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CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

L.A. GEELHOED

presentate il 29 giugno 2006 1(1)

Causa C-524/04

Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation

contro

Commissioners of Inland Revenue

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla High Court of Justice (Chancery Division) (Regno Unito)]

(Interpretazione degli artt. 43 , 49 e 56 CE – Normativa fiscale nazionale – Possibilità per una società stabilita nel territorio nazionale di dedurre ai fini fiscali gli interessi pagati su un prestito concesso dalla sua società capogruppo – Situazione differenziata a seconda dello Stato in cui sia stabilita la società capogruppo)





I –    Introduzione

1.        Il presente procedimento, un rinvio pregiudiziale della High Court of Justice of England and Wales, verte sulla compatibilità con le disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione delle norme britanniche sulla cosiddetta «piccola capitalizzazione», come modificate a più riprese, con cui il Regno Unito limita la deducibilità degli interessi pagati dalle società controllate britanniche alle società capogruppo o alle società intermedie del gruppo non residenti.

2.        Il caso in esame pone ancora una volta la questione della compatibilità con le disposizioni in materia di libera circolazione della normativa fiscale nazionale in materia di imposte dirette volta a prevenire gli abusi, questione già sollevata, in particolare, nella sentenza Lankhorst-Hohorst del 2002 (relativa alle norme tedesche in materia di piccola capitalizzazione) e nella causa Cadbury Schweppes, tuttora pendente (vertente sulla normativa britannica relativa alle società controllate estere) (2). Tuttavia, dopo la sentenza Lankhorst-Hohorst, i limiti alle restrizioni ammissibili alla piccola capitalizzazione non sono apparsi del tutto chiari, il che ha indotto alcuni Stati membri – compresi il Regno Unito e la Germania – ad ampliare la loro normativa in materia di piccola capitalizzazione ai pagamenti infragruppo nazionali, sebbene nelle situazioni meramente interne non sussista alcun rischio potenziale di «abuso». Per tale motivo, e dato che la normativa britannica controversa presenta differenze rilevanti rispetto alla normativa tedesca impugnata nella causa Lankhorst-Hohorst, la presente causa richiede un esame ex novo della questione.

II – Ambito normativo

A –    Normativa britannica applicabile

1.      Contesto e ratio delle disposizioni sulla «piccola capitalizzazione»

3.        Esistono due strumenti principali per finanziare le imprese: i prestiti e il capitale proprio. Molti Stati membri mantengono distinte queste due forme di finanziamento ai fini dell’applicazione delle imposte dirette. In caso di finanziamento mediante i prestiti, in linea di massima è consentito alle società, ai fini del calcolo degli utili imponibili (cioè al lordo dell’imposta), di dedurre gli interessi sui prestiti nel presupposto che questi costituiscano una spesa corrente sostenuta nell’ambito dell’attività economica. In caso di finanziamento con capitale proprio, invece, alle società non è permesso dedurre i dividendi pagati agli azionisti dagli utili al lordo d’imposta; pertanto, i dividendi vengono pagati con i profitti al netto d’imposta.

4.        Tale disparità di trattamento implica che, nell’ambito di un gruppo societario, per una società controllante può risultare vantaggioso finanziare una società del gruppo con prestiti anziché mediante capitale proprio. L’incentivo fiscale ad agire in tal senso risulta particolarmente evidente se la controllata ha sede in un paese in cui vi è un livello d’imposizione relativamente elevato, mentre la capogruppo (o una società intermedia del gruppo che eroga il prestito) è situata in un paese in cui vige un livello d’imposizione inferiore. In tali circostanze, ciò che costituisce in sostanza un investimento mediante capitale proprio può essere presentato sotto forma di prestito al fine di ottenere un trattamento fiscale più favorevole. Tale fenomeno viene denominato «piccola capitalizzazione». Agendo sulle modalità di finanziamento, una capogruppo può di fatto scegliere il luogo in cui desidera che siano tassati i propri utili.

5.        Molti Stati, ritenendo illegittima la piccola capitalizzazione, hanno adottato misure intese ad impedire tale abuso. Generalmente, le misure in questione prevedono che i prestiti rispondenti a determinati requisiti debbano essere considerati, ai fini fiscali, quali capitali azionari dissimulati. Ciò significa che il pagamento di interessi viene riqualificato come distribuzione di utili, per cui la controllata non può dedurli né in tutto né in parte dal proprio reddito imponibile e il pagamento degli interessi viene assoggettato alle disposizioni applicabili all’imposizione fiscale sui dividendi (3).

2.      Normativa britannica applicabile fino al 1995

6.        L’art. 209, n. 2, lett. d), della legge relativa all’imposta sui redditi e sulle persone giuridiche del 1988 (Income and Corporation Taxes Act 1988; in prosieguo: il «TA») stabiliva che qualsiasi interesse pagato da una società su un prestito che eccedesse una ragionevole remunerazione commerciale del prestito dovesse essere considerato quale una distribuzione di utili per la parte eccedente tale remunerazione (4). La suddetta disposizione si applicava senza distinzioni a pagamenti effettuati a società mutuanti residenti e non residenti. Ciò significava che nel calcolo dei profitti imponibili della società l’importo eccedente non era deducibile come interesse, ma veniva considerato come una distribuzione effettuata con gli utili al netto d’imposta. Il fatto che l’interesse fosse considerato come una distribuzione significava, inoltre, che la società, provvedendo a tale distribuzione, aveva l’obbligo di procedere al versamento anticipato dell’imposta sulle società («advance corporation tax»; in prosieguo: l’«ACT») (5).

7.        Conformemente all’art. 209, n. 2, lett. e), punti iv) e v), del TA, qualsiasi interesse diverso dagli interessi già considerati come distribuzione di utili in base all’art. 209, n. 2, lett. d), pagato a qualsiasi società mutuante non avente sede nel Regno Unito che fosse membro dello stesso gruppo di società (come definito), era considerato come una distribuzione. In particolare, la suddetta disposizione si applicava ai prestiti concessi da una società non avente sede nel Regno Unito a una società con sede in detto Stato controllata al 75% dalla società mutuante, o se entrambe le società erano controllate al 75%, da una terza società non avente sede nel Regno Unito. Di conseguenza, in forza della normativa britannica applicabile fino al 1995 – a prescindere dall’effetto delle convenzioni bilaterali in materia di doppia imposizione («CDI») applicabili, che esaminerò in prosieguo – gli interessi pagati da una società con sede nel Regno Unito a un’altra società non residente del gruppo (come definito) erano sempre considerati come dividendi, anche laddove l’interesse rappresentava una ragionevole remunerazione commerciale del prestito.

8.        Le disposizioni di alcune convenzioni in materia di doppia imposizione concluse dal Regno Unito impedivano l’applicazione delle suddette norme dell’art. 209 del TA e assicuravano che in talune circostanze fosse concesso dedurre gli interessi dall’imponibile. Tali disposizioni prevalevano sulle norme nazionali contrarie (6). Benché le disposizioni di tali convenzioni siano diverse l’una dall’altra, il giudice nazionale afferma nell’ordinanza di rinvio che esse ricadono grosso modo in due categorie.

9.        La prima categoria di disposizioni si incentra sulla questione se il tasso d’interesse sia commerciale rispetto all’importo del debito. Esse non richiedono che l’importo del debito stesso sia commerciale. Tali disposizioni sono rinvenibili ad esempio nelle convenzioni con il Lussemburgo, il Giappone, la Germania, la Spagna e l’Austria. Così, ad esempio, l’art. 11, n. 7, della convenzione in materia di doppia imposizione stipulata tra il Regno Unito e il Lussemburgo dispone che «qualora, in virtù di un rapporto particolare intercorrente tra il soggetto pagatore e quello beneficiario del pagamento, o tra essi e un terzo, l’importo degli interessi pagati, considerato il debito sul quale tale interesse viene corrisposto, superi l’importo che sarebbe stato concordato tra il soggetto pagatore e quello beneficiario in assenza del suddetto rapporto (…) la parte eccedente dei pagamenti rimane soggetta ad imposta in base alle leggi di ciascuno Stato contraente, tenendo debitamente conto delle altre disposizioni della presente convenzione».

10.      La seconda categoria di disposizioni comporta un’indagine più generica sulla questione se l’importo dell’interesse ecceda per una qualsiasi ragione quanto verrebbe pagato in normali condizioni di mercato. Ciò include l’ipotesi in cui l’importo del prestito ecceda quello che sarebbe stato concesso in normali condizioni di mercato. Disposizioni siffatte si trovano ad esempio nelle convenzioni con gli Stati Uniti, l’Irlanda, la Svizzera, i Paesi Bassi, la Francia e l’Italia. Così, ad esempio, l’art. 11, n. 5, della CDI tra il Regno Unito e gli Stati Uniti dispone che «qualora, in virtù di un rapporto particolare intercorrente tra il soggetto che paga gli interessi e quello che li percepisce, o tra essi e un terzo, l’importo degli interessi ecceda per qualsiasi motivo l’importo che sarebbe stato pagato in mancanza di tale rapporto (…) la parte eccedente dei pagamenti rimane soggetta ad imposta in base alle leggi di ciascuno Stato contraente, tenendo debitamente conto delle altre disposizioni della presente convenzione».

11.      Il più esteso campo di applicazione della seconda categoria di disposizioni delle convenzioni in materia di doppia imposizione è confermata dall’art. 808 A, n. 2, del TA (7), secondo cui, nel determinare se esista un siffatto «rapporto particolare», si deve tener conto di tutti i fattori, tra cui la questione se il prestito sarebbe stato concesso, l’entità dello stesso e il tasso d’interesse applicato in mancanza del suddetto rapporto. Con riguardo a entrambe le categorie di convenzioni, l’art. 808 A, n. 3, prevede che la disposizione sul rapporto particolare dev’essere interpretata nel senso che impone al contribuente di dimostrare l’insussistenza di alcun rapporto particolare o (a seconda dei casi) di indicare l’importo dell’interesse che sarebbe stato pagato in assenza del rapporto particolare. Tali disposizioni si applicano agli interessi pagati successivamente al 14 maggio 1992.

3.      Gli emendamenti del 1995

12.      L’art. 209, n. 2, lett. e), punti iv) e v), del TA è stato abrogato dal Finance Act 1995 e sostituito dall’art. 209, da), del TA, il quale disponeva, in sostanza, che gli interessi pagati tra società dello stesso gruppo (come definito) eccedenti l’importo che sarebbe stato pagato in normali condizioni di mercato (8) doveva essere considerato quale distribuzione di utili. Tale disposizione si applica quando la società mutuataria sia controllata al 75% da quella mutuante, o quando entrambe siano controllate al 75% da una terza società.

13.      Ai sensi dell’art. 212, nn. 1 e 3, del TA, come modificato, l’art. 209, n. 2, da), del TA non è applicabile se il soggetto che versa gli interessi e quello che li percepisce sono assoggettati all’imposta sulle società britannica.

14.      L’art. 209, n. 8 B, specifica i criteri da utilizzare per stabilire se gli interessi pagati debbano essere considerati quali distribuzioni di utili. Tali criteri sono: un adeguato livello di indebitamento complessivo del mutuatario; se il mutuatario e un determinato soggetto avrebbero prevedibilmente concluso una transazione che comportasse la prestazione di una garanzia da parte della società mutuataria o la concessione di un prestito, o di un prestito di un determinato importo, a detta società, e il tasso d’interesse nonché le altre condizioni che sarebbero state normalmente applicate a un’operazione dello stesso tipo. L’art. 209, n. 8 A, nel combinato disposto con l’art. 209, n. 8 D-8 F, stabilisce il limite entro il quale le società possono essere raggruppate al fine di stimare i livelli dei loro prestiti su base consolidata. Sostanzialmente, le disposizioni non consentono un siffatto consolidamento di sottogruppo britannici diversi che facciano parte di un più ampio gruppo estero. La capacità di prestito di ciascun sottogruppo britannico è considerata distintamente (9).

4.      Gli emendamenti del 1998

15.      L’allegato 28 AA del TA, introdotto dal Finance Act 1998, stabilisce un dettagliato codice di regole sui prezzi dei trasferimenti, che si applicano anche ai pagamenti di interessi. Le regole relative ai prezzi dei trasferimenti si applicano 1) quando vi sia una «provvista frutto di una transazione», o di una serie di transazioni, tra due società soggette a un controllo comune. In tal senso, il controllo comprende la partecipazione diretta o indiretta all’amministrazione, al controllo o al capitale di ogni società interessata (10); 2) le condizioni della provvista siano diverse da come avrebbero potuto essere se le società non fossero state soggette a un controllo comune; e 3) la provvista conferisca a una delle persone interessate un potenziale vantaggio in relazione al regime tributario britannico. In tal caso, i profitti e le perdite delle persone potenzialmente avvantaggiate «si calcolano a fini fiscali come se al posto della provvista reale fosse stata effettuata o imposta una provvista in normali condizioni di mercato» (11).

16.      Si riteneva che la provvista non conferisse un vantaggio potenziale alle persone interessate qualora, inter alia, l’altra parte fosse soggetta all’imposta britannica sui redditi o sulle persone giuridiche, e sussistessero talune altre condizioni. Tali condizioni comportavano che 1) la persona non avesse diritto ad alcuna esenzione dalle imposte sui redditi o sulle persone giuridiche in relazione ad alcuna parte del reddito o dei profitti soggetti ad imposta (12); 2) detta persona fosse soggetta all’imposta sui redditi in relazione ai profitti derivanti da tali attività e fosse residente nel Regno Unito nei periodi in cui era soggetta all’imposta medesima (13); 3) l’interessato non avesse diritto (14) a crediti nel periodo in questione su imposte estere o in relazione a profitti derivanti dalle attività considerate, né avesse diritto a crediti d’imposta nel periodo in questione se tali profitti esistevano o erano superiori a un determinato importo (15); e 4) gli importi presi in considerazione ai fini del calcolo dei profitti o delle perdite dell’interessato derivanti dalle attività considerate nel periodo in questione non includessero un reddito il cui importo avesse subito un abbattimento in forza dell’art. 811, n. 1, del TA (deduzione di imposte estere nei casi in cui non fossero concessi crediti d’imposta).

17.      Tali regole sono state modificate dal Finance Act 2004 in modo tale che si applicano quando entrambe le parti della transazione sono soggette al regime tributario britannico.

III – Contesto di fatto del rinvio pregiudