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CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

POIARES MADURO

presentate il 7 aprile 2005 (1)

Causa C-446/03

Marks & Spencer plc

e

David Halsey (HM Inspector of Taxes)

[domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dalla High Court of Justice (England & Wales), Chancery Division (Regno Unito)]

«Libertà di stabilimento – Fiscalità – Imposta sulle società – Sgravio di gruppo – Coerenza del sistema fiscale»





1.     Nella presente causa la Corte è chiamata a precisare l’effetto delle disposizioni del Trattato CE relative alla libertà di stabilimento sul regime fiscale dei gruppi di società di uno Stato membro. Si tratta di sapere se il diritto comunitario osti ad una legislazione quale quella britannica relativa allo «sgravio di gruppo», che subordina il trasferimento di perdite all’interno di un gruppo di società alla condizione che queste ultime siano stabilite o esercitino un’attività economica nel Regno Unito.

2.     Per risolvere tale questione, la Corte deve basarsi sulle disposizioni del Trattato e sulle soluzioni che emergono dalla sua giurisprudenza, già ampiamente sviluppata, in materia fiscale. In tale settore, il diritto derivato dal Trattato non offre molti spunti per orientarsi. È vero che esiste una direttiva del Consiglio 23 luglio 1990, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi (2). In tale direttiva si evidenzia chiaramente la volontà del legislatore comunitario di eliminare gli svantaggi derivanti dal fatto che le disposizioni fiscali che disciplinano i rapporti tra società controllanti e filiali di Stati membri diversi sono, in generale, meno favorevoli di quelle applicabili ai rapporti tra società controllanti e filiali di uno stesso Stato membro (3). Tuttavia, la detta direttiva non riguarda specificamente il trattamento delle perdite transfrontaliere in seno ai gruppi di società (4).

3.     Si tratta comunque di una questione che non è ignota alla istituzioni comunitarie. Il 6 dicembre 1990, la Commissione ha presentato una proposta di direttiva del Consiglio relativa alla contabilizzazione, da parte delle imprese, delle perdite subite dalle sedi stabili e dalle filiali situate in altri Stati membri (5). Poiché tale proposta non ha avuto seguito, la Commissione ha deciso di ritirarla e di avviare nuovi negoziati con gli Stati membri. Essa ritiene che la mancanza di una normativa comunitaria sulla compensazione transfrontaliera delle perdite dei gruppi societari nella Comunità costituisca attualmente uno dei maggiori ostacoli al buon funzionamento del mercato interno (6).

4.     Probabilmente ci sono buoni motivi per cui il Consiglio non ha intrapreso la strada indicata dalla Commissione. Stando così le cose, la Corte non deve sostituirsi al legislatore comunitario. Tuttavia, tale assenza di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri non può impedirle di esercitare la sua funzione, ossia garantire la salvaguardia e la realizzazione dei principi e degli obiettivi fondamentali del Trattato.

5.     Pertanto, contro la tesi sostenuta in particolare dal governo olandese interveniente nella presente causa, secondo cui l’unico contesto adeguato per risolvere il problema sarebbe quello del ravvicinamento delle legislazioni, si devono sottolineare con forza i due punti che seguono. Da un lato, dalla giurisprudenza della Corte si può agevolmente dedurre che l’armonizzazione delle legislazioni fiscali degli Stati membri non può costituire una condizione preliminare per l’attuazione della libertà di stabilimento sancita dall’art. 43 CE (7). Dall’altro lato, l’attuazione concreta delle libertà fondamentali che concorrono all’instaurazione del mercato interno non può privare di fondamento e di rilevanza un ravvicinamento delle legislazioni nazionali. L’armonizzazione legislativa, infatti, può avere lo scopo di facilitare l’esercizio delle libertà di circolazione, ma può anche servire a correggere le distorsioni derivanti dall’esercizio di queste stesse libertà.

6.     La Corte, peraltro, ha già avuto modo di pronunciarsi su fattispecie analoghe a quella in esame, in cui era chiamata a conoscere del trattamento delle perdite subite all’estero da imprese comunitarie (8) oppure a precisare il regime fiscale delle imprese comunitarie che dispongono di centri di attività secondari in altri Stati membri (9). È vero che la causa ora in esame presenta innegabili peculiarità. Tuttavia, essa condivide con i casi precedenti la medesima difficoltà di fondo, in quanto riguarda la contrapposizione tra il potere, riconosciuto agli Stati membri, di riscuotere imposte sugli utili realizzati nel loro territorio e la libertà, conferita ai cittadini comunitari, di stabilirsi nella Comunità. Ne derivano un conflitto tra due logiche contrapposte e l’esigenza di trovare un equilibrio nella ripartizione delle competenze tra gli Stati membri e la Comunità.

I –    Procedimento principale e questioni pregiudiziali

7.     Prima di esaminare tali difficili questioni di diritto, richiamerò i fatti, che sono semplici.

8.     La società Marks & Spencer plc (in prosieguo: la «M&S»), con sede nel Regno Unito, è la società principale di un gruppo specializzato nella grande distribuzione di prodotti di abbigliamento, alimentari, casalinghi e di servizi finanziari. In particolare, essa controllava, attraverso una società holding con sede nei Paesi Bassi, filiali stabilite in Germania, Belgio e Francia. A partire dalla metà degli anni ‘90 tali filiali iniziavano a registrare perdite, che continuavano negli anni successivi. Il 29 marzo 2001, la M&S annunciava la cessazione delle attività nell’Europa continentale. Il 31 dicembre dello stesso anno, la filiale francese veniva ceduta a terzi, mentre le filiali tedesca e belga cessavano tutte le attività commerciali.

9.     Nel 2000 e nel 2001, la M&S presentava al sig. Halsey (HM Inspector of Taxes) (ispettore delle imposte) domande di sgravio di gruppo aventi per oggetto le perdite subite dalle sue filiali tedesca, belga e francese negli esercizi chiusi nel 1998, 1999, 2000 e 2001. La legislazione fiscale britannica consente infatti alla società controllante di un gruppo di effettuare, a determinate condizioni, una compensazione tra i propri utili e le perdite subite dalle sue filiali. Le suddette domande venivano tuttavia respinte con decisioni 13 agosto 2001 e 2 novembre 2001, in quanto il regime legale dello sgravio di gruppo non è applicabile alle filiali che non siano stabilite e non esercitino un’attività economica nel Regno Unito.

10.   Le decisioni di rigetto venivano immediatamente impugnate dalla M&S dinanzi agli Special Commissioners of Income Tax (giurisdizione tributaria di primo grado). La ricorrente intendeva far constatare l’incompatibilità delle norme fiscali britanniche con il diritto comunitario, in particolare con gli artt. 43 CE e 48 CE. Il ricorso veniva respinto con decisione 17 dicembre 2002. Gli Special Commissioners of Income Tax dichiaravano, da un lato, che la Corte aveva stabilito principi chiari in materia e quindi non occorreva sottoporle alcuna questione pregiudiziale e, dall’altro, che la decisione dell’ispettore delle imposte andava confermata in quanto il regime fiscale britannico non era in contrasto con il diritto comunitario.

11.   La ricorrente ha impugnato tale decisione dinanzi alla High Court of Justice (England & Wales), Chancery Division. Quest’ultima ha ritenuto necessario sospendere il procedimento e sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)      Se sussista una restrizione ai sensi dell’art. 43 CE, in combinato disposto con l’art. 48 CE e, in caso affermativo, se essa sia giustificata ai sensi del diritto comunitario, laddove, in una situazione in cui

–       disposizioni di uno Stato membro, come le disposizioni britanniche sullo sgravio di gruppo, vietano ad una società controllante registrata fiscalmente nel detto Stato di ridurre i suoi redditi imponibili deducendone le perdite occorse in altri Stati membri a società controllate ivi registrate ai fini fiscali, mentre una siffatta deduzione sarebbe possibile qualora le perdite fossero occorse a società controllate registrate nello Stato della società controllante;

–       lo Stato membro della società controllante

–       assoggetti una società registrata nel suo territorio all’imposta sulle persone giuridiche sull’insieme dei suoi profitti, compresi i profitti delle succursali stabilite in altri Stati membri, con accordi sulla disponibilità di sgravio della doppia imposizione per le imposte già riscosse in un altro Stato membro e per le quali sono già state prese in considerazione le perdite sofferte dalla succursale;

–       non assoggetti all’imposta sulle persone giuridiche i profitti non distribuiti dalle filiali registrate in altri Stati membri;

–       assoggetti la società controllante all’imposta sulle persone giuridiche su tutto quanto le viene distribuito per via di dividendi dalle filiali registrate in altri Stati membri, mentre non assoggetta la società controllante all’imposta sulle persone giuridiche su quanto le viene distribuito per via di dividendi dalle società controllate registrate nello Stato della controllante;

–       garantisca lo sgravio della doppia imposizione alla società controllante mediante un credito nei confronti della ritenuta alla fonte sui dividendi e sulle imposte estere versate sui profitti sulla base dei quali sono stati distribuiti i dividendi dalle società controllate registrate in altri Stati membri.

2)      a)     Se la soluzione della questione sub 1) possa eventualmente essere diversa qualora, sulla base dell’ordinamento dello Stato membro della filiale, sia possibile, in certe circostanze, ottenere uno sgravio per talune o tutte le perdite occorse alla filiale nei confronti dei profitti imponibili nello Stato della filiale.

b)      Se possa modificare la soluzione l’importanza eventualmente da ricollegare al fatto che:

–       una filiale registrata in un altro Stato membro ha cessato il commercio e, sebbene una disposizione di tale Stato conceda, a determinate condizioni, lo sgravio delle perdite, non risulta che tale sgravio sia stato ottenuto;

–       una filiale registrata in un altro Stato membro è stata venduta a un terzo e, sebbene una disposizione di tale Stato conceda all’acquirente, a determinate condizioni, il diritto di avvalersi delle perdite, non è certo che esso se ne sia avvalso nel caso di specie;

–       gli accordi ai sensi dei quali lo Stato membro della società controllante prende in considerazione le perdite delle società registrate nel Regno Unito trovano applicazione indipendentemente dal fatto che le perdite siano state dedotte o meno in un altro Stato membro.

c)      Se la soluzione sarebbe diversa qualora risultasse che lo sgravio è stato ottenuto per le perdite nello Stato membro in cui la filiale è registrata e, in questo caso, se rilevi il fatto che lo sgravio è stato ottenuto da un gruppo non collegato di società al quale è stata venduta la filiale».

