro ad applicare altresì, a quei dividendi, il medesimo trattamento fiscale riservato ai dividendi «nazionali». Un tale obbligo significherebbe una vera e propria rinunzia ad un gettito fiscale; e tale rinunzia sarebbe puramente unilaterale, ovvero non giustificata da impegni reciproci di un altro Stato. Anticipo subito, quindi, che la normativa interna esce a mio avviso esente da censura perché complessivamente caratterizzata da una coerenza che non si limita al piano puramente interno. Il punto è importante e merita due ulteriori precisazioni.

53 Innanzitutto, con le osservazioni che precedono non intendo riferirmi ad una coerenza che compenserebbe lo svantaggio derivante dalla misura nazionale (e cioè il non applicare al contribuente quella certa esenzione fiscale) con un vantaggio di altro genere in uno Stato membro diverso da quello interessato: secondo la vostra giurisprudenza una coerenza così intesa non sarebbe un valido titolo giustificativo dell'imposizione fiscale (114). Altro è il caso in esame. L'investimento transfrontaliero e quello nazionale formano oggetto di diverse previsioni normative del legislatore nazionale, alcune di derivazione convenzionale, altre autonomamente dettate dall'ordinamento interno. La specie si caratterizza per il nesso di coerenza che vi è fra i vantaggi e gli svantaggi fiscali previsti dall'ordinamento giuridico, complessivamente considerato, di un medesimo Stato membro: i Paesi Bassi non riconoscono ai dividendi provenienti dal Belgio l'esenzione di cui all'art. 47b perché per tali dividendi sempre i Paesi Bassi prevedono il beneficio del credito d'imposta, in ossequio al disposto dell'art. 24, n. 1, della convenzione.

54 Osservo, poi, che il riconoscimento da parte dei Paesi Bassi di un credito d'imposta corrispondente alla ritenuta alla fonte scontata in Belgio non viene a incidere negativamente sulla coerenza del regime fiscale considerato. Infatti, in questa prospettiva, la coerenza fiscale non è più affermata a livello del medesimo sistema impositivo, né sulla base di una rigorosa correlazione tra l'esentabilità dall'imposta sul reddito e l'imponibilità dei dividendi con la relativa imposta, bensì tramite un bilanciamento macroeconomico di ordine diverso, internazionale per l'appunto, frutto del regolamento bilaterale degli interessi degli Stati contraenti così come regolato in sede convenzionale: «la coerenza fiscale ... si sposta su un altro livello, vale a dire quello della reciprocità delle norme applicabili negli Stati contraenti» (115). Se è vero che l'obbligo di applicare il credito d'imposta per la ritenuta alla fonte operata dall'altro Stato contraente limita il gettito fiscale dei Paesi Bassi (art. 24, n. 1, della convenzione), è altrettanto vero che questo Stato ha diritto di applicare una ritenuta alla fonte sui dividendi distribuiti da una società olandese ad un azionista residente in Belgio (art. 10, n. 2, della convenzione).

55 Ciò posto, siamo meglio in grado di vedere - tenendo in conto tutte le pertinenti disposizioni dell'ordinamento considerato, anche quelle derivanti dalla suddetta convenzione bilaterale - come possa essere qualificata la disposizione controversa nel giudizio principale. Sopra osservavo che l'art. 47b costituisce un ostacolo ai movimenti di capitali in difformità dall'art. 1, n. 1, della direttiva. Tuttavia, quella conclusione si basa esclusivamente sulle norme di diritto interno evocate dallo Hoge Raad nel provvedimento di rinvio pregiudiziale alla Corte e discusse dalle parti nel presente procedimento. Se però si prende in considerazione la disciplina convenzionale che sembra interessare specificamente il caso in cui versa il signor Verkooijen, la norma nazionale che riserva l'esenzione di cui all'art. 47b ai soli dividendi distribuiti da società olandesi non è più, agli occhi del diritto comunitario, una misura avente l'effetto di dissuadere il contribuente olandese dal collocare i propri capitali in Belgio. Per chi investe in azioni o quote di società stabilite in quel paese, infatti, l'ordinamento fiscale dei Paesi Bassi, considerato nel suo complesso, prevede una soluzione ancora più efficace rispetto a quella introdotta (10 anni dopo la stipula della convenzione) per il caso «interno»; né il diritto comunitario vieta di trattare le situazioni puramente interne in modo meno favorevole (116). Dunque, il contribuente olandese, che desideri investire il proprio capitale in azioni o quote di società al fine di godere dei relativi dividendi, ha la possibilità di scegliere tra un investimento in azioni di società stabilite in Belgio (per il quale la convenzione gli assicura la cosiddetta neutralità fiscale, evitando in toto la doppia imposizione) ed un investimento in azioni di società stabilite nei Paesi Bassi (per il quale è prevista una semplice attenuazione, di ordine limitato, degli effetti della doppia imposizione). In sostanza, dunque, il regime fiscale dei Paesi Bassi si caratterizza per una sorta di neutralità fiscale per quanto concerne gli investimenti in azioni di società belghe e olandesi. L'illustrazione del quadro normativo considerato nel suo complesso consente altresì, a mio parere, di escludere la sussistenza del profilo di discriminatorietà evocato sopra al paragrafo 18. Infatti, l'esclusione dal beneficio previsto dall'art. 47b per i dividendi distribuiti da società stabilite in un altro Stato membro si spiega con il fatto che per essi, in seno alla convenzione, esiste un'apposita disciplina: le due categorie di dividendi («nazionali» e «transfrontalieri») non si trovano dunque in una situazione analoga; tanto che i due benefici, attinenti a situazioni distinte, non sono cumulabili (117).

3) Il libero stabilimento

56 Ai paragrafi 36-45 ho illustrato i motivi per cui, a mio parere, la disposizione contestata debba, alla luce delle sole disposizioni interne, considerarsi compatibile con l'art. 52. Al pari dei movimenti di capitali, però, una prospettiva di analisi che comprenda le pattuizioni convenzionali sopra descritte mi induce a mutare le conclusioni già rassegnate in punto di libero stabilimento. Come ho detto, la «coerenza» che caratterizza il regime fiscale olandese inteso nel suo complesso consente di ritenerlo «neutro» per quanto concerne la tassazione dei dividendi in capo alle persone fisiche che ne sono beneficiarie. Detta coerenza, o neutralità, consente dunque, anche in relazione all'esercizio del diritto di stabilimento, di escludere profili di discriminatorietà oltre che la sussistenza di ostacoli. Del resto, come si è visto, i dividendi «transfrontalieri» godono di un trattamento addirittura più favorevole rispetto a quelli «nazionali», con il risultato di incoraggiare non solo i movimenti di capitali tra Stati membri, ma altresì l'esercizio, quantomeno in taluni casi [v. paragrafo 41, sub b) e c)], del diritto di stabilimento.

D) Il terzo quesito pregiudiziale

57 Con il terzo ed ultimo quesito pregiudiziale, lo Hoge Raad chiede se la risposta fornita ai primi due quesiti possa variare in funzione del fatto che l'investitore sia un dipendente di una società controllata dalla società emittente ed abbia acquistato le azioni che hanno maturato i dividendi nel quadro in un piano di risparmio per il personale.

58 In linea generale, coloro che sono intervenuti nel presente procedimento concordano nel dare al quesito una risposta negativa, anche in considerazione del fatto che l'art. 47b non detta norme differenziate in funzione del tipo di contribuente titolare delle azioni. In tale disposto non si distingue, per vero, fra il caso del terzo investitore e quello del dipendente che possiede le azioni nel contesto di un piano di risparmio per il personale. Con riferimento alla prima questione pregiudiziale, sulla quale mi sono espresso, condivido la posizione delle parti: il Trattato e la direttiva garantiscono la più ampia libertà possibile per quanto riguarda i movimenti di capitali (118), senza ulteriori qualificazioni o distinzioni fondate sulla natura o sulle caratteristiche del soggetto che decide di effettuare un tale movimento. La libertà in questione deve pertanto intendersi come garantita a tutte le persone, allo stesso modo.

59 Il signor Verkooijen aggiunge, tuttavia, un ulteriore ordine di riflessioni che si riferiscono più da vicino all'oggetto del secondo quesito pregiudiziale. In sostanza, egli è del parere che il limite posto dall'art. 47b ai casi in cui si applica l'esenzione si rifletta negativamente sulla mobilità professionale del lavoratore, proprio per aver escluso dal previsto esonero fiscale i dividendi di azioni distribuite dalla società straniera sua datrice di lavoro. Ciò avrebbe per risultato quello di rendere più difficile per una società straniera la possibilità di attirare propri dipendenti nei Paesi Bassi. La società straniera si vedrebbe infatti costretta a predisporre un piano di partecipazione dei lavoratori o un piano aziendale di risparmio simile a quello che è in grado di offrire soltanto una società stabilita nei Paesi Bassi, il che contribuirebbe ad accrescere i costi che la società straniera deve affrontare per stabilirsi in quest'ultimo paese. Non intendo per parte mia trascurare la giurisprudenza della Corte che considera incompatibile con l'art. 52 ogni ostacolo, anche minore, al libero stabilimento (119). Mi sembra però che il legame esistente tra la disposizione contestata e l'esercizio del libero stabilimento nei Paesi Bassi di società con piani aziendali di risparmio quale quello di Petrofina sia troppo tenue ed indiretto per acquistare autonomo rilievo ai sensi dell'art. 52. Qualora risultasse tuttavia che quel legame è sufficiente a configurare un ostacolo contrario alla disposizione in esame, quest'ultimo non sarebbe comunque tale da mutare le mie conclusioni raggiunte in merito al secondo quesito pregiudiziale, con particolare riferimento alla sussistenza di una valida causa di giustificazione. Un eventuale ostacolo, poi, sarebbe in ogni caso destinato a venir meno nell'ipotesi in cui il quadro normativo complessivo cui si fa riferimento comprenda altresì disposizioni convenzionali quali gli artt. 10 e 24 della convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra il Belgio ed i Paesi Bassi.

VI - Conclusioni

60 Di conseguenza, le questioni sollevate dallo Hoge Raad dovrebbero, a mio parere, essere risolte come segue:

«1) L'art. 1, n. 1, della direttiva del Consiglio 88/361/CEE, del 24 giugno 1988, per l'attuazione dell'articolo 67 del trattato [CE], e l'art. 52 del trattato CE (divenuto, a seguito di modifica, art. 43 [CE]) vanno interpretati nel senso che ostano alla legislazione di uno Stato membro che subordina l'esenzione dall'imposta sul reddito dei dividendi di azioni o quote di capitale di società alla condizione che la società che ha distribuito i dividendi sia stabilita in quel medesimo Stato membro, salvo che la legislazione in questione sia necessaria a garantire la coerenza del regime fiscale. Spetta comunque al giudice nazionale verificare se tale legislazione vada oltre quanto necessario per il mantenimento della coerenza del regime fiscale.

Tuttavia, qualora lo Stato membro interessato abbia stipulato una convenzione fiscale contro le doppie imposizioni contenente pattuizioni quali quelle di cui agli artt. 10 e 24 della convenzione stipulata il 19 ottobre 1970 tra il Belgio ed i Paesi Bassi, l'art. 1, n. 1, della direttiva del Consiglio 88/361/CEE, del 24 giugno 1988, per l'attuazione dell'articolo 67 del trattato [CE], e l'art. 52 del trattato CE (divenuto, a seguito di modifica, art. 43 [CE]) vanno interpretati, limitatamente ai movimenti di capitali ed all'esercizio della libertà di stabilimento tra gli Stati membri contraenti, nel senso che non ostano ad una legislazione nazionale quale quella qui considerata.

2) La risposta fornita sub 1) non muta qualora il beneficiario dei dividendi sia un dipendente di una società controllata da quella emittente, il quale abbia acquistato le azioni o quote di capitale di cui trattasi nel contesto di un piano di risparmio del personale effettuato dalla società controllante».

(1) - Direttiva del Consiglio 88/361/CEE, del 24 giugno 1988, per l'attuazione dell'articolo 67 del trattato [CE] (GU L 178, pag. 5; in prosieguo: la «direttiva»). Per effetto dell'entrata in vigore il 1_ maggio 1999 del trattato di Amsterdam, l'art. 67 è stato abrogato, e l'intero Capo 4 del Titolo III della Parte Terza del trattato CE in materia di movimenti di capitali, che era stato novellato integralmente con gli artt. 73 A a 73 H introdotti con il Trattato UE ed entrati in vigore il 1_ gennaio 1994 ai sensi dell'art. 73 A, ha conosciuto una rinumerazione dei propri articoli (ora artt. 56 CE - 70 CE, tenuto conto che gli artt. 73 A, 73 E e 73 H sono stati abrogati).

(2) - Posto che la direttiva è stata adottata «per l'attuazione dell'articolo 67 del trattato», ricordo che ai sensi del n. 1 di tale disposizione (abrogata dal trattato di Amsterdam, v. nota 1): «Gli Stati membri sopprimono gradatamente fra loro, durante il periodo transitorio e nella misura necessaria al buon funzionamento del mercato comune, le restrizioni ai movimenti dei capitali appartenenti a persone residenti negli Stati membri e parimenti le discriminazioni di trattamento fondate sulla nazionalità o sulla residenza delle parti, o sul luogo del collocamento dei capitali».

(3) - In prosieguo: l'«art. 47b» o la «disposizione contestata»; esso è stato introdotto con la Wet van 24 juni 1981 tot invoering van een vooraad-aftrek en vermogensaftrek in de inkomstenbelasting en de vennootschapsbelasting alsmede invoering van een beperkte rentevrijstelling en een beperkte dividendvrijstelling in de inkomstebelasting (legge del 24 giugno 1981 sull'introduzione di una deduzione relativa alle azioni e di una deduzione relativa al capitale dall'imposta sul reddito e dall'imposta sulle società, oltre che di un'esenzione parziale degli interessi ed un'esenzione parziale dei dividendi dall'imposta sul reddito; Staatsblad 387).

(4) - Nella versione in vigore prima del 1997, ovvero all'epoca dei fatti oggetto della causa principale.

(5) - Il corsivo è mio.

(6) - Staatsblad 621.

(7) - Documenti parlamentari II, 1980-1981, 16539, pag. 10, primo paragrafo. Dai lavori parlamentari emerge, in particolare, che la seconda camera degli Stati generali (Tweede Kamer) tenne conto del fatto che «l'esenzione sui dividendi aumenta l'interesse degli investimenti in azioni olandesi. Soprattutto per effetto di questa disposizione, le possibilità di emissione [di azioni] delle imprese olandesi saranno maggiori. Grazie all'esenzione sui dividendi, questa disposizione scoraggerà inoltre gli investitori dal distogliersi dalle azioni o dal non investire in azioni».

(8) - A questo proposito, il segretario di Stato alle finanze dei Paesi Bassi ebbe modo di precisare che «l'esenzione sui dividendi, soprattutto a beneficio dei piccoli investitori, opera di fatto come una misura che compensa la doppia imposizione» (documenti parlamentari I, 1981, 16539, n. 3, pag. 5, ultima frase).

La soluzione olandese al problema degli effetti economici della duplice imposizione, consistente in una parziale esenzione dall'imposta sul reddito, è solo uno dei metodi concretamente utilizzati nei vari sistemi fiscali in relazione alla medesima tematica. Di tali metodi possono individuarsi due categorie generali, a seconda dell'imposta (ovvero del «livello» d'imposta) sul quale interviene l'«attenuazione»: l'imposta sulle società o la ritenuta alla fonte che incide sui dividendi e l'imposta sul reddito che interessa gli azionisti beneficiari dei dividendi stessi. Nel Regno Unito, per esempio, il contribuente britannico gode - a determinate condizioni - di un credito d'imposta in relazione ai dividendi che riceve da una società stabilita nel medesimo Stato membro (v. i rinvii pregiudiziali, causa C-397/98, Metallgesellschaft e a., pendente, GU C 1 del 4 gennaio 1999, pag. 7, e causa C-410/98, Hoechst e a., pendente, GU C 1 del 4 gennaio 1999, pag. 11). Per una sintetica rassegna delle soluzioni adottate per mitigare gli effetti della doppia imposizione ed un esame delle problematiche ad esse inerenti, v. S.-O. Lodin, The imputation systems and cross-border dividends - the need for new solutions, in EC Tax Review, 1998, pag. 229, e K. Ståhl, Dividend taxation in a free capital market, in EC Tax Review, 1997, pag. 227.

(9) - Pari a circa 1 060 euro.

(10) - Per le persone coniugate, come è il signor Verkooijen, l'esenzione in questione si applica ad un importo del reddito imponibile pari a NGL 2 000 (circa 910 euro). In origine, l'esenzione sui dividendi si applicava ad un importo pari a NGL 500 (circa 227 euro); con legge del 6 settembre 1985 (Staatsblad 504), quell'importo fu elevato a NGL 1 000 (circa 454 euro), ovvero NGL 2 000 per le persone coniugate cumulativamente considerate.

(11) - Il segretario di Stato alle finanze (in prosieguo: il «segretario di Stato»).

(12) - Sentenza 29 aprile 1999, causa C-311/97, Royal Bank of Scotland (non ancora pubblicata in Raccolta, punto 19); nello stesso senso, v. sentenza 4 ottobre 1991, causa C-246/89, Commissione/Regno Unito (Racc. pag. I-4585, punto 12); 14 febbraio 1995, causa C-279/93, Schumacker (Racc. pag. I-225, punto 21); 11 agosto 1995, causa C-80/94, Wielockx (Racc. pag. I-2493, punto 16); 27 giugno 1996, causa C-107/94, Asscher (Racc. pag. I-3089, punto 36); 15 maggio 1997, causa C-250/95, Futura Participations e Singer (Racc. pag. I-2471, punto 19); 28 aprile 1998, causa C-118/96, Safir (Racc. pag. I-1897, punto 21); v. anche sentenze 16 luglio 1998, causa C-264/96, Imperial Chemical Industries (in prosieguo: «ICI»; Racc. pag. I-4695, punto 19).

(13) - GU C 253, pag. 2 (in prosieguo: la «proposta»).

(14) - V. Comunicazione della Commissione al Parlamento ed al Consiglio, documento SEC(90) 601 def. del 20 aprile-18 maggio 1990 (in prosieguo: la «comunicazione»).

(15) - Ovvero una concezione centralizzata dell'armonizzazione fiscale e dell'unione economica e monetaria, piuttosto che un approccio che privilegi il coordinamento ed il ravvicinamento delle politiche nazionali, tenendo altresì conto del principio di sussidiarietà (v. la comunicazione, pag. 10).

(16) - La proposta del 1975, che non era più stata discussa dal Consiglio e dal Parlamento europeo, non rispondeva più alle esigenze della Comunità degli anni '90 (ibidem).

(17) - Quelle proposte sono ora le direttive del Consiglio 90/434/CEE, del 23 luglio 1990, relativa al regime fiscale comune da applicare alle fusioni, alle scissioni, ai conferimenti d'attivo ed agli scambi d'azioni concernenti società di Stati membri diversi (GU L 225, pag. 1), e 90/435/CEE, di pari data, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi (GU L 225, pag. 6); v. la comunicazione, pag. 13.

(18) - V., in questo senso, D. Servais, Uno spazio finanziario europeo, Ufficio delle pubblicazioni delle Comunità europee, Lussemburgo, 1995, 3a ed., pag. 57, punto 3.1.3; v. anche Olodin, cit., e Ståhl, cit.

(19) - V. sentenza 9 luglio 1970, causa 26/69, Commissione/Francia (Racc. pag. 565), in cui la Corte ha ritenuto insussistente l'infrazione ipotizzata dalla Commissione in un ricorso proposto ai sensi dell'art. 169 del trattato CE (divenuto art. 226 CE) in considerazione della scusabilità dell'errore dello Stato membro interessato, ovvero del «carattere equivoco» della situazione giuridica (punto 32).

(20) - Sentenza 28 gennaio 1992, causa C-204/90, Bachmann (Racc. pag. I-249).

(21) - Punto 34 della sentenza (il corsivo è mio).

(22) - V. sentenza 23 febbraio 1995, cause riunite C-358/93 e C-416/93, Bordessa e a. (Racc. pag. I-361, punti 13 e 14). V. anche sentenza 31 gennaio 1984, cause riunite 286/82 e 26/83, Luisi e Carbone (Racc. pag. 377), ove la Corte, interpretando l'art. 67, ha statuito che «i movimenti di capitali sono operazioni finanziarie che riguardano essenzialmente la collocazione o l'investimento dell'importo di cui trattasi e non il corrispettivo di una prestazione» (punto 21). Sulla nozione della sussidiarietà dell'art. 67 come applicata nella giurisprudenza della Corte si vedano le conclusioni dell'avvocato generale Tesauro in Safir (paragrafi 9-18).

(23) - Operazione che costituisce il presupposto della percezione dei dividendi dedotti in giudizio da parte del signor Verkooijen (sul punto v. infra, paragrafo 13).

(24) - Sentenza 3 febbraio 1993, causa C-148/91 (Racc. pag. I-487).

(25) - V. sentenza 14 febbraio 1980, causa 53/79, ONPTS/Damiani (Racc. pag. 273, punto 5), ove la Corte ha deciso che «non spetta a questa Corte pronunziarsi sulla pertinenza della domanda di pronunzia pregiudiziale. Nell'ambito della ripartizione delle funzioni giurisdizionali tra i giudici nazionali e la Corte, disposta dall'art. 177 del trattato CE, tocca infatti al giudice nazionale, che è l'unico ad avere conoscenza diretta dei fatti di causa nonché degli argomenti dedotti dalle parti e che dovrà assumere la responsabilità della decisione giudiziaria da emettere, valutare, con piena cognizione di causa, la pertinenza delle questioni di diritto sollevate dalla controversia sottopostagli e la necessità di una pronunzia pregiudiziale ai fini della sentenza definitiva». V. anche, ex multis, sentenze 13 marzo 1979, causa 86/78, Peureux (Racc. pag. 897, punto 6); 27 ottobre 1993, causa C-127/92, Enderby (Racc. pag. I-5535, punto 10); 5 ottobre 1995, causa C-125/94, Aprile (Racc. pag. I-2919, punto 16); 12 dicembre 1996, cause riunite C-320/94, C-328/94, C-329/94, C-337/94, C-338/94 e C-339/94, RTI e a. (Racc. pag. I-6471, punti 20-21).

(26) - Omissione da cui non mi sembra si possano trarre le conclusioni volute dai governi intervenuti. La nomenclatura, infatti, ha natura meramente esemplificativa e non esaustiva: v. sentenza 16 marzo 1999, causa C-222/97, Trummer (non ancora pubblicata in Raccolta, punto 21) e quanto si legge nell'introduzione della nomenclatura medesima («la presente nomenclatura non è limitativa della nozione di movimenti di capitali»).

(27) - La nomenclatura prevede le ipotesi della «partecipazione a imprese nuove o esistenti al fine di stabilire o mantenere legami economici durevoli» (punto I.2, indicato nel primo quesito pregiudiziale) e dell'«acquisto da parte di residenti di titoli esteri trattati in borsa» (punto III.A.2; Petrofina è società quotata alle borse di Bruxelles e di Anversa). Si veda inoltre la fattispecie esaminata in Veronica, richiamata sopra al paragrafo 11 delle presenti conclusioni.

(28) - V. Trummer, punto 24 della sentenza.

(29) - V. Trummer, paragrafo 9 delle mie conclusioni. Mentre il caso Trummer aveva ad oggetto una norma nazionale riguardante il presupposto (la costituzione di un'ipoteca) di un movimento di capitali (la liquidazione di un investimento immobiliare), nella specie l'art. 47b interessa il frutto di un tale movimento. Comunque sia, in entrambi i casi la misura nazionale in questione concerne un'operazione (la costituzione dell'ipoteca) o un pagamento (i dividendi) indissolubilmente legati ad un movimento di capitali.

(30) - Già in Brugnoni e Ruffinengo (sentenza 24 giugno 1986, causa 157/85, Racc. pag. 2013), la Corte ha ritenuto che, pur non imponendo autorizzazioni di cambio e non impedendo l'acquisto di titoli esteri, ostacoli amministrativi quali il deposito obbligatorio di titoli esteri presso una banca rappresentassero comunque un intralcio alla «libertà la più ampia possibile» dei movimenti di capitali (v. punto 22).

In Svensson (sentenza 14 novembre 1995, causa C-484/93, Svensson e Gustavsson, Racc. pag. I-3955), la Corte ha ritenuto incompatibile con l'art. 67 una legislazione nazionale che prescrive che, affinché i beneficiari di un prestito residenti nello Stato membro interessato possano ottenere l'abbuono degli interessi concessi dallo Stato mediante fondi pubblici, la banca mutuante sia stabilita nel medesimo Stato membro (v. punto 10 della sentenza), sottolineando così che affinché una norma nazionale rientri nel campo di applicazione dell'art. 67 non è necessario che essa abbia direttamente ad oggetto un movimento di capitali in sé e per sé considerato (nel nostro caso un investimento in titoli azionari, in Svensson un mutuo bancario), ma è sufficiente che la misura nazionale interessi un elemento che abbia una stretta relazione con un tale movimento (nel nostro caso i dividendi, in Svensson la banca o, meglio, la «nazionalità» della banca che eroga il mutuo).

(31) - Nel testo ho illustrato i motivi, tratti dalla giurisprudenza della Corte, in base ai quali, a mio avviso, la disposizione contestata produce un effetto sufficientemente diretto sui movimenti dei capitali. Si noti che - mettendo a frutto le analogie tra le libertà fondamentali che traccio al paragrafo 17, certo non le uniche che è possibile delineare (v., per esempio, nota 84, in fine) - un'applicazione ai movimenti di capitali dei principi enunziati in Dassonville (sentenza 11 luglio 1974, causa 8/74, Racc. pag. 837, punto 5) per la libera circolazione delle merci conduce a ritenere che financo un ostacolo indiretto ai movimenti di capitali in sé e per sé considerati (cfr., a contrario, Bachmann, punto 34, e, supra, paragrafo 11 delle conclusioni) risulti incompatibile con l'art. 1, n. 1, della direttiva (ed, oggi, dell'art. 56 CE). Del resto, la Corte ha statuito che l'art. 30 del trattato CE (divenuto, a seguito di modifica, art. 28 CE) osta ad una misura nazionale che riconosce un beneficio fiscale soltanto agli editori che stampano i propri libri nello Stato membro interessato (sentenza 7 maggio 1985, causa 18/84, Commissione/Francia, Racc. pag. 1339). Si vedano altresì le conclusioni dell'avvocato generale Cosmas del 21 gennaio 1999 (sentenza 22 giugno 1999, causa C-412/97, ED/Fenocchio, non ancora pubblicata in Raccolta), ove, in linea di principio, si ammette il caso di restrizioni «indirette» alla libera circolazione delle merci e dei capitali (paragrafi 23 e 24).

(32) - «Il legame tra la libera circolazione dei capitali e la fiscalità è chiaro. I capitali si spostano e si rispostano in funzione di due considerazioni: il tasso di remunerazione ed il tasso d'imposizione», P. Juillard, Lecture critique des articles 73 B, 73 C et 73 D du Traité de la Communauté européenne, in A. Weber (Hrsg.), Währung und Wirtschaft, Festschrift für Prof. Dr. Hugo J. Hahn zum 70. Geburtstag, Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-Baden, 1997, pag. 177, in particolare pag. 184 (la traduzione è mia). Si vedano inoltre le conclusioni del Rapporto del Comitato degli esperti indipendenti sulla tassazione delle società, diffuso dalla Commissione il 18 marzo 1992, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, Lussemburgo, 1992 (in prosieguo: il «Rapporto Ruding»), e pubblicate altresì in European Taxation, 1992, pag. 105.

(33) - V. la comunicazione, pag. 10.

(34) - Secondo Servais, cit., «regimi fiscali volti a sviluppare alcune forme di investimento, [inducendo] all'acquisto di titoli nazionali (...) risultano discriminatori nei confronti dei titoli esteri» (v. pag. 57).

Già in precedenza la Corte ebbe a conoscere di una restrizione avente degli effetti restrittivi a due livelli: v. sentenza 1º dicembre 1998, causa C-410/96, Ambry (non ancora pubblicata in Raccolta, punti 28 e 29), avente ad oggetto una misura nazionale che impone, all'atto della costituzione di garanzie finanziarie presso un istituto di credito o un'impresa di assicurazioni con sede in un altro Stato membro, che il garante concluda un accordo supplementare con un istituto di credito o un'impresa di assicurazioni con sede nel territorio nazionale. In tale ipotesi, osservò la Corte, vi è un effetto restrittivo o dissuasivo a) per gli istituti finanziari stabiliti in altri Stati membri in quanto impedisce loro di offrire le garanzie richieste direttamente dal cittadino residente nello Stato membro interessato, allo stesso titolo di un garante con sede nel territorio nazionale, e b) per i cittadini residenti nello Stato membro interessato, perché li scoraggia dal rivolgersi ad un istituto finanziario con sede in un altro Stato membro, tenuto conto che l'obbligo di quest'ultimo di concludere un accordo di garanzia con un istituto di credito o un'impresa di assicurazioni con sede nello Stato membro interessato può comportare costi supplementari che vengono normalmente ripercossi sul prezzo di costituzione della garanzia posto a carico del consumatore.

(35) - Bordessa, punto 17. Da un punto di vista temporale, sottolineo che i fatti di causa, aventi ad oggetto una dichiarazione delle imposte per l'anno fiscale 1991, sono successivi alla data della completa liberalizzazione, ovvero il 1_ luglio 1990, come previsto dall'art. 6, n. 1, della direttiva.

(36) - V., per esempio, sentenze Trummer, punto 26; Ambry, punti 28 e 29; Safir, punto 30; 31 marzo 1993, causa C-19/92, Kraus (Racc. pag. I-1663, punto 32); 30 novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard (Racc. pag. I-4165, punto 37); Svensson, punto 10; Bachmann, punto 31.

(37) - Il governo britannico si è soffermato sui seguenti aspetti: i) a volte un investimento in azioni straniere difetta addirittura di ogni movimento di capitali nell'ipotesi in cui le azioni siano compravendute tra due residenti olandesi; ii) pare difficile che una decisione di investire in titoli esteri sia effettivamente influenzata dall'impossibilità di beneficiare dell'esenzione de qua, stante il suo modesto importo, in considerazione del fatto che spesso un investitore sarà già in possesso di titoli che gli fruttano almeno NGL 2 000 ed in quanto un investitore, in genere, presta più attenzione a quelle che sono le prospettive di redditività della società di cui si intendono acquistare le azioni; e iii) l'esenzione medesima si applica solo alle persone fisiche, e non alle persone giuridiche, per le quali quindi resterebbe del tutto indifferente il luogo di collocamento dei capitali.

(38) - V. la dichiarazione del segretario di Stato alle finanze riportata sopra alla nota 8.

(39) - Brugnoni e Ruffinengo, punto 22.

(40) - Il parallelo sembra quanto mai calzante - né riesco ad immaginare un buon motivo per valutare restrizioni ad una libertà fondamentale in modo diverso dalle restrizioni ad un'altra (cfr. Gebhard, punto 37) - in considerazione del fatto che sia l'art. 30 (v. sentenza Dassonville, cit., punto 5), sia l'art. 1, n. 1, della direttiva (ed ora l'art. 56 CE) prevedono il divieto di ogni restrizione, e non soltanto l'eliminazione delle misure nazionali aventi carattere discriminatorio.

(41) - Sentenza 5 giugno 1986, causa 103/84, Commissione/Italia (Racc. pag. 1759, punto 18).

(42) - Sentenza 5 aprile 1984, cause riunite 177/82 e 178/82, Van de Haar (Racc. pag. 1797, punto 13).

(43) - V., per esempio, Kraus, punto 32; cfr. altresì, in materia di libero stabilimento, sentenza 28 gennaio 1986, causa 270/83, Commissione/Francia, meglio nota come «Avoir fiscal» (Racc. pag. 273, punto 21), ove si afferma che l'art. 52 del trattato CE vieta ogni discriminazione, «sia pure di lieve entità», a prescindere dall'entità degli svantaggi che ne derivino.

(44) - «L'art. 59 del Trattato [CE (divenuto, a seguito di modifica, art. 49 CE)] prescriv[e] non solo l'eliminazione di qualsiasi discriminazione nei confronti del prestatore di servizi a causa della sua nazionalità, ma anche la soppressione di qualsiasi restrizione (...)», sentenza 25 luglio 1991, causa C-76/90, Säger (Racc. pag. I-4221, punto 12); nello stesso senso v. sentenza 24 marzo 1994, causa C-275/92, Schindler (Racc. pag. I-1039, punto 43).

(45) - Sentenza 13 dicembre 1989, causa C-49/89, Corsica Ferries France (Racc. pag. 4441, punto 8; il corsivo è mio).

(46) - V. Avoir fiscal, punto 21.

(47) - Tra coloro che si sono espressi nel senso di considerare di per sé illegittima una «distinzione» di trattamento fondata esclusivamente sul luogo di collocamento dei capitali, v. A.P. Dourado, Free movement of capital and capital income taxation within the European Union, in EC Tax Review, 1994, pag. 176, in particolare pagg. 184 e 185; J.-H. Hauptmann, Commento all'art. 73 B, in Traité sur l'Union européenne - Commentaire article par article, sotto la direzione di V. Constantinesco, R. Kovar, D. Simon, Economica, Parigi, 1995, pag. 176, punto 6; P. Juillard, Commento all'art. 67, in Traité instituant la CEE - Commentaire article par article, sotto la direzione di V. Constantinesco, J.-P. Jacqué, R. Kovar e D. Simon, Economica, Parigi, 1992, pag. 353, punto 5.b; S. Mohamed, Community Rules on the Free Movement of Capital, Università di Stoccolma, 1997, pagg. 36-38; Ståhl, cit., pag. 232; W. Vermeend, Tax policy in Europe, in EC Tax Review, 1998, pag. 151, in particolare pag. 152. Nel Rapporto Ruding, cit., inoltre, si evidenzia che discriminazioni fondate esclusivamente sul luogo di collocamento del capitale tendono a frammentare i mercati dei capitali all'interno della Comunità (cfr. capitoli 4 e 10, sezione III).

(48) - V. sopra nota 30.

(49) - V., da ultimo, Royal Bank of Scotland, punto 32; v., inoltre, sentenze Svensson (punto 15); Schindler (sulla sesta questione pregiudiziale); 25 luglio 1991, causa C-288/89, Gouda (Racc. pag. I-4007, punto 11); causa C-353/89, Commissione/Paesi Bassi, «Mediawet» (Racc. pag. I-4069, punto 15); 26 aprile 1988, causa 352/85, Bond van Adverteerders (Racc. pag. 2085, punti 32 e 33). Ma v. Bachmann, in cui la Corte ha ritenuto che una misura nazionale discriminatoria era giustificata sulla base di una ragione imperativa di interesse generale non prevista dal Trattato.

(50) - Tali principi, inizialmente elaborati in materia di libera circolazione delle merci, vengono ora estesi dalla Corte a tutte le libertà di circolazione (v., per esempio, Gebhard, punto 37).

(51) - Tra queste figura quella che prevede il caso di misure di salvaguardia che, previa autorizzazione della Commissione, uno Stato membro può adottare in caso di movimenti di capitali a breve termine di portata eccezionale che esercitino forti tensioni sui mercati dei cambi e provochino gravi perturbazioni nella conduzione della politica monetaria e valutaria dello Stato membro interessato (v. art. 3, n. 1), oltre all'ipotesi di misure indispensabili che gli Stati membri possono adottare per impedire le infrazioni alle leggi e ai regolamenti interni, specialmente in materia fiscale o ai fini della sorveglianza cautelare degli istituti finanziari (v. art. 4, n. 1).

(52) - V., per esempio, sentenze 23 febbraio 1988, causa 216/84, Commissione/Francia (Racc. pag. 793, punto 12); 5 giugno 1997, causa C-398/95, SETTG (Racc. pag. I-3091, punto 23); Gouda, punto 14.

(53) - V. paragrafo 28 delle conclusioni.

(54) - Si vedano tutte le normative in cui si incoraggia la popolazione ad acquistare prodotti fabbricati nello Stato membro interessato; v., per esempio, sentenza 22 giugno 1993, causa C-243/89, Commissione/Danimarca (Racc. pag. I-3353, punto 23), in cui si è giudicata contraria agli artt. 30, 48 e 59 del trattato CE l'applicazione di una «clausola compra danese» nel contesto dell'aggiudicazione di un appalto di lavori.

Si pensi poi a quelle disposizioni fiscali che, favorendo i prodotti nazionali a scapito di quelli importati, sono state considerate incompatibili con l'art. 95 del trattato CE (divenuto, a seguito di modifica art. 90 CE) in quanto dotate di effetti protezionistici (v., per esempio, sentenze 9 maggio 1985, causa 11/84, Humblot, Racc. pag. 1367; 5 aprile 1990, causa C-132/88, Commissione/Grecia, Racc. pag. I-1567; 30 novembre 1995, causa C-113/94, Casarin, Racc. pag. I-4203).

(55) - V. Bachmann e sentenza 28 gennaio 1992, causa C-300/90, Commissione/Belgio (Racc. pag. I-305).

(56) - Citata in nota 30.

(57) - Citata in nota 12.

(58) - Per dichiarazione espressa della Corte: per quanto riguarda Svensson, v. il punto 12 della sentenza per l'aspetto «servizi», e per quanto concerne ICI, v. punto 24 della sentenza. Rilevo che in Svensson, in relazione all'aspetto «capitali», la Corte non si esprime direttamente sull'argomento se la misura in questione sia distintamente applicabile o meno; ma, a questo proposito, rinvio al paragrafo 18 delle presenti conclusioni.

(59) - Per la fattispecie oggetto della sentenza Svensson, rinvio alla nota 30 ed al paragrafo 25 delle presenti conclusioni. In ICI, il criterio della sede delle società controllate era utilizzato dal legislatore britannico per riservare un trattamento fiscale differenziato alle società facenti parte di un consorzio stabilite nello Stato membro interessato; in particolare, quella misura riservava la concessione del vantaggio fiscale consistente nello sgravio di gruppo alle sole società che controllassero esclusivamente o principalmente consociate aventi sede nel territorio nazionale (v. punto 23 della sentenza).

(60) - Le uniche deroghe previste per il libero stabilimento (ICI) appaiono all'art. 56, n. 1, del trattato CE, mentre quelle relative alla libera circolazione dei servizi (Svensson) si limitano alle fattispecie di cui all'art. 66 del trattato CE, il quale rinvia all'art. 56.

(61) - V. Svensson, punto 15, ed ICI, punto 28.

(62) - V. Svensson, punto 18, ed ICI, punto 29. Rilevo, inoltre, che in ICI la Corte, mentre da un canto ha ribadito il principio generale dell'inammissibilità di ragioni imperative di interesse generale quale titolo di giustificazione di misure nazionali distintamente applicabili, dall'altro, nell'esaminare nel merito la fondatezza dell'esigenza di garantire la coerenza del regime fiscale, ha, invece, fatto coerente applicazione di detto principio, respingendo come inammissibile un'altra ragione - pure sollevata dallo Stato membro interessato - consistente nella necessità di evitare la riduzione di entrate fiscali (v. punto 28 della sentenza).

(63) - Nello stesso senso v. anche Asscher (libero stabilimento) e Schumacker (libera circolazione dei lavoratori), ove la Corte, sempre richiamando Bachmann, si è soffermata ad esaminare la fondatezza della giustificazione attinente all'esigenza di garantire la coerenza del regime fiscale (rispettivamente, punti 58-60 e 39-42), dopo aver giudicato che la misura nazionale in questione era discriminatoria (rispettivamente, punti 48-49 e 27-38).

(64) - Come non hanno mancato di osservare la Commissione ed il signor Verkooijen, prima del 1981, anno in cui fu adottato l'art. 47b, il sistema fiscale olandese si caratterizzava già per una certa coerenza, in quanto non si prevedeva eccezione (o attenuazione) alcuna agli effetti economici risultanti dalla doppia imposizione dei dividendi distribuiti a contribuenti olandesi da parte di società stabilite nei Paesi Bassi.

(65) - V. ICI, punto 29; Asscher, punti 58-60; Svensson, punto 18; Bachmann, punti 22-23; Commissione/Belgio, punti 14-16.

(66) - V. Bachmann e Commissione/Belgio.

(67) - V. Svensson, punto 18 della sentenza.

(68) - V. Svensson, paragrafo 31 delle conclusioni dell'avvocato generale Elmer.

(69) - V. sopra, paragrafo 4.

(70) - V. paragrafo 30 delle conclusioni dell'avvocato generale Elmer.

(71) - Sostanzialmente nello stesso senso, di recente, v. ICI, punto 29 della sentenza e paragrafi 26-28 delle conclusioni dell'avvocato generale Tesauro.

(72) - Sempre in relazione alla coerenza del proprio regime fiscale e, in particolare, all'esigenza di non produrre risultati ultronei rispetto a quelli cui mirava il legislatore nazionale, i Paesi Bassi hanno altresì osservato che un'applicazione integrale dell'esenzione avrebbe per effetto di avvantaggiare, rispetto agli azionisti di società olandesi, gli azionisti di società stabilite in quegli Stati membri in cui le disposizioni contenenti un'attenuazione degli effetti della doppia imposizione sui dividendi intervengono alla fonte, cioè sull'imposta sui dividendi. In tal modo, secondo il governo olandese, gli azionisti che hanno investito in azioni di società estere godrebbero di un'attenuazione del doppio effetto impositivo in misura superiore a quella consentita per i dividendi di società olandesi, e per questo si eccederebbe il fine dell'esenzione contemplata, con l'ulteriore conseguenza, se ho ben inteso, di nuocere all'attuazione dell'altro obiettivo sottostante alle misure fiscali in discorso, quello di promuovere l'economia nazionale. Tale ragionamento del governo olandese non convince. Anzitutto, il diritto comunitario non vieta agli Stati membri di trattare situazioni puramente interne in modo deteriore rispetto a quelle rilevanti ai sensi del Trattato. In secondo luogo, ricordo che la Corte ha già avuto occasione di respingere l'argomento secondo il quale determinati svantaggi (nel nostro caso, il non beneficiare dell'esenzione) possono giustificarsi in quanto compensati da vantaggi goduti presso un altro Stato membro (nell'ipotesi formulata dal governo olandese, un'«attenuazione» applicata all'imposta sui dividendi, sconosciuta al sistema fiscale dei Paesi Bassi): v. sentenze 13 luglio 1993, causa C-330/91, Commerzbank (Racc. pag. I-4017, punti 18 e 19), e Avoir fiscal (punto 21; v. altresì il paragrafo 7 delle conclusioni dell'avvocato generale Mancini).

(73) - V., ex multis, Gebhard, punto 37, e Kraus, punto 32.

(74) - Sentenza 15 maggio 1986, causa 222/84, Johnston (Racc. pag. 1651, punto 39).

(75) - Su questo tema v., infra, i paragrafi 46-56, e specialmente il paragrafo 54.

(76) - Il testo attuale dell'art. 73 D del trattato CE (divenuto art. 58 CE) prevede che: «1. Le disposizioni dell'articolo 56 [CE] non pregiudicano il diritto degli Stati membri: a) di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del loro capitale, b) di prendere tutte le misure necessarie per impedire violazioni della legislazione e delle regolamentazioni nazionali, in particolare nel settore fiscale o in quello della vigilanza prudenziale sulle istituzioni finanziarie (...).

2. Le disposizioni del presente capo non pregiudicano l'applicabilità di restrizioni in materia di diritto di stabilimento compatibili con il presente Trattato.

3. Le misure e le procedure di cui ai paragrafi 1 e 2 non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al libero movimento dei capitali e dei pagamenti di cui all'articolo 56 [CE]».

Il testo attuale dell'art. 73 B, n. 1, del trattato CE (divenuto art. 56 CE, n. 1), dispone che: «nell'ambito delle disposizioni previste dal presente capo sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi».

(77) - Quanto alle vicende che hanno conosciuto le disposizioni del Trattato sui movimenti di capitali v. sopra la nota 1; l'art. 73 D, n. 1, lett. a), introduce, in particolare, una deroga (in prosieguo: la «deroga») alla libertà in questione non esplicitamente prevista né nelle previgenti norme del Trattato né nella direttiva.

(78) - I governi intervenuti sottolineano, in particolare, che l'art. 73 D, n. 3, fa esclusiva menzione di «misure» e «procedure» e si rifa quindi alla sola formulazione letterale dell'art. 73 D, nn. 1, lett. b), e 2, mentre l'art. 73 D, n. 1, lett. a), si riferisce a «disposizioni».

(79) - Salvo voci isolate, la dottrina è sostanzialmente d'accordo nel ritenere che l'art. 73 D, n. 1, lett. a), non costituisca affatto un passo indietro, in apparente contraddizione con la lettera dell'art. 67, n. 1 (che vieta le discriminazioni fondate sul luogo di collocamento dei capitali), ma sia da leggersi in armonia con il sistema previgente, come interpretato nella giurisprudenza della Corte (v., ex multis, Dourado, cit., pagg. 180-181 e 184; P. Farmer-R. Lyal, EC Tax Law, Clarendon Press, Oxford, 1994, pag. 334; J.-M. Hauptmann, Commento all'art. 73 D, in Traité sur l'Union européenne, cit., pag. 184; Lodin, cit., pag. 231; Mohamed, cit., pagg. 134 e 135; M. Peters, Capital movements and taxation in the EC, in EC Tax Review, 1998, pag. 1, in particolare pagg. 10 e 11; Servais, cit., pag. 64, nota 58; R. Smits, Freedom of payments and capital movements under EMU, in A. Weber (Hrsg.), Währung und Wirtschaft, cit., pag. 245, in particolare pagg. 262 e 263; Ståhl, cit., pagg. 229 e 231; J.A. Usher, The Law of Money and Financial Services in the European Community, Clarendon Press, Oxford, 1994, pagg. 32 e ss.; S. van Thiel, The Prohibition of Income Tax Discrimination in the European Union: What Does It Mean?, in European Taxation, 1994, pag. 303, in particolare pag. 309; P. Vigneron-P. Steinfeld, La Communauté européenne et la libre circulation des capitaux: les nouvelles dispositions et leurs implications, in C.D.E., 1996, pag. 401, in particolare pagg. 411, 432 e 433).

(80) - Sull'importanza che la Corte attribuisce alla «sostanza» al fine di verificare l'equiparabilità di due distinte situazioni, non fermandosi dunque innanzi a distinzioni di tipo più «formale» (quale il possesso o meno della residenza) spesso contenute nella legislazione degli Stati membri, v. Schumacker, punto 34 della sentenza (ove l'espressione «situazione», già utilizzata ai punti 24 e 31, appare essere il perno della motivazione) e paragrafi 35-38 delle conclusioni dell'avvocato generale Léger (cfr. anche le conclusioni del medesimo avvocato generale rese in Wielockx, paragrafo 21); il termine «situazione» viene ripreso anche nell'art. 73 D, n. 1, lett. a). V. altresì Royal Bank of Scotland, punti 27-31, Asscher, punto 42, Wielockx, punti 18-22, e Avoir fiscal, punto 19.

(81) - V. Bachmann e Commissione/Belgio.

(82) - Comprese, dunque, quella che si fonda sul luogo di collocamento del capitale.

(83) - V. Schumacker, punto 37.

(84) - In questo senso si sono espressi tutti gli autori che ritengono che la deroga non sia «nuova», ma costituisca l'espressione di principi affermati dalla Corte (v. supra, nota 79); cfr. anche S. Kollias, voce Capitaux, in Répertoire de droit communautaire, Dalloz, Parigi, vol. I, paragrafo 92. Tenuto conto della profonda somiglianza di impianto esistente tra l'art. 36 e l'art. 73 D, la ricostruzione di cui al testo mi sembra in linea con quella giurisprudenza che ha tracciato delle analogie per quanto riguarda la disciplina generale delle garanzie delle libertà fondamentali (v. Gebhard, punto 37).

(85) - V. Bachmann, punto 27, e Commissione/Belgio, punto 20.

(86) - V., ex multis, sentenze 30 maggio 1989, causa 305/87, Commissione/Grecia (Racc. pag. 1461, punti 12 e 13); 12 aprile 1994, causa C-1/93, Halliburton Services (Racc. pag. I-1137, punto 12); 17 maggio 1994, causa C-18/93, Corsica Ferries (Racc. pag. I-1783, punto 19); 29 febbraio 1996, causa C-193/94, Sofia Skanavi (Racc. pag. I-929, punti 20 e 21).

(87) - Ed ora, il reciproco art. 73 D, n. 2, si esprime in modo simile in relazione ai movimenti di capitali: «le disposizioni del presente capo non pregiudicano l'applicazione di restrizioni in materia di diritto di stabilimento compatibili con il presente trattato».

(88) - V. Safir, paragrafo 17 delle conclusioni.

(89) - Avoir fiscal, punto 21.

(90) - V. il paragrafo 16 e la giurisprudenza della Corte citata alla nota 36.

(91) - L'art. 52 non garantisce soltanto la libertà di stabilirsi a titolo primario: ai sensi dell'art. 52, n. 1, e dell'art. 58, n. 1, il diritto di stabilimento comprende, per le imprese sociali costituite secondo il diritto di uno Stato membro ed aventi la sede sociale, l'amministrazione centrale o il centro di attività principale nel territorio comunitario, il diritto di operare in un altro Stato membro mediante uno stabilimento secondario. In merito, v. sentenze 7 marzo 1996, causa C-334/94, Commissione/Francia (Racc. pag. I-1307, punto 19) e 9 marzo 1999, causa C-212/97, Centros (non ancora pubblicata in Raccolta, punto 21). In generale, cfr. altresì le sentenze Gebhard, punto 24; 20 maggio 1992, causa C-106/91, Ramrath (Racc. pag. I-3351, punto 20); 15 febbraio 1996, causa C-53/95, Kemmler (Racc. pag. I-703, punto 10).

(92) - Il diritto di stabilimento comprende la «gestione di imprese» (v. art. 52, n. 2, e sentenza Gebhard, punto 23: «il diritto di stabilimento ... comporta ... l'accesso, nel territorio di un altro Stato membro, a tutte le attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese...»; il corsivo è mio).

(93) - V. paragrafo 15 delle mie conclusioni nel caso Centros.

(94) - V. punti 20-22 della sentenza, con richiami giurisprudenziali nello stesso senso. Tra questi segnalo il caso Avoir fiscal, ove la Corte ha affermato che: «l'art. 52, primo comma, seconda frase, lascia espressamente agli operatori economici la possibilità di scegliere liberamente la forma giuridica idonea per l'esercizio delle loro attività in un altro Stato membro» (punto 22; il corsivo è mio).

(95) - V., a contrario, sentenza 27 settembre 1988, causa 81/87, Daily Mail (Racc. pag. 5483, punti 24 e 25), ove la Corte ha statuito che «dall'interpretazione degli artt. 52 e 58 del trattato [CE] non può evincersi l'attribuzione alle società di diritto nazionale di un diritto di trasferire la direzione e l'amministrazione centrale pur conservando la qualità di società dello Stato membro secondo la cui legislazione sono state costituite» (il corsivo è mio).

(96) - Tali operazioni implicano lo «spostamento» della sede sociale in un altro Stato membro [v. ipotesi sub b)] nonché una diversa strategia in termini di localizzazione della gestione dell'impresa.

(97) - Dal Rapporto Ruding, peraltro, risulta che per il 48% delle imprese comunitarie gli aspetti fiscali sono quasi sempre un aspetto fondamentale di cui tengono conto al momento di decidere dove realizzare un impianto di produzione (v. capitolo 10, sezione II, nella parte relativa all'impatto delle differenze fiscali tra Stati membri); la percentuale è invece del 38% nel caso dell'apertura di un punto vendita, il 41% per un impianto per la ricerca e lo sviluppo, il 57% per un centro di coordinamento ed il 78% per il caso di un centro finanziario.

(98) - Convenzione firmata a Bruxelles in data 19 ottobre 1970 (v. Moniteur Belge-Belgisch Staatsblad del 25 settembre 1971 n. 187, pag. 11096; in prosieguo: la «convenzione»).

(99) - Ma vedi quanto si legge al paragrafo 14 delle osservazioni del governo olandese, ove si fa cenno di «convenzioni in materia di imposizione».

(100) - Paragrafo 54 delle conclusioni.

(101) - V. Wielockx, dispositivo e punti 24-27; Bachmann (punto 26), in un caso addirittura in cui delle convenzioni internazionali non v'era traccia né tra gli argomenti di coloro che erano intervenuti innanzi alla Corte, né nelle conclusioni dell'avvocato generale Mischo (per una descrizione della fattispecie v. paragrafo 25 delle presenti conclusioni).

Secondo V. Petrella (Il principio di non discriminazione nell'imposizione del reddito transnazionale. Analisi del principio nel contesto giuridico comunitario, tesi di dottorato, Università degli Studi «Federico II», Napoli, 1999, capitolo IV, sezione 5), «[intesa la coerenza del regime fiscale] come conservazione degli equilibri macroeconomici sottesi ad ogni sistema impositivo (...) la pronuncia [Bachmann] è censurabile nella misura in cui non procede all'analisi del regime convenzionale, in quanto non rileva che un equilibrio macroeconomico è raggiunto, seppur a livello bilaterale, grazie alla disciplina sancita nel trattato [contro le doppie imposizioni]. Infatti, la convenzione stipulata tra il Belgio e la Germania ripartisce il potere impositivo dei due Stati conferendo una potestà esclusiva alla Germania per la tassazione dei capitali assicurativi corrisposti a contribuenti residenti in Germania al momento del loro pagamento, a prescindere dal luogo in cui i premi sono stati versati ed indipendentemente dal regime per essi previsto» (secondo l'interpretazione del punto 26 della sentenza effettuata dall'autrice, in sostanza, in Bachmann, la Corte ha considerato irrilevante la stipula di trattati bilaterali che contemplino il regime da applicarsi a contratti di assicurazione - quali quelli della specie - che presentano una componente transnazionale poiché, in quanto bilaterali, non possono disciplinare uniformemente tutte le transazioni effettuate all'interno della Comunità). Nello stesso senso v. B. Knobbe-Keuk, Restrictions on the Fundamental Freedoms Enshrined in the EC Treaty by Discriminatory Tax Provisions - Ban and Justification, in EC Tax Review, 1994, pag. 74, in particolare pag. 80.

Successivamente, in Wielockx, la giurisprudenza della Corte ha conosciuto un'importante evoluzione per quanto concerne il rilievo da attribuire alle convenzioni fiscali bilaterali ai fini di una corretta soluzione delle problematiche sottoposte alla sua attenzione: «Nel caso Wielockx, la Corte rileva l'anomalia [dell'atteggiamento tenuto in Bachmann] e, ribaltando le conclusioni raggiunte in Bachmann, sostiene che la coerenza del sistema deve essere vagliata all'interno del sistema impositivo complessivo di uno Stato, comprensivo anche della disciplina convenzionale stabilita nei trattati bilaterali» (V. Petrella, ibidem; il corsivo è mio).

V. anche Royal Bank of Scotland (punto 31), ove, pur essendo stata richiamata dal governo francese, la convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra Grecia e Regno Unito (i due Stati membri interessati dai fatti del giudizio principale), non aveva formato l'oggetto né del quesito pregiudiziale rivolto alla Corte in quanto il giudice remittente nutriva dubbi sulla compatibilità con il diritto comunitario esclusivamente in relazione al diritto nazionale interno (v. punto 17), né della descrizione del contesto giuridico di cui al rapporto d'udienza redatto dal giudice relatore Wathelet.

(102) - Al fine, questa volta, non tanto di verificare la fondatezza di una giustificazione (la coerenza del regime fiscale) di una misura distintamente applicabile (v. Bachmann e Wielockx, casi in cui, come ho notato nel testo, la Corte non ha seguito la medesima impostazione), quanto piuttosto di decidere, come vedremo meglio nel seguito (v. paragrafi 52-56), se una legislazione nazionale sia oppure no distintamente applicabile, ovvero se essa costituisca un ostacolo ad una libertà fondamentale.

(103) - V. Wielockx, punti 24 e 25 della sentenza e paragrafo 54 e nota 41 delle conclusioni dell'avvocato generale Léger.

(104) - V. Avoir fiscal, punto 26, ove la Corte ha respinto l'argomento del governo francese - il quale, per giustificare la misura nazionale in questione, si richiamava alle convenzioni contro le doppie imposizioni - motivando la propria decisione con il fatto che quelle convenzioni non riguardavano le ipotesi esaminate nella fattispecie.

(105) - Sentenza 9 ottobre 1997, cause riunite C-31/96, C-32/96 e C-33/96, Naranjo Arjona e a. (Racc. pag. I-5501).

(106) - Il dispositivo di Naranjo Arjona riflette, in sostanza, le mie conclusioni, ove pure avevo indicato quali fossero, a mio parere, le due soluzioni (alternative) da dare alle questioni pregiudiziali.

(107) - V. sentenza 12 maggio 1998, causa C-336/96, Gilly (Racc. pag. I-2793, punto 24).

(108) - Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.

(109) - Ancora nel 1992, il Rapporto Ruding, cit., aveva identificato una serie di casi in cui degli Stati membri non avevano concluso tra loro convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni (v. capitoli 3 e 10, sezione III, nella parte relativa alle convenzioni fiscali).

(110) - Ai sensi dell'art. 10, n. 1, della convenzione (il cui contenuto, al pari del n. 2, riflette quello dell'art. 10 del modello di convenzione OCSE): «I dividendi pagati da una società residente di uno Stato contraente a un residente dell'altro Stato contraente possono essere assoggettati ad imposta in questo secondo Stato» (la traduzione è mia).

(111) - Ai sensi dell'art. 10, n. 2, della convenzione: «Tuttavia, questi dividendi possono essere altresì assoggettati ad imposta nello Stato contraente di cui la società che paga i dividendi sia un residente e secondo la legislazione di questo Stato, ma l'imposta così definita non può eccedere: 1_ il 5% del totale lordo dei dividendi se il beneficiario dei dividendi è una società per azioni che detiene direttamente almeno il 25% del capitale della società che paga i dividendi; 2_ il 15% del totale lordo dei dividendi, negli altri casi (...)» (la traduzione è mia). Ai sensi dell'ultima parte della disposizione qui richiamata, inoltre, detti massimali di imposizione non concernono l'imposta sulle società che colpisce, in capo alla società, i profitti che servono per il pagamento dei dividendi.

Seppure la convenzione preveda l'obbligo reciproco per gli Stati contraenti di applicare - nel caso dei dividendi di cui sia beneficiario un soggetto residente nell'altro Stato contraente - un'imposta sui dividendi non eccedente il 15%, il signor Verkooijen afferma che i dividendi da lui percepiti erano già stati colpiti in Belgio da una ritenuta alla fonte nella misura del 25%.

(112) - Il quale corrisponde all'art. 23 del modello di convenzione dell'OCSE.

(113) - Ai sensi dell'art. 24, n. 1, della convenzione: «Per quanto concerne i residenti dei Paesi Bassi, la doppia imposizione viene evitata nel modo seguente: 1. I Paesi Bassi possono, al momento dell'imposizione dei loro residenti, includere nella base imponibile gli elementi del reddito o del patrimonio che, conformemente alle disposizioni della presente Convenzione, sono imponibili in Belgio; (...) 3. Per quegli elementi del reddito che, in virtù de[ll']articol[o] 10, paragrafo 2, (...) sono imponibili in Belgio e sono compresi nella base imponibile di cui al paragrafo 1, i Paesi Bassi applicano (...) una riduzione dell'imposta così calcolata. L'importo di questa riduzione è il minore dei seguenti: a) un importo pari all'imposta percepita in Belgio; b) un importo pari alla frazione dell'imposta dei Paesi Bassi calcolata conformemente alla previsione di cui al paragrafo 1, che corrisponde al rapporto esistente tra l'importo di quegli elementi di reddito e l'importo del reddito che costituisce la base imponibile oggetto del paragrafo 1 (...)» (la traduzione ed il corsivo sono miei). Quanto al Belgio, l'art. 24, n. 2, prevede - in linea generale - l'obbligo di esentare i redditi dei propri contribuenti che siano già stati fatti oggetto d'imposta nei Paesi Bassi. «Esenzione» e «credito d'imposta» sono i due metodi di base per evitare la doppia imposizione indicati all'art. 23 del modello di convenzione dell'OCSE.

Nel fascicolo del presente procedimento non esistono elementi per stabilire se l'amministrazione fiscale olandese abbia - ai sensi dell'art. 24, n. 1, della convenzione - applicato ai dividendi distribuiti da Petrofina al signor Verkooijen il credito d'imposta relativo all'imposta sui dividendi già scontata in Belgio con una ritenuta alla fonte o se il signor Verkooijen abbia mai fatto richiesta di godere di tale beneficio, inteso a evitare la doppia imposizione.

(114) - V. nota 72, in fine.

(115) - Wielockx, punto 24. Il medesimo carattere di reciprocità degli obblighi è giudicato indispensabile dal Rapporto Ruding per poter imporre agli Stati membri della Comunità l'estensione ai dividendi «transfrontalieri» dei benefici che essi riconoscono ai dividendi aventi origine «nazionale».

(116) - V., ad esempio, sentenza 26 gennaio 1993, causa C-112/91, Werner (Racc. pag. I-429), ove la Corte sancisce la compatibilità con il diritto comunitario di una normativa fiscale che tratta il cittadino in modo deteriore rispetto al non cittadino (discriminazione rovesciata). Più di recente v. Asscher, ove la Corte ribadisce la compatibilità di pratiche di discriminazione rovesciata con il diritto comunitario, precisando che, sebbene sia pacifico che le disposizioni del Trattato a garanzia della libertà di stabilimento non trovano applicazione per fattispecie meramente interne, tuttavia uno Stato membro non può interpretarle in modo da negare ad un suo cittadino i diritti da esse sanciti nel caso in cui egli si trovi in una situazione analoga a quella di altri cittadini comunitari che godono di tali diritti (v. punto 32).

(117) - Le conclusioni cui pervengo circa la qualificazione della disposizione contestata sono confortate da quelle del Rapporto Ruding del 1992 (citato alla nota 32). In quel rapporto si raccomanda che gli Stati membri il cui ordinamento prevede una forma di beneficio fiscale per i dividendi distribuiti da società stabilite nello Stato membro interessato a chi vi è domiciliato fiscalmente riconoscano, su base reciproca, un beneficio equivalente per i dividendi distribuiti da società stabilite in un altro Stato membro (v. capitolo 10, sezione III, nella parte sui regimi fiscali delle società). In assenza di un'armonizzazione comunitaria, secondo il Rapporto Ruding, una simile soluzione avrebbe il vantaggio di ridurre al massimo ogni possibile distorsione. Ora, nel quadro dei rapporti bilaterali con il Belgio, i Paesi Bassi riconoscono ai dividendi «transfrontalieri» un beneficio superiore, non già equivalente, rispetto a quello previsto per i dividendi «nazionali». Aggiungo poi che le pattuizioni della convenzione integrano in pieno il suggerimento della Commissione di una misura meno restrittiva della libera circolazione dei capitali: il riconoscimento di un credito d'imposta ai dividendi aventi origine in un altro Stato membro (v. paragrafo 29).

(118) - V. Bordessa, punto 17, e Brugnoni e Ruffinengo, punto 22 (seppure tale sentenza si collochi in un momento temporale in cui solo alcuni movimenti di capitali erano stati liberalizzati, le statuizioni della Corte circa quei determinati movimenti di capitali hanno ora una valenza generale, posto che con la direttiva si è pervenuti ad una piena liberalizzazione).

(119) - V. la giurisprudenza citata al paragrafo 17, specialmente alla nota 43.