II – Sulla legislazione nazionale controversa

12.   La materia è disciplinata della legge del 1988 relativa alle imposte sul reddito e le società (Income and Corporation Taxes Act 1988; in prosieguo: l’«ICTA»). È opportuno rammentarne brevemente le disposizioni pertinenti ai fini dell’interpretazione richiesta.

13.   Il Regno Unito ha adottato un regime impositivo globale sui profitti delle società. Ai sensi dell’art. 8 dell’ICTA, le società stabilite nel Regno Unito versano le imposte sui loro utili a livello mondiale. Da ciò deriva che i risultati delle succursali e sedi permanenti situate all’estero vengono integrati direttamente nella base imponibile di tali società. Per evitare le doppie imposizioni, viene loro accordato un credito d’imposta per le imposte versate sugli utili realizzati all’estero. Per quanto riguarda le società non residenti, invece, sono assoggettati all’imposta sulle società nel Regno Unito solo gli utili di origine nazionale, imputabili ai profitti realizzati dai loro centri di attività stabiliti in tale Stato.

14.   La fiscalità dei gruppi di società è soggetta ad un regime particolare. All’interno di un gruppo, ogni società versa le imposte separatamente sugli utili conseguiti, conformemente al principio della personalità giuridica applicato al settore fiscale. Nel diritto tributario britannico, in linea di principio, non esiste consolidamento dei risultati delle società di un gruppo.

15.   Questo principio subisce però due correttivi (10). In primo luogo, le filiali estere possono distribuire i propri utili sotto forma di dividendi alla società controllante registrata nel Regno Unito. In tal caso, tutti gli utili distribuiti dalle filiali si considerano realizzati dalla società stabilita nel Regno Unito. La doppia imposizione viene evitata con la concessione di un credito d’imposta. In secondo luogo, è stato istituito un regime speciale per le perdite dei gruppi. In base a tale regime, detto «sgravio di gruppo» («group relief»), ogni società («società cedente») può cedere le sue perdite ad un’altra società dello stesso gruppo («società richiedente») e quest’ultima può dedurre tali perdite dai propri utili imponibili. Tuttavia, in tal modo la società cedente si priva del diritto di utilizzare le perdite cedute ai fini fiscali e in particolare di detrarle dagli utili degli esercizi successivi. La causa in esame verte su tale regime.

16.   Qual è lo scopo di questo sistema di sgravio? Quello di limitare gli effetti negativi, sul piano fiscale, della costituzione di gruppi di società. Si tratta di non penalizzare le imprese che, anziché creare succursali, decidano di sviluppare la loro attività costituendo filiali. Il meccanismo del trasferimento delle perdite è volto precisamente a rendere il più neutrale possibile la tassazione dei gruppi di società, consentendo di trasferire i risultati negativi da una società a un’altra dello stesso gruppo durante un determinato esercizio fiscale.

17.   Se tale regime neutralizza determinati effetti prodotti dalla separazione giuridica delle società appartenenti ad un gruppo, esso tuttavia non parifica le condizioni d’imposizione delle varie forme di società. A differenza del regime applicabile alle società che dispongono di sedi permanenti, il regime dei gruppi di società non dà diritto ad un consolidamento fiscale. Un regime di consolidamento fiscale fa sì che, ai fini della tassazione, tutti i risultati delle imprese del gruppo, sia le perdite che i profitti, vengano assorbiti dai risultati della società controllante. Il gruppo può quindi essere considerato come una perfetta unità fiscale. Così non è nel contesto di un regime di sgravio di gruppo, il quale consiste semplicemente nel contabilizzare le perdite delle filiali nei bilanci della società controllante durante un determinato esercizio fiscale. Tali filiali devono acconsentire al trasferimento delle perdite, nonché assumersi l’obbligo di non riportare ad altri esercizi fiscali le perdite cedute. Pertanto, se si può ritenere che il regime di sgravio consideri il gruppo di società come un’entità economica reale, tuttavia esso non crea un’unità fiscale. Nell’ambito di tale regime, le filiali conservano non solo la loro autonomia giuridica, ma anche una certa autonomia fiscale.

18.   Le condizioni di applicazione di tale regime si sono evolute. Nel sistema istituito dall’ICTA, l’applicazione dello sgravio di gruppo era subordinato alla condizione che le società interessate avessero sede nel Regno Unito. Tuttavia, tale condizione è stata messa in discussione dalla sentenza ICI, in quanto risultava contraria all’art. 43 CE, che garantisce la libertà di stabilimento alle imprese stabilite nella Comunità (11). In seguito a tale sentenza, la legislazione britannica è stata modificata in modo che lo sgravio possa essere concesso alle società non stabilite nel Regno Unito che esercitino un’attività commerciale in detto Stato tramite una succursale o un’agenzia (12). Ai sensi del nuovo art. 402 dell’ICTA, lo sgravio può essere accordato solo a condizione che la società cedente e quella richiedente siano una «società (…) [avente] sede nel Regno Unito ovvero (…) una società non avente sede nel Regno Unito e che svolge nel Regno Unito un’attività commerciale tramite una succursale o un’agenzia». Sono quindi escluse da tale regime le società non aventi sede nel Regno Unito che non esercitano un’attività economica in detto Stato. Le filiali della M&S si trovano in tale situazione.

III – Analisi

19.   Nella fattispecie, il giudice a quo sottopone alla Corte sostanzialmente tre questioni: se il fatto di escludere una società che dispone di filiali in altri Stati membri dal regime di consolidamento fiscale applicabile ad una società che dispone di succursali in altri Stati membri costituisca una restrizione della libertà di stabilimento; se il fatto di escludere una società che dispone di filiali in altri Stati membri dal beneficio del regime di sgravio di gruppo applicabile ad una società che dispone di filiali stabilite nello stesso Stato membro costituisca una restrizione della libertà di stabilimento e, supponendo che la legislazione britannica determini una restrizione vietata dal Trattato, se essa sia giustificabile in base a legittimi motivi ammessi dal diritto comunitario.

20.   Dalle osservazioni presentate alla Corte emerge una certa titubanza rispetto ai criteri da adottare per risolvere tali questioni. Va detto che l’approccio della Corte in materia si è progressivamente evoluto. Può quindi essere utile rammentare brevemente i principi cui essa si è ispirata per interpretare le disposizioni fondamentali del Trattato in materia fiscale. Alla luce di tale analisi, saranno successivamente analizzate le tre questioni sollevate dal giudice del rinvio.

A –    Principi interpretativi

1.      Premesse

21.   «[S]e è vero che allo stato attuale del diritto comunitario la materia delle imposte dirette non rientra, in quanto tale, nella competenza della Comunità, ciò non toglie tuttavia che gli Stati membri sono tenuti ad esercitare le competenze loro attribuite nel rispetto del diritto comunitario». Tale è la formula, ormai classica, utilizzata dalla Corte nella sentenza 14 febbraio 1995, Schumacker (13).

22.   Con tale formula, la Corte sottolinea che le competenze riservate degli Stati membri non sono illimitate. Esse vanno esercitate rispettando gli impegni assunti con l’adesione al Trattato CE, che prevede in particolare il divieto di limitare la libertà dei cittadini di uno Stato membro di stabilirsi nel territorio di un altro Stato membro. Tale libertà è sancita dall’art. 43 CE, che costituisce, secondo la Corte, «una delle disposizioni fondamentali del diritto comunitario» (14). Essa implica per i cittadini comunitari l’accesso alle attività non subordinate e il loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese alle stesse condizioni previste dalle leggi del paese di stabilimento per i cittadini di questo e, ai sensi dell’art. 48 CE, garantisce alle società costituite a norma delle leggi di uno Stato membro e che abbiano la sede sociale, l’amministrazione centrale o la sede principale nel territorio della Comunità il diritto di svolgere la loro attività nello Stato membro di cui trattasi mediante una filiale, una succursale o un’agenzia (15).

23.   Con questa stessa formula, la Corte precisa inoltre la portata dei limiti imposti agli Stati membri. Da essa discende, da un lato, che i limiti derivanti dal diritto comunitario si applicano solo alle competenze esercitate dagli Stati membri. Questi ultimi rimangono quindi liberi di definire la configurazione e l’organizzazione del proprio sistema fiscale (16), nonché di stabilire la necessità di ripartire tra loro il potere impositivo (17). D’altro lato, la suddetta formula implica che, in mancanza di armonizzazione delle legislazioni nazionali in tale settore, le difficoltà che derivano per gli operatori economici da semplici divergenze tra i regimi fiscali degli Stati membri esulano dall’ambito del Trattato (18). In particolare, secondo una giurisprudenza consolidata, le disparità di trattamento derivanti dalle divergenze tra le legislazioni degli Stati membri non costituiscono discriminazioni vietate dal Trattato (19).

24.   Pertanto è indubbio che gli Stati membri, in linea di principio, conservano ampie competenze in materia fiscale (20). Tuttavia, essi non possono neanche ignorare i vincoli imposti al loro intervento. Gli Stati membri devono verificare che le scelte operate in materia fiscale tengano conto delle conseguenze che possono derivarne per il buon funzionamento del mercato interno. In tale contesto, la Corte ha il compito di accertare che le «situazioni transnazionali», che sono legate all’esercizio delle libertà di circolazione negli Stati membri, non risultino penalizzate per effetto delle scelte operate dal legislatore nazionale (21).

2.      Stato della giurisprudenza della Corte in materia di fiscalità diretta

25.   In questo settore, la preoccupazione di mantenere un equilibrio tra il rispetto delle competenze nazionali e le esigenze del mercato interno ha indotto la Corte, in una prima fase, a scegliere un approccio incentrato sul principio di non discriminazione in base alla nazionalità. In base a tale impostazione, la libertà di stabilimento si riduce in sostanza alla regola del trattamento nazionale, secondo cui gli Stati membri devono garantire ai cittadini degli altri Stati membri lo stesso trattamento fiscale applicato ai propri (22).

26.   Per molto tempo, tale approccio è stato identico a quello adottato in generale dalla Corte in materia di libertà di stabilimento (23). Ne derivava il divieto di qualsiasi discriminazione collegata direttamente o indirettamente alla nazionalità (24). Tuttavia, la Corte ha abbandonato questo criterio nel 1993. Nella sentenza Kraus, pronunciata il 31 marzo 1993, essa ha cessato di interpretare l’art. 43 CE nel senso che impone solo un obbligo di non discriminazione tra i cittadini degli Stati membri. Essa ha infatti ammesso che «gli artt. 48 e 52 ostano a qualsiasi provvedimento [nazionale] (…) il quale, anche se si applica senza discriminazioni in base alla cittadinanza, può ostacolare o scoraggiare l’esercizio, da parte dei cittadini comunitari, compresi quelli dello Stato membro che ha emanato il provvedimento stesso, delle libertà fondamentali garantite dal Trattato» (25). Orbene, è sorprendente che la Corte abbia tardato ad estendere tale giurisprudenza al settore della fiscalità diretta (26).

27.   Attualmente, essa ammette che possano sussistere restrizioni di natura fiscale alla libertà di stabilimento, indipendentemente da qualsiasi discriminazione basata sulla nazionalità. Nella sentenza ICI ha infatti dichiarato che «sebbene, così formulate, le norme relative alla libertà di stabilimento mirino in special modo ad assicurare il beneficio della disciplina nazionale dello Stato membro ospitante, esse ostano parimenti a che lo Stato d’origine ostacoli lo stabilimento in un altro Stato membro di un proprio cittadino o di una società costituita secondo la propria legislazione» (27).

28.   In tutte le pronunce successive in cui la Corte ha ritenuto necessario andare al di là della regola del trattamento nazionale, non è assente il principio di non discriminazione (28). Tuttavia, esso non viene più collegato al criterio della nazionalità, bensì all’esercizio del diritto alla libera circolazione (29). La misura nazionale esaminata viene messa in discussione in quanto determina uno specifico svantaggio per gli operatori che desiderano spostarsi o stabilirsi nella Comunità. Si tratta quindi di perseguire le discriminazioni contro i cittadini comunitari che vogliono far valere i loro diritti connessi alla libertà di circolazione.

29.   Benché sia comprensibile che in questa materia venga preferito un criterio fondato sulla non discriminazione in base alla nazionalità, tale criterio, tuttavia, non può essere esclusivo. Indubbiamente, questo approccio potrebbe sembrare più idoneo a garantire l’integrità dei sistemi fiscali nazionali. Esso non imporrebbe loro limiti maggiori rispetto a quelli già derivanti dai vincoli ammessi nel diritto tributario internazionale (30). Apparentemente, infatti, tale criterio presenta analogie con la clausola di non discriminazione contenuta in tutte le convenzioni fiscali internazionali (31). In ogni caso, esso sembrerebbe meno rigido rispetto alla nozione di semplice restrizione della libertà di stabilimento.

30.   Tale analisi, tuttavia, è erronea. Le analogie rilevate sono più formali che reali. Il criterio restrittivo di non discriminazione accolto dalle convenzioni fiscali internazionali presenta infatti notevoli differenze rispetto a quello estensivo adottato dalla Corte nella sua giurisprudenza in materia fiscale. Lo testimonia in particolare la sentenza Schumacker, secondo cui si deve avere riguardo alle «obiettive diversità» tra le situazioni considerate (32). Anziché accontentarsi di una distinzione formale tra residenti e non residenti, la Corte esige che gli Stati membri prendano in considerazione la situazione reale degli interessati. In tal modo, il principio comunitario di non discriminazione risulta ben più vincolante rispetto alle condizioni generalmente previste dalle convenzioni fiscali (33).

31.   Va detto inoltre che una riduzione della libertà di stabilimento alla sola regola della non discriminazione in base alla nazionalità presenta, all’atto pratico, due gravi difetti.

32.   In primo luogo, il controllo alla luce di tale regola implica una tecnica di non facile applicazione, che presuppone la prova della comparabilità tra le situazioni considerate. Orbene, il principio è che, «in materia di imposte dirette, la situazione dei residenti e quella dei non residenti in uno Stato non sono di regola comparabili» (34). Ammesso che il confronto sia possibile, occorre esaminare lo scopo della misura controversa, prima di verificare se la disparità che ne deriva sia necessaria per conseguire il fine perseguito e proporzionata alla differenza riscontrata tra le situazioni considerate. Tale operazione implica valutazioni delicate ed impone di verificare, nella medesima fase dell’accertamento della discriminazione, l’esistenza di motivi atti a giustificare la misura in questione. Questo procedimento diviene poi particolarmente difficile nel caso di una restrizione imposta da uno Stato membro ad un suo cittadino che abbia esercitato o desideri esercitare i propri diritti connessi alle libertà fondamentali. In tal caso, il confronto deve riguardare i cittadini dello stesso Stato membro, distinti a seconda che rimangano in detto Stato o si spostino all’interno della Comunità. Ciò è quanto avviene nel caso di specie, nel quale la presunta discriminazione riguarda due società controllanti stabilite nel Regno Unito, la cui situazione differisce soltanto sotto il profilo del luogo di stabilimento delle rispettive filiali.

33.   In secondo luogo, l’approccio in parola determina una certa confusione nel sistema dei motivi che giustificano le normative atte ad ostacolare la libertà di circolazione. L’avvocato generale Léger ha già avuto modo di ricordare come la Corte ammetta, in materia tributaria, che «le normative nazionali discriminatorie possano essere giustificate da motivi imperativi di interesse generale, diversi da quelli indicati dal Trattato, ed in particolare in base al principio della coerenza del sistema fiscale» (35). Orbene, tali sentenze contraddicono un orientamento più generale della giurisprudenza, applicato anche in materia fiscale (36), secondo cui una misura discriminatoria può essere giustificata solo in base a disposizioni derogatorie espressamente previste dal Trattato (37). Sarebbe utile che la Corte ponesse fine a tali incertezze (38).

34.   Prescindendo dalle considerazione di ordine pratico, ritengo che il principio di non discriminazione in base alla nazionalità non sia sufficiente a garantire tutti gli obiettivi implicati dall’instaurazione di un mercato interno. Questo è volto a garantire ai cittadini dell’Unione tutti i vantaggi inerenti all’esercizio effettivo delle libertà di circolazione. Esso costituisce quindi una delle dimensioni, quella transnazionale, della cittadinanza europea.

35.   Da tali considerazioni emerge l’esigenza di adottare in materia fiscale la stessa nozione di restrizione della libertà di stabilimento applicabile nelle altre materie. Di conseguenza, devono essere considerate restrizioni «tutte le misure che vietano, ostacolano o scoraggiano l’esercizio di tale libertà» (39). Tuttavia, permane la necessità di concretizzare questa nozione nell’ambito delle diverse libertà di circolazione (40), tenendo conto della natura particolare delle materie in cui esse hanno vocazione ad applicarsi.

36.   Nella fattispecie occorre quindi tenere conto del particolare rispetto che va garantito alle competenze fiscali degli Stati membri. Orbene, mi sembra che, a tale proposito, la giurisprudenza fornisca già strumenti di valutazione adeguati: da un lato, criteri di restrizione equilibrati e, dall’altro, una nozione di giustificazione fondata sulla coerenza dei regimi fiscali degli Stati membri (41).

3.      Criteri relativi alla restrizione della libertà di stabilimento

37.   In un mercato interno «caratterizzato dall’eliminazione, fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali» (42), gli Stati membri non possono più ignorare i vincoli che ne derivano in ordine alla definizione e all’applicazione delle loro politiche nazionali. In tale contesto, il compito della Corte non consiste nel contestare qualsiasi regola di origine statale che produca effetti indiretti o puramente aleatori sull’esercizio delle libertà di circolazione (43). Alla Corte non compete sindacare le scelte politiche operate dagli Stati membri. Il controllo giurisdizionale delle misure atte ad impedire, ostacolare o scoraggiare l’esercizio delle libertà di circolazione è diretto semmai a garantire che nell’operare tali scelte si tenga conto dell’impatto che esse possono avere sulle situazioni di natura transnazionale. Le politiche adottate non devono condurre a trattare le situazioni transnazionali in modo meno favorevole rispetto alle situazioni puramente interne. Mi pare che debbano essere questi l’obiettivo e l’ambito del suddetto controllo. Solo un’interpretazione di questo tipo può conciliare il principio del rispetto delle competenze degli Stati membri con la salvaguardia dell’obiettivo dell’instaurazione di un mercato interno in cui siano tutelati i diritti dei cittadini europei.

38.   Tale quadro interpretativo di per sé non fornisce un criterio concreto, applicabile nell’analisi delle restrizioni alle libertà di circolazione. Tuttavia, esso deve permettere di orientarsi nella configurazione e nell’interpretazione dei criteri adottati dalla Corte.

39.   Risulta peraltro che i vari criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte possano rientrare in tale quadro interpretativo. Ciò vale per il criterio di non discriminazione in base alla nazionalità (44), il criterio dei costi supplementari imposti ai cittadini comunitari (45) o ancora il criterio dell’accesso al mercato (46). Questi diversi criteri sono applicabili in circostanze diverse. Essi tuttavia perseguono il medesimo obiettivo, che ritengo sia il seguente: impedire che gli Stati membri istituiscano o mantengano misure che favoriscano gli scambi interni a detrimento degli scambi intracomunitari. Tale restrizione può assumere varie forme. Essa può consistere nell’effetto di una discriminazione che avvantaggia i cittadini nazionali. Può essere la conseguenza di una misura che protegge le posizioni acquisite dagli operatori economici stabiliti sul mercato nazionale, limitando l’ingresso di nuovi operatori. Tale restrizione può derivare, ancora, da una legislazione che renda gli scambi intracomunitari più difficili rispetto a quelli interni ad uno Stato membro (47).

40.   Mi sembra che la Corte faccia riferimento a tale restrizione degli scambi intracomunitari allorché censura «tutte le misure che vietano, ostacolano o scoraggiano l’esercizio delle libertà di circolazione». A tale proposito, ricordo che non tutte le limitazioni della libertà economica e commerciale costituiscono una restrizione all’esercizio delle libertà di circolazione (48). Questa, infatti, comporta sempre una forma di «discriminazione» risultante dal fatto che gli Stati membri configurano i loro provvedimenti senza tenere conto degli effetti che ne derivano sulle situazioni transnazionali. Il Trattato vieta solo quest’ultimo tipo di restrizioni.

B –    Applicazione dei criteri relativi alla restrizione della libertà di stabilimento

41.   Nella fattispecie, la legislazione fiscale britannica viene contestata per due motivi: da un lato, in quanto non concederebbe alle società controllanti che dispongono di filiali estere gli stessi vantaggi attribuiti alle società che dispongono di succursali estere e, dall’altro, in quanto svantaggerebbe i gruppi di società che desiderino stabilirsi all’estero rispetto ai gruppi aventi sede nel Regno Unito. Se si vogliono applicare correttamente i criteri adottati dalla Corte, occorre tenere nettamente distinte le due questioni.

1.      Sullo svantaggio connesso alla scelta della forma giuridica del centro di attività situato all’estero

42.   Una parte della prima questione sollevata dalla High Court of Justice nel caso di specie riguarda lo svantaggio derivante dal fatto che la M&S ha scelto di costituire negli altri Stati membri centri di attività in forma di filiali, anziché di succursali.

43.   Ricordo come la Corte abbia già ammesso che dalla libertà di stabilimento può discendere l’obbligo di non discriminare tra le diverse forme di stabilimento adottabili dagli operatori. Ciò è quanto emerge, in particolare, dalle sentenze Commissione/Francia (49), Royal Bank of Scotland (50) e Saint-Gobain ZN (51). Va tuttavia sottolineato che, in dette cause, la normativa nazionale controversa metteva sullo stesso piano, ai fini impositivi, le varie forme di stabilimento considerate.

44.   Nella prima causa, la normativa francese contestata riguardava le condizioni di attribuzione del credito d’imposta denominato «credito fiscale» ai percettori di dividendi distribuiti da società francesi. Orbene, è pacifico che il sistema francese non distingue, sotto il profilo delle condizioni e delle modalità di tassazione degli utili, tra le società francesi e le succursali e agenzie francesi di società straniere. Pertanto, in base al principio di territorialità dell’imposta, le due forme di stabilimento devono essere trattate allo stesso modo anche ai fini della concessione del credito fiscale. In tale contesto, la Corte ha dichiarato che la «libera scelta [della forma giuridica adeguata all’esercizio delle proprie attività economiche in un altro Stato membro] non dev’essere limitata da disposizioni fiscali discriminatorie» (52).

45.   Nella causa Royal Bank of Scotland, che verteva sulla legislazione greca relativa all’imposta sugli utili delle società, la Corte ha ricordato anzitutto che, «per quanto concerne le modalità di determinazione della base imponibile, la normativa fiscale ellenica, tra le società che hanno sede in Grecia e quelle che, pur avendo sede in un altro Stato membro, possiedono un centro di attività stabile in Grecia, non effettua una distinzione tale da dar vita ad una disparità di trattamento fra le due categorie di società». Anche se, in Grecia, le due categorie di società sono soggette ad obblighi fiscali diversi, è pacifico che le modalità di determinazione della base imponibile sono identiche. Pertanto, è vietata qualsiasi differenza tra le aliquote d’imposta e va respinto l’argomento incentrato sulla differenza di forma giuridica (53).

46.   Nella terza causa, Saint-Gobain ZN, la Corte ha deciso analogamente che «[l]a differenza di trattamento di cui sono oggetto le succursali di società non residenti rispetto alle società residenti e la limitazione della libertà di scegliere la forma del centro di attività secondario debbono considerarsi configurare un’unica violazione degli artt. 52 e 58 del Trattato» (54). La legislazione tedesca riservava alle società stabilite in Germania determinate agevolazioni fiscali nella tassazione delle partecipazioni o della distribuzione di dividendi, escludendo dal beneficio le società non aventi sede in detto Stato che possedevano succursali tedesche. Orbene, tale disparità di trattamento è discriminatoria in quanto, in relazione alla tassazione dei dividendi percepiti in Germania, le società residenti e quelle non residenti si trovano in situazioni obiettivamente equiparabili (55).

47.   Risulta chiaramente che, in tutte le ipotesi sopra indicate, la discriminazione relativa alla scelta della forma di stabilimento è indissociabile da una discriminazione in base alla scelta del luogo di stabilimento. Ciò discende dal fatto che lo Stato in questione ha scelto di mettere sullo stesso piano le varie forme di stabilimento ai fini della tassazione nel proprio territorio. Qualora, in tale contesto, si constatasse una disparità di trattamento, essa dissimulerebbe di fatto una discriminazione in base alla nazionalità nei confronti delle imprese che dispongono di tali organizzazioni.

48.   Nella causa ora in esame, alle succursali e filiali estere si applicano regimi fiscali distinti. Tuttavia, tale disparità di trattamento non è dovuta semplicemente al fatto che esse sono soggette ad obblighi fiscali diversi. Essa dipende dall’organizzazione stessa del sistema britannico di imposizione sulle società. In tale sistema, la differenza di trattamento fiscale è direttamente connessa alla scelta della forma giuridica del centro di attività secondario. I gruppi di società non hanno il diritto di accedere al regime di consolidamento fiscale applicabile ai redditi dei centri di attività permanenti. Sotto questo profilo, il sistema dello sgravio di gruppo, anche se costituisce un temperamento del principio dell’imposizione separata sulle società affiliate, non porta ad assimilare la situazione delle filiali a quella delle succursali. In base a tale regime, infatti, il trasferimento delle perdite è oggetto di un trattamento particolare; non esiste l’imposizione congiunta consolidata. Ciò discende dal fatto che le filiali sono comunque considerate entità giuridiche e fiscali indipendenti. Ne consegue che la disparità di trattamento tra le due categorie di centri di attività non consiste semplicemente nella perdita di un determinato vantaggio dovuta alla scelta di operare all’estero tramite filiali. Essa deriva da una differenza tra i regimi fiscali applicabili alle diverse forme di stabilimento.

49.   Orbene, le disposizioni relative alla libertà di stabilimento non ostano all’applicazione di un trattamento fiscale differenziato a persone fisiche o giuridiche che si trovino in situazioni giuridiche diverse. Tali disposizioni non hanno lo scopo d’imporre l’uniformità dei regimi applicabili alle diverse forme di centro di attività. In tale contesto, esse sono dirette unicamente a garantire la neutralità fiscale dell’esercizio del diritto di stabilimento nella Comunità. Qualunque altra soluzione condurrebbe a mettere in causa i regimi impositivi più vincolanti interni agli Stati membri, anche quando non fosse stata presa in considerazione una specifica situazione transnazionale. Non può essere questo l’obiettivo delle norme del Trattato relative alla libera circolazione.

50.   D’altro canto, è pacifico che la legislazione fiscale del Regno Unito non vieta ad una società britannica di operare negli altri Stati membri mediante filiali. Nella fattispecie, pertanto, l’unica questione pertinente è se il fatto di operare mediante filiali in un altro Stato membro determini per il gruppo e la società controllante stabilita nel Regno Unito uno svantaggio particolare che esse non subirebbero qualora scegliessero di costituire le loro filiali nel proprio paese di stabilimento.

2.      Sullo svantaggio connesso al luogo di stabilimento delle filiali

51.   Dalla giurisprudenza della Corte emerge che il diniego di un’agevolazione fiscale può essere considerato come una restrizione contraria al Trattato se risulta legato principalmente all’esercizio del diritto di stabilimento (56).

52.   Benché le questioni sollevate dal giudice a quo facciano riferimento unicamente alla situazione della società controllante, ricorrente nella causa principale, per pronunciarsi sulla compatibilità con la libertà di stabilimento di una legislazione come quella controversa occorre prendere in considerazione la situazione del gruppo. A tale proposito, è indubbio che l’applicazione del regime britannico dello sgravio di gruppo costituisce un’agevolazione fiscale per il gruppo che ne fruisce. Il vantaggio che ne deriva per la società richiedente, destinataria del trasferimento di perdite, è solo una conseguenza del vantaggio concesso al gruppo. Quest’ultimo ottiene la riduzione degli utili imponibili nel corso di un determinato esercizio fiscale. Orbene, per effetto della legislazione nazionale controversa, un gruppo il cui centro di attività principale sia stabilito nel Regno Unito e che desideri costituire filiali in un altro Stato membro rimane escluso da tale vantaggio. Tale esclusione, nelle circostanze del caso di specie, è dovuta unicamente al fatto che la M&S ha esercitato il diritto alla libertà di stabilimento.

53.   In tal caso, la restrizione può essere facilmente qualificata. Il tipo è noto alla giurisprudenza della Corte. Esso è stato esaminato in una serie di sentenze che ostano a qualsiasi misura di uno Stato membro che limiti l’esercizio, da parte dei cittadini di detto Stato, del diritto di stabilirsi liberamente nella Comunità (57). Nella fattispecie, il diniego controverso costituisce una «restrizione in uscita», caratterizzata da un trattamento sfavorevole imposto alle società che intendano creare filiali in altri Stati membri (58). In questa fase non importa sapere se le filiali della M&S traggano altri vantaggi dal fatto di essere stabilite negli Stati membri ospitanti. È sufficiente constatare che la legislazione britannica determina di per sé un ostacolo atto a dissuadere le società stabilite nel Regno Unito dal creare filiali in altri Stati membri.

54.   Pertanto non è necessario neppure stabilire se tale normativa costituisca una forma indiretta di discriminazione in base alla nazionalità. Una volta accertato che la misura controversa costituisce un ostacolo, non occorre chiedersi, come fanno le varie parti in causa, se le filiali non residenti, quando distribuiscono una parte dei loro utili alla società controllante, si trovino nei confronti di quest’ultima in una posizione equiparabile a quella delle filiali stabilite nel Regno Unito.

55.   Rimane invece da verificare se tale restrizione possa essere giustificata in forza del diritto comunitario. Secondo costante giurisprudenza, infatti, una misura restrittiva non è vietata dall’art. 43 CE se persegue uno scopo legittimo compatibile con il Trattato ed è giustificata da motivi imperativi d’interesse generale. Anche in tale ipotesi, però, essa deve risultare idonea a garantire il conseguimento dello scopo e non deve eccedere quanto necessario per farlo (59).

C –    Ricerca di una giustificazione per la misura restrittiva

56.   Va subito scartato l’argomento del governo tedesco secondo cui la presa in considerazione delle perdite da parte dello Stato membro interessato è inammissibile in quanto condurrebbe ad una riduzione del gettito fiscale e quindi a gravi difficoltà di bilancio per tale Stato. La Corte ha ripetutamente dichiarato che «la riduzione delle entrate tributarie non può essere considerata un motivo imperativo di interesse generale che possa essere fatto valere per giustificare un provvedimento che sia, in linea di principio, in contrasto con una libertà fondamentale» (60).

57.   Occorre invece esaminare in modo più approfondito gli argomenti basati sul rischio di una perdita di competenza o di controllo sul sistema fiscale dello Stato interessato. Vengono addotte due giustificazioni: una fondata sull’applicazione del principio fiscale di territorialità e l’altra sull’esigenza di garantire la coerenza del sistema fiscale britannico.

1.      Giustificazione fondata sul principio fiscale di territorialità

58.   Il governo del Regno Unito sostiene che il rifiuto di accordare l’agevolazione fiscale controversa risponde al principio di territorialità ammesso dalla prassi fiscale internazionale e riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte. A suo parere, tale principio escluderebbe che si possa offrire un vantaggio fiscale se non si dispone di potere impositivo. Se non sussiste il potere di tassare gli utili delle filiali che non hanno sede nel Regno Unito, non si può tenere conto delle perdite di tali filiali per offrire un vantaggio al gruppo cui esse appartengono. Ne consegue che lo sgravio può riguardare solo le società stabilite o che esercitano un’attività economica nel Regno Unito.

59.   Da tale ragionamento traspare un’interpretazione erronea del principio comunitario di territorialità. È vero che, nella sentenza Futura Participations e Singer (61), la Corte ha ammesso che il principio fiscale di territorialità è applicabile in diritto comunitario. In base a tale premessa, la Corte ha ritenuto che non comporti una discriminazione vietata dal Trattato il regime lussemburghese in base al quale il riporto delle perdite chiesto da un contribuente che dispone di una succursale in tale Stato membro senza esservi residente è subordinato all’esistenza di un nesso economico tra le perdite riportate e gli utili realizzati dal medesimo contribuente nello Stato di cui trattasi.

60.   Tuttavia, non si deve equivocare l’esatto significato che la Corte intende attribuire a tale principio. Essa riconosce semplicemente la necessità di tenere conto dei vincoli derivanti dalla coesistenza delle sovranità fiscali degli Stati membri (62). Tali vincoli impongono ad ogni Stato membro di accettare le sovranità fiscali concorrenti (63). Conformemente ad esigenze di diritto internazionale, l’esercizio della competenza fiscale degli Stati membri presuppone un collegamento con la nazionalità del soggetto passivo o con la localizzazione nel loro territorio dei redditi imponibili. Ne consegue che, se uno Stato può assoggettare i contribuenti residenti nel suo territorio ad un obbligo fiscale illimitato, esso può invece tassare i redditi dei contribuenti stranieri soltanto per la parte realizzata entro i suoi confini. Nella sentenza Royal Bank of Scotland, infatti, la Corte ha precisato che il fatto che le società stabilite in Grecia e le società non residenti che esercitano un’attività economica in detto Stato non siano soggette allo stesso obbligo fiscale deriva semplicemente «dalla sovranità fiscale limitata dello Stato in cui ha origine il reddito rispetto a quello dello Stato in cui ha sede la società» (64). Orbene, non è né lo scopo né la vocazione del diritto comunitario mettere in discussione i limiti inerenti a qualsiasi potere fiscale o alterare la ripartizione delle competenze fiscali tra gli Stati membri. Ricordo che, in mancanza di armonizzazione comunitaria, la Corte di giustizia non è competente ad intervenire nella configurazione e nell’organizzazione dei sistemi fiscali degli Stati membri (65).

61.   La citata causa Futura Participations e Singer riguardava l’organizzazione dell’imposta sui redditi lussemburghese. Nel sistema lussemburghese, i contribuenti possono detrarre le perdite dagli utili successivi. Orbene, in forza di norme consolidate di diritto internazionale, nessuno Stato membro può assoggettare ad imposta i redditi realizzati all’estero da soggetti passivi non residenti. Di conseguenza, il Lussemburgo negava a tali contribuenti la possibilità di detrarre le perdite originate all’estero. Detto Stato richiedeva che fossa provata l’esistenza di un nesso economico tra le perdite riportate e gli utili realizzati nello Stato della tassazione. Tale condizione era perfettamente giustificata. Essa derivava infatti dall’esigenza di coordinare il potere fiscale dello Stato della tassazione con quello dello Stato di stabilimento di un medesimo contribuente.

62.   Il principio fiscale di territorialità previene i conflitti di competenza tributaria tra gli Stati membri. Esso non può essere utilizzato per esentare gli Stati membri dagli obblighi loro imposti dal diritto comunitario. Il rispetto della sovranità fiscale non può essere interpretato, in diritto comunitario, come espressione di un principio di «autarchia fiscale». Sottoscrivendo il Trattato, gli Stati membri hanno accettato di assoggettarsi ad un regime di libera circolazione delle persone all’interno della Comunità, da cui derivano vincoli precisi. Detto regime, in particolare, impone agli Stati membri di prendere in considerazione le situazioni transnazionali ai fini dell’applicazione dei loro sistemi fiscali e di adattare tali sistemi di conseguenza.

63.   Pertanto, il Regno Unito non può sostenere che la concessione di un’agevolazione fiscale è subordinata all’esistenza di un corrispondente potere impositivo e alla possibilità di trarne un profitto. Tale interpretazione è contraria al principio fondamentale della libertà di stabilimento. In questa fase, occorre soltanto chiedersi se la concessione del vantaggio possa compromettere la coesistenza delle sovranità fiscali degli Stati membri. Orbene, nella fattispecie nulla osta a che il Regno Unito estenda il beneficio dello sgravio alle società controllanti che dispongono di filiali non residenti. Infatti, la domanda rientra nel quadro di un regime di gruppo adottato dal Regno Unito. Essa riguarda non l’imposizione su un unico soggetto passivo residente che esercita le proprie attività principali all’estero, bensì un trasferimento di perdite tra società appartenenti allo stesso gruppo (66). All’interno del gruppo, la domanda viene presentata dalla società controllante stabilita nel Regno Unito che è soggetta, in quanto tale, ad un obbligo fiscale illimitato in tale paese (67). Nei suoi confronti, la competenza fiscale di detto Stato membro non è limitata. Di conseguenza, il Regno Unito non può basarsi sul principio di territorialità per negare alla società di un gruppo stabilito nel suo territorio un’agevolazione connessa al trasferimento di perdite.

64.   Con tale argomento, in realtà, il Regno Unito sembra mirare a far ammettere che l’agevolazione non può essere concessa alla società controllante che ne fa richiesta se non è compensata dalla possibilità di assoggettare ad imposta la filiale cedente. Secondo lo stesso governo del Regno Unito, tale argomento, fondato sul principio di territorialità, si ricollega di fatto al principio della coerenza fiscale riconosciuto dalla Corte nella sentenza Bachmann, citata. La questione va quindi esaminata nell’ambito della seconda giustificazione addotta.

2.      Sulla giustificazione fondata sull’esigenza di garantire la coerenza del sistema fiscale

65.   La giurisprudenza della Corte ammette che l’esigenza di garantire la coerenza del sistema fiscale possa giustificare una normativa atta a limitare le libertà comunitarie (68).

66.   In diritto comunitario, la nozione di coerenza fiscale svolge un’importante funzione correttiva. Essa deve correggere gli effetti dell’estensione delle libertà comunitarie ai sistemi fiscali la cui organizzazione rientra, in linea di principio, nella competenza esclusiva degli Stati membri. Occorre infatti evitare che l’applicazione delle libertà di circolazione possa determinare perturbazioni ingiustificate alla logica interna dei regimi fiscali nazionali. Nelle parole della Corte, la configurazione del sistema fiscale «spetta a ciascuno Stato membro» (69). È quindi evidente che gli Stati membri hanno un interesse legittimo a garantire l’integrità e l’equità dei loro sistemi fiscali. Tuttavia, ciò non implica che la suddetta nozione possa essere utilizzata come argomento per opporsi agli obiettivi perseguiti nell’ambito del mercato interno. Non è ammissibile che un regime fiscale venga organizzato in modo da favorire situazioni od operatori nazionali. La coerenza fiscale ha quindi la funzione di tutelare l’integrità dei sistemi fiscali nazionali, ma non deve ostacolare l’integrazione di tali sistemi nel quadro del mercato interno.

67.   Questo delicato equilibrio può tradursi in una regola di «doppia neutralità». Da un lato, le norme tributarie nazionali devono essere neutre rispetto all’esercizio delle libertà di circolazione. A tale proposito, si deve ricordare che l’art. 43 CE impone la neutralità fiscale dello stabilimento delle imprese nella Comunità. D’altro lato, però, l’esercizio delle libertà di circolazione dev’essere il più neutro possibile rispetto ai meccanismi fiscali adottati dagli Stati membri. Il diritto di stabilimento non può essere utilizzato dagli operatori economici al solo scopo di mettere a rischio l’equilibrio e la coerenza dei regimi fiscali nazionali. Ciò si verificherebbe se tale diritto venisse esercitato per sottrarsi illecitamente alle legislazioni nazionali o per sfruttarne artificiosamente le divergenze (70). La nozione di coerenza fiscale è volta a garantire che i cittadini non utilizzino le disposizioni comunitarie per trarne vantaggi non connessi alle libertà di circolazione (71).

68.   In tale contesto, la Corte rammenta che «l’argomento basato sulla necessità di preservare la coerenza di un sistema tributario dev’essere accertata alla luce della finalità perseguita dalla normativa tributaria di cui trattasi» (72). Se, nella logica della normativa, esiste un nesso diretto e necessario tra la concessione di un’agevolazione e la compensazione della stessa attraverso un determinato prelievo fiscale, allora l’agevolazione può essere negata qualora non sia possibile effettuare tale prelievo compensativo. Nella sentenza Bachmann, citata, la Corte ha constatato che nella normativa belga esisteva un nesso diretto tra la deduzione dei contributi assicurativi e la tassazione degli importi dovuti dagli assicuratori in esecuzione dei contratti di assicurazione. Poiché il sig. Bachmann aveva sottoscritto contratti assicurativi in Germania, la cui esecuzione non poteva dare luogo ad un’imposizione in Belgio, era giustificato il rifiuto delle autorità fiscali belghe di concedere la deduzione dei contributi versati in forza di tali contratti.

69.   Qual è la situazione nella fattispecie? I governi che hanno presentato osservazioni sostengono unanimemente che sarebbe coerente concedere sgravi di gruppo solo qualora si potessero tassare i profitti delle società che partecipano allo sgravio. Sarebbe provato che nel regime in questione esiste un nesso tra lo sgravio concesso alla società richiedente e la possibilità di tassare gli utili della società cedente.

70.   La ricorrente nella causa principale contesta tale argomento. Essa si richiama ad una giurisprudenza costante della Corte, secondo cui un nesso diretto può esistere solo trattandosi di un unico prelievo fiscale e di un solo e stesso contribuente (73). Orbene, nella fattispecie manca un nesso di questo tipo. L’agevolazione concessa alle società controllanti e il prelievo che può essere imposto alle filiali riguardano contribuenti diversi e rientrano in regimi fiscali distinti (74).

71.   Se sono effettivamente questi i limiti entro i quali può essere fatto valere l’argomento della coerenza fiscale, è indubbio che, nel caso di specie, tale argomento dev’essere respinto. Tuttavia ci si deve interrogare in merito a quest’interpretazione della nozione di coerenza fiscale. Come ha osservato l’avvocato generale Kokott nelle conclusioni relative alla causa Manninen, citata, tale concezione più recente della coerenza fiscale poggia su criteri troppo rigidi, che non sempre risultano pertinenti rispetto all’obiettivo perseguito dalle normative in causa (75). Ne deriva che il margine di discrezionalità concesso agli Stati membri per giustificare i loro regimi fiscali è eccessivamente ridotto. Ritengo pertanto necessario, come raccomanda l’avvocato generale Kokott, mitigare tali criteri. A tal fine, propongo di attenersi al criterio dello scopo della normativa controversa. La coerenza dev’essere valutata anzitutto alla luce della finalità e della logica del regime fiscale in discussione.

72.   Orbene, ricordo che lo scopo del regime britannico dello sgravio di gruppo è neutralizzare, sotto il profilo fiscale, gli effetti della costituzione di un gruppo di società. Essa non deve comportare svantaggi particolari in relazione alle regole generali vigenti in materia di imposte sulle società. Lo strumento per conseguire tale risultato consiste nell’autorizzazione a far circolare le perdite all’interno di un gruppo. Tuttavia, ciò significa anche che non deve derivarne un vantaggio supplementare per il gruppo stesso. Si spiega così il divieto di utilizzare due volte le perdite cedute. Il regime di cui trattasi stabilisce dunque una correlazione, a livello di gruppo, fra il trasferimento delle perdite in seno al medesimo gruppo e l’impossibilità di utilizzare le stesse perdite a fini fiscali. Le perdite vengono trasferite da una società a vantaggio di un’altra, e in cambio la società cedente perde il diritto di utilizzare nuovamente tali perdite nell’ambito del sistema di imposte sulle società. Si suppone che il vantaggio concesso alla richiedente venga neutralizzato dal prelievo che deve ripercuotersi sulla cedente.

73.   Di conseguenza, incombe al Regno Unito dimostrare che il rifiuto sistematico di tenere conto delle perdite delle filiali estere, nell’ambito del suo regime di gruppo, è idoneo a preservare questa logica.

74.   A tale proposito, è evidente che, se le perdite delle filiali estere possono essere trasferite o riportate nello Stato di stabilimento, il fatto di concedere uno sgravio nel Regno Unito potrebbe mettere a rischio l’obiettivo del regime di gruppo. Infatti, il trasferimento o il riporto di tali perdite nello Stato di stabilimento potrebbe arrecare un vantaggio equivalente al gruppo nel suo complesso. Da ciò potrebbe derivare una doppia contabilizzazione delle perdite a favore del gruppo. Orbene, tale vantaggio sarebbe contrario alla neutralità perseguita dal regime in questione. In tal caso, risulterebbe giustificato il divieto di detrarre le perdite subite all’estero dagli utili della società controllante.

75.   Si deve però verificare se tale rischio sussista. Lo Stato membro interessato non può vietare qualsiasi trasferimento di perdite solo perché non può assoggettare ad imposta le filiali estere. Se così fosse, la restrizione applicata andrebbe molto al di là di quanto necessario per tutelare la coerenza del regime di gruppo. Invero, tale restrizione perseguirebbe anche obiettivi estranei alla logica del regime, quali proteggere il gettito dello Stato membro interessato o favorire i gruppi che esercitano tutte le loro attività economiche nel territorio di detto Stato. Tali obiettivi sarebbero in ogni caso contrari al diritto comunitario.

76.   In circostanze come quelle del caso di specie, pertanto, occorre che lo Stato membro tenga conto del trattamento applicabile alle perdite delle filiali nel loro Stato di stabilimento (76). La giustificazione fondata sulla coerenza del regime di sgravio può essere accolta solo se le perdite subite all’estero possono essere assoggettate ad un trattamento equivalente nello Stato in cui si sono prodotte.

77.   Tale soluzione, basata sul confronto e sull’equivalenza dei trattamenti applicati in vari Stati membri, è già stata sviluppata dalla Corte in materia di prestazioni sanitarie nell’ambito di regimi nazionali di sicurezza sociale (77). Ritengo che essa sia perfettamente applicabile in materia fiscale, in cui valgono le medesime premesse (78). L’effetto utile dell’art. 43 CE implica quindi che le autorità competenti a concedere l’agevolazione fiscale di cui trattasi nella fattispecie tengano conto dei vantaggi che possono derivare dalla normativa dello Stato in cui sono stabilite le filiali del gruppo (79). Se è coerente che in determinati casi lo sgravio di gruppo possa essere negato, è quanto meno necessario che tale rifiuto si giustifichi e si fondi sulla presa in considerazione delle situazioni in cui si trovano le filiali nel loro Stato di stabilimento.

78.   Il Regno dei Paesi Bassi, tuttavia, solleva un’obiezione contro questa tesi. Esso afferma che l’autorizzazione al trasferimento delle perdite subite all’estero nell’ambito dei regimi di gruppo adottati dagli Stati membri potrebbe determinare uno sconvolgimento generale dei regimi nazionali. Si potrebbe prevedere che i gruppi di società ricorreranno sistematicamente al trasferimento delle perdite e che quest’ultimo sarà diretto esclusivamente verso le società del gruppo stabilite negli Stati membri in cui le aliquote d’imposta sono più elevate. Ciò avverrebbe perché, in tali Stati, le perdite trasferite registrano un valore più elevato. Si dovrebbe quindi paventare lo sviluppo di un verosimile «traffico delle perdite» a livello comunitario (80). Tale soluzione finirebbe con il minacciare non solo l’affidabilità dei regimi di sgravio di gruppo, ma anche l’equilibrio di bilancio degli Stati interessati. Essa minerebbe alle fondamenta i loro sistemi economici e sociali.

79.   Si tratta indubbiamente di un rischio che non va trascurato. Tuttavia, non lo si deve neanche sopravvalutare. La soluzione può essere agevolmente tratta dalla regola secondo cui lo sgravio può essere concesso a condizione che le perdite delle filiali estere non possano essere oggetto di un trattamento fiscale favorevole nel paese in cui esse hanno sede. Quando lo Stato di stabilimento delle filiali estere consente a queste ultime di imputare le perdite ad un soggetto diverso o di riportarle ad altri esercizi fiscali, il Regno Unito può legittimamente opporsi alla domanda di trasferimento transfrontaliero di tali perdite. Lo sgravio va quindi chiesto nello Stato di stabilimento. Ne consegue che le società non sono libere di scegliere il luogo in cui registrare le proprie perdite.

80.   Tale condizione può essere giustificata in forza dell’art. 43 CE. È infatti legittimo attribuire priorità alle norme dello Stato di stabilimento se esse prevedono un trattamento equivalente delle perdite del gruppo. Da un lato, è pacifico che lo stabilimento, il quale implica «di partecipare, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro» (81), determina specifiche restrizioni alle quali in linea di principio l’operatore economico rimane assoggettato (82). Se il trattamento delle perdite è equivalente per il gruppo, le suddette restrizioni non ledono la libertà di stabilimento. In tali circostanze, le disparità di trattamento che possono derivarne per il gruppo non hanno altra origine se non le disparità esistenti tra le normative tributarie nazionali. D’altro lato, una condizione del genere può consentire di mantenere la coerenza e l’integrità dei sistemi fiscali nazionali che concedono sgravi di gruppo.

81.   Si potrebbe obiettare che sarebbe troppo difficile per il Regno Unito verificare se esista la possibilità di ottenere uno sgravio in un altro Stato membro. A tale proposito, si deve ricordare che gli Stati membri dispongono di strumenti di cooperazione rafforzata ai sensi della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1977, 77/799/CEE, relativa alla reciproca assistenza fra le autorità degli Stati membri nel settore delle imposte dirette (83). Conformemente a tale direttiva, le autorità competenti di uno Stato membro possono chiedere alle autorità competenti di un altro Stato membro di fornire tutte le informazioni utili per stabilire l’importo esatto dell’imposta sulle società. Di fatto, tale strumento di cooperazione amministrativa «offre possibilità di ottenere informazioni necessarie analoghe a quelle esistenti fra gli uffici tributari sul piano interno» (84). Inoltre non è escluso che lo Stato membro interessato possa imporre ad una società che presenti una domanda di sgravio di gruppo un obbligo di informazione in merito alla situazione fiscale del gruppo cui essa appartiene e in particolare alla possibilità di tenere conto delle perdite delle filiali nello Stato in cui sono stabilite. In tal caso, tuttavia, si deve accertare che tali richieste non eccedano quanto necessario per conseguire lo scopo informativo perseguito (85).

IV – Risultati dell’analisi

82.   Da quest’analisi emerge che gli artt. 43 CE e 48 CE non ostano alla legislazione di uno Stato membro, come quella in discussione nella causa principale, che vieta ad una società controllante che disponga di filiali in altri Stati membri di trarre vantaggio dal regime applicabile alle società che possiedono succursali estere. Dette disposizioni ostano invece alla legislazione di uno Stato membro, quale quella in discussione nella causa principale, nella misura in cui essa privi una società stabilita in tale Stato membro del diritto di fruire di uno sgravio di gruppo in quanto le sue filiali hanno sede in altri Stati membri, mentre tale diritto potrebbe essere esercitato qualora le dette filiali fossero stabilite o esercitassero un’attività economica nel territorio di tale Stato. Tuttavia, le medesime disposizioni non ostano ad una legislazione nazionale che subordini l’esercizio del diritto al suddetto sgravio alla prova che le perdite delle filiali stabilite in altri Stati membri non sono assoggettabili ad un trattamento fiscale equivalente in tali Stati. Preciso che il trattamento in questione può assumere la forma di un trasferimento delle perdite a terzi o di una detrazione delle stesse da parte del medesimo soggetto passivo in un altro esercizio fiscale.

83.   Questa soluzione appare indubbiamente complessa. Si tratta di una soluzione che obbliga le autorità dello Stato membro interessato a tenere conto della situazione fiscale di società che non hanno sede nel suo territorio. Ritengo, tuttavia, che solo una soluzione di questo tipo, in mancanza di armonizzazione comunitaria, consenta di mantenere un equilibrio tra le competenze fiscali riservate agli Stati membri e le esigenze di libertà derivanti dal mercato interno. In tali circostanze, non spetta alla Corte definire un regime uniforme per tutti gli Stati membri, trovandone il modello in uno dei sistemi tributari nazionali o in un’eventuale proposta delle istituzioni comunitarie. Alla Corte spetta semplicemente delimitare gli obblighi imposti allo Stato membro interessato dalla partecipazione alla Comunità.

V –    Conclusione

84.   Alle luce delle suesposte considerazioni, propongo alla Corte di risolvere nei termini seguenti le questioni sottopostele dalla High Court of Justice (England & Wales), Chancery Division (Regno Unito):

«1)      Gli artt. 43 CE e 48 CE ostano alla legislazione fiscale di uno Stato membro, quale quella oggetto della causa principale, che vieta ad una società controllante stabilita in uno Stato membro di esercitare il diritto ad uno sgravio di gruppo per il fatto che le sue filiali sono stabilite in altri Stati membri, laddove tale sgravio verrebbe concesso qualora le filiali avessero sede nel suddetto Stato.

2)      Le medesime disposizioni non ostano ad una legislazione nazionale che subordini il diritto ad uno sgravio di gruppo, quale quello previsto dallo Stato membro in questione nella causa principale, alla prova che le perdite delle filiali stabilite in altri Stati membri non possono essere assoggettate ad un trattamento fiscale equivalente in tali Stati».


1 – Lingua originale: il portoghese.


2  – Direttiva 90/435/CEE (GU L 225, pag. 6).


3  – Come la Corte ha ricordato nella sentenza 18 settembre 2003, causa C-168/01, Bosal (Racc. pag. I-9409, punto 22).


4  – Si deve ricordare che già nel 1969 la Commissione delle Comunità europee aveva proposto un regime di utili consolidati che tenesse conto delle perdite delle filiali di Stati membri diversi (proposta di direttiva del Consiglio concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e filiali di Stati membri diversi; GU 1969, C 39, pag. 7).


5  – 91/C 53/03 (GU 1991, C 53, pag. 30). Secondo tale proposta, si possono prevedere due metodi, sia per le filiali che per le organizzazioni stabili: il metodo della detrazione delle perdite con successiva reintegrazione, che consente di dedurre dagli utili imponibili dell’impresa le perdite subite dalle organizzazioni secondarie stabilite in altri Stati membri, a condizione che gli utili di queste ultime siano successivamente reintegrati nei risultati dell’impresa fino a concorrenza delle perdite dedotte, o il metodo della contabilizzazione, che consiste nell’integrare tutti i risultati delle organizzazioni estere in quelli dell’impresa.


6  – Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo e al Comitato economico e sociale europeo – Un mercato interno senza ostacoli inerenti alla tassazione delle società: risultati, iniziative in corso e problemi ancora da risolvere [COM(2003) 726 def.].


7  – V., per analogia, a proposito dell’art. 39 CE, sentenza 28 gennaio 1992, causa C-204/90, Bachmann (Racc. pag. I-249, punto 11). V. anche sentenze 28 gennaio 1986, causa 270/83, Commissione/Francia (Racc. pag. 273, punto 24), e 9 dicembre 1981, causa 193/80, Commissione/Italia (Racc. pag. 3019, punto 17).


8  – V., ad esempio, sentenze 15 maggio 1997, causa C-250/95, Futura Participations e Singer (Racc. pag. I-2471); 16 luglio 1998, causa C-264/96, ICI (Racc. pag. I-4695); 18 novembre 1999, causa C-200/98, X e Y (Racc. pag. I-8261), e 14 dicembre 2000, causa C-141/99, AMID (Racc. pag. I-11619).


9  – In tal senso, v. sentenze 13 luglio 1993, causa C-330/91, Commerzbank (Racc. pag. I-4017); 29 aprile 1999, causa C-311/97, Royal Bank of Scotland (Racc. pag. I-2651); 21 settembre 1999, causa C-307/97, Saint-Gobain ZN (Racc. pag. I-6161); 8 marzo 2001, cause riunite C-397/98 e C-410/98, Metallgesellschaft e a. (Racc. pag. I-1727), e Bosal, cit. alla nota 3.


10  – Costituisce un caso a parte il regime «CFC» («controlled foreign companies»), che consente, in via eccezionale e a determinate condizioni, di includere gli utili delle filiali estere tra quelli della società controllante registrata nel Regno Unito, all'infuori di eventuali operazioni di distribuzione di dividendi. L’applicazione di tale normativa è in discussione in una causa ancora pendente dinanzi alla Corte (causa C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas).


11  – Sentenza cit. alla nota 8.


12  – Sui particolari della riforma, v. J. J. B. Hickley, «Worldwide Groups and UK Taxation after the Finance Act 2000», European Taxation, 2000, pag. 466.


13  – Causa C-279/93 (Racc. pag. I-225, punto 21). V., da ultimo, sentenza 7 settembre 2004, causa C-319/02, Manninen (Racc. pag. I-0000, punto 19).


14  – Sentenza 11 marzo 2004, causa C-9/02, De Lasteyrie du Saillant (Racc. pag. I-0000, punto 40).


15  – Sentenza Saint-Gobain ZN, cit. alla nota 9 (punto 34).


16  – Sentenza Bachmann, cit. alla nota 7 (punto 23).


17  – Sentenza Saint-Gobain ZN, cit. alla nota 9 (punto 57). V. anche sentenza 21 marzo 2002, causa C-451/99, Cura Anlagen (Racc. pag. I-3193, punto 40).


18  – V., per analogia, a proposito di norme tecniche, sentenza 14 luglio 1994, causa C-379/92, Peralta (Racc. pag. I-3453, punto 34). V. anche, in materia fiscale, sentenza 12 maggio 1998, causa C-336/96, Gilly (Racc. pag. I-2793, punto 47).


19  – In tal senso v. sentenza 28 giugno 1978, causa 1/78, Kenny (Racc. pag. 1489, punto 18). Nel nuovo contesto dei diritti connessi alla cittadinanza europea, v., nello stesso senso, sentenza 15 luglio 2004, causa C-365/02, Lindfors (Racc. pag. I-0000, punto 34).


20  – V., in generale, sentenza 27 febbraio 1985, causa 55/83, Italia/Commissione (Racc. pag. 683, punto 11).


21  – La nozione di situazioni transnazionali viene qui preferita a quella di situazioni od operazioni transfrontaliere per i motivi che ho esposto ai paragrafi 46 e segg. delle conclusioni relative alla causa C-72/03, Carbonati Apuani, decisa con sentenza 9 settembre 2004 (Racc. pag. I-0000).


22  – Nelle parole della Corte, l’art 43 CE «mira essenzialmente ad attuare, nel campo delle attività non subordinate, il principio dell’uguaglianza di trattamento sancito dall’art. [12 CE]» (sentenza Royal Bank of Scotland, cit. alla nota 9, punto 21).


23  – V., ad esempio, sentenze 21 giugno 1974, causa 2/74, Reyners (Racc. pag. 631, punto 16), e 18 giugno 1985, causa 197/84, Steinhauser (Racc. pag. 1819, punto 14). Nelle conclusioni presentate il 18 aprile 1991 nella causa C-288/89, Collectieve Antennevoorziening Gouda, decisa con sentenza 25 luglio 1991 (Racc. pag. I-4007), l’avvocato generale Tesauro deduce altresì dalla giurisprudenza della Corte che il divieto di discriminazioni basate sulla nazionalità gioca un ruolo «assoluto e conclusivo» in materia di diritto di stabilimento (paragrafo 13).


24  – In tal senso v., in particolare, sentenza Schumacker, cit. alla nota 13 (punto 26).


25  – Causa C-19/92 (Racc. pag. I-1663, punto 32).


26  – V., in tal senso, paragrafo 17 delle conclusioni presentate dall’avvocato generale Léger nella causa C-80/94, Wielockx, decisa con sentenza 11 agosto 1995 (Racc. pag. I-2493).


27  – Sentenza ICI, cit. alla nota 8 (punto 21). V. anche sentenza 27 settembre 1988, causa 81/87, Daily Mail e General Trust (Racc. pag. 5483, punto 16).


28  – V., tra l’altro, sentenze X e Y, cit. alla nota 8 (punto 27); Bosal, cit. alla nota 3 (punto 27); AMID, cit. alla nota 8 (punto 23); De Lasteyrie du Saillant, cit. alla nota 14 (punto 45), e, in materia di libera circolazione dei capitali, sentenze 6 giugno 2000, causa C-35/98, Verkooijen (Racc. pag. I-4071, punto 34); Manninen, cit. alla nota 13 (punto 22), e 15 luglio 2004, causa C-315/02, Lenz (Racc. pag. I-0000, punto 20).


29  – In tal senso v. paragrafo 21 delle conclusioni dell’avvocato generale Fennelly nella causa C-190/98, Graf, decisa con sentenza 27 gennaio 2000 (Racc. pag. I-493).


30  – Su questo punto v. l’analisi critica di P. J. Wattel, «The EC Court’s Attempts to Reconcile the Treaty Freedoms with International Tax Law», Common Market Law Review, 1996, pag. 223.


31  – Ad esempio, il modello di convenzione fiscale dell’OCSE relativo al reddito e al patrimonio, nella versione pubblicata il 29 aprile 2000, dispone, all’art. 24, n. 1, che «i cittadini di uno Stato contraente non sono soggetti nell’altro Stato contraente ad alcuna imposizione né ad alcun obbligo ad essa relativo, diverso o più oneroso di quelli cui possono essere assoggettati i cittadini dell’altro Stato che si trovano nella medesima situazione, in particolare per motivi legati alla residenza».


32  – Sentenza Schumacker, cit. alla nota 13 (punto 37). Nello stesso senso v. sentenze Wielockx, cit. alla nota 26, e 27 giugno 1996, causa C-107/94, Asscher (Racc. pag. I-3089).


33  – In tal senso v. B. J. M. Terra e P. J. Wattel, European Tax Law, Deventer, 3a edizione, 2001, pag. 46.


34  – V., da ultimo, sentenza 1° luglio 2004, causa C-169/03, Wallentin (Racc. pag. I-0000, punto 15).


35  – Conclusioni presentate nella causa Wielockx, cit. alla nota 26 (paragrafo 31, v. giurisprudenza ivi richiamata). Nello stesso senso v. paragrafo 49 delle conclusioni dell’avvocato generale Tesauro nella causa C-120/95, Decker, decisa con sentenza 28 aprile 1998 (Racc. pag. I-1831).


36  – V., ad es., sentenza Royal Bank of Scotland, cit. alla nota 9 (punto 32). Nelle conclusioni relative a detta causa, tuttavia, l’avvocato generale Alber spiega la giurisprudenza a cui si fa riferimento alla nota precedente con il fatto che le misure in discussione costituivano discriminazioni indirette. Per principio, le discriminazioni dirette non possono essere giustificate da motivi imperativi di interesse generale (paragrafo 39).


37  – V., in primo luogo, in materia di libera circolazione delle merci, sentenza 17 giugno 1981, causa 113/80, Commissione/Irlanda (Racc. pag. 1625, punto 11). È vero però che, in questo stesso settore, la giurisprudenza della Corte ha fornito esempi di ragionamenti che si discostano da tale principio: v., in materia di rifiuti, sentenza 9 luglio 1992, causa C-2/90, Commissione/Belgio (Racc. pag. I-4431).


38  – A tale proposito, v. osservazioni svolte dall’avvocato generale Jacobs nelle conclusioni relative alla causa C-136/00, Danner, decisa con sentenza 3 ottobre 2002 (Racc. pag. I-8147).


39  – V., da ultimo, sentenza 5 ottobre 2004, causa C-442/02, CaixaBank France (Racc. pag. I-0000, punto 11), e ordinanza 17 febbraio 2005, causa C-250/03, Mauri (Racc. pag. I-0000, punto 40).


40  – A favore di un criterio speciale in materia di libertà di stabilimento v. J. Mischo: «Les restrictions à la liberté d’établissement: la nécessité d’une clarification», Mélanges en hommage à F. Schockweiler, Nomos, Baden-Baden, 1999, pag. 445.


41  – V. paragrafi 65 e segg. delle presenti conclusioni.


42  – Art. 3, n. 1, lett. c), CE.


43  – Nello stesso senso v. conclusioni presentate dall’avvocato generale Tizzano nella causa CaixaBank France, cit. alla nota 39.


44  – V., ad es., sentenza Commissione/Francia, cit. alla nota 7.


45  – V., ad es., sentenza 6 luglio 1995, causa C-470/93, Mars (Racc. pag. I-1923).


46  – V., ad es., sentenza CaixaBank France, cit. alla nota 39.


47  – V., ad es., in materia di libera prestazione dei servizi, sentenza 26 giugno 2001, causa C-70/99, Commissione/Portogallo (Racc. pag. I-4845, punti 25-27).


48  – In tal senso v. sentenza 24 novembre 1993, cause riunite C-267/91 e C-268/91, Keck e Mithouard (Racc. pag. I-6097); conclusioni dell’avvocato generale Tesauro nella causa C-292/92, Hünermund e a., decisa con sentenza 15 dicembre 1993 (Racc. pag. I-6787), e conclusioni dell’avvocato generale Tizzano nella causa CaixaBank France, cit. alla nota 39 (paragrafi 62 e 63).


49  – Cit. alla nota 7.


50  – Cit. alla nota 9.


51  – Cit. alla nota 9.


52  – Sentenza Commissione/Francia, cit. alla nota 7 (punto 22).


53  – Sentenza Royal Bank of Scotland, cit. alla nota 9 (punti 29 e 30).


54  – Sentenza Saint-Gobain, cit. alla nota 9 (punto 43).


55  – Punto 48.


56  – V. anche sentenze 13 aprile 2000, causa C-251/98, Baars (Racc. pag. I-2787, punti 30 e 31), e Asscher, cit. alla nota 32 (punto 42).


57  – In tal senso v. sentenze 31 gennaio 1984, cause riunite 286/82 e 26/83, Luisi e Carbone (Racc. pag. 377); 7 luglio 1988, causa 143/87, Stanton (Racc. pag. 3877); Daily Mail e General Trust, cit. alla nota 27; 7 luglio 1992, causa C-370/90, Singh (Racc. pag. I-4265); 26 gennaio 1999, causa C-18/95, Terhoeve (Racc. pag. I-345), e 11 luglio 2002, causa C-224/98, D’Hoop (Racc. pag. I-6191).


58  – V. conclusioni dell’avvocato generale Tesauro nella causa ICI, cit. alla nota 8 (paragrafo 18).


59  – Sentenza Futura Participations e Singer, cit. alla nota 8 (punto 26).


60  – V., in particolare, sentenza Manninen, cit. alla nota 13 (punto 49).


61  – Cit. alla nota 8.


62  – Sui limiti della sovranità fiscale degli Stati membri, v. anche sentenza Gilly, cit. alla nota 18 (punto 48).


63  – «Lo Stato politicamente e fiscalmente sovrano può quindi esercitare un potere fiscale assoluto all’interno del suo territorio, che costituisce una sorta di riserva di caccia; esso può in particolare decidere che coesistano su tale territorio due o più sistemi fiscali dotati di un’autonomia più o meno ampia e i cui rapporti siano definiti, se del caso, mediante convenzioni o accordi di puro diritto interno. Per contro, lo Stato non può esercitare alcun potere fiscale al di fuori del proprio territorio. Tali sono gli aspetti positivi e negativi della nozione di sovranità fiscale» (G. Gest e G. Texier, Droit fiscal international, PUF, Parigi, 2a edizione, 1990, pag. 17).


64  – Cit. alla nota 9 (punto 29).


65  – V. sentenza Bachmann, cit. alla nota 7 (punto 23).


66  – Nello stesso senso v. sentenza Bosal, cit. alla nota 3 (punti 38-40).


67  – Nello stesso senso v. sentenza Manninen, cit. alla nota 13 (punto 38).


68  – Sentenze Bachmann, cit. alla nota 7, e 28 gennaio 1992, causa C-300/90, Commissione/Belgio (Racc. pag. I-305).


69  – Sentenza Bachmann, cit. alla nota 7 (punto 23).


70  – V., in particolare, conclusioni dell’avvocato generale Fennelly nella causa Metallgesellschaft e a., cit. alla nota 9.


71  – In altre parole, si tratta di evitare che i «free movers» si trasformino, grazie alle libertà conferite dall’obiettivo del mercato interno, in «free riders» (v. A. Cordewener, M. Dahlberg, P. Pistone, E. Reimer e C. Romano: «The Tax Treatment of Foreign Losses: Ritter, M & S, and the Way Ahead», European Taxation, 2004, pag. 221).


72  – Sentenza Lenz, cit. alla nota 28 (punto 37).


73  – V., in particolare, sentenza Bosal, cit. alla nota 3 (punto 30, e giurisprudenza ivi richiamata).


74  – V., mutatis mutandis, sentenza Bosal, cit. alla nota 3 (punto 31).


75  – Nelle conclusioni relative a tale causa, cit. alla nota 13, l’avvocato generale Kokott rammenta che, in seguito alla sentenza Bachmann, cit. alla nota 7, la Corte ha limitato la nozione di coerenza fiscale (paragrafo 53). Ne consegue che «attenersi strettamente al requisito dello stesso contribuente può portare a volte a risultati arbitrari» (paragrafo 57 ed esempi richiamati ai paragrafi successivi).


76  – Per un ragionamento analogo, v. sentenza Manninen, cit. alla nota 13 (punto 54), e conclusioni dell’avvocato generale Fennelly nella causa Metallgesellschaft e a., cit. alla nota 9 (paragrafo 32).


77  – In tal senso v. anche sentenze 23 ottobre 2003, causa C-56/01, Inizan (Racc. pag. I-12403), e 12 luglio 2001, causa C-157/99, Smits e Peerbooms (Racc. pag. I-5473).


78  – Vale a dire: competenze riservate degli Stati membri, assenza di armonizzazione comunitaria, obblighi derivanti dalle libertà fondamentali del diritto comunitario (v. paragrafi 21-24 delle presenti conclusioni).


79  – V., per analogia, conclusioni dell’avvocato generale Lenz nella causa C-1/93, Halliburton Services, decisa con sentenza 12 aprile 1994 (Racc. pag. I-1137, paragrafo 40).


80  – L’espressione è di J.-C. Goldsmith, «Intégration et consolidation des résultats en droit fiscal comparé (à propos de la fiscalité des groupes de sociétés et des sociétés à vocation internationale)», La Semaine juridique (édition commerce et industrie), 1971, pag. 456.


81  – Sentenza 30 novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard (Racc. pag. I-4165, punto 25).


82  – In tal senso v. sentenza Peralta, cit. alla nota 18 (punto 52).


83  – GU L 336, pag. 15. Tale direttiva è stata recentemente modificata dalla direttiva del Consiglio 21 aprile 2004, 2004/56/CE (GU L 127, pag. 70).


84  – Sentenza Schumacker, cit. alla nota 13 (punto 45).


85  – Sentenza Futura Participations e Singer, cit. alla nota 8 (punto 36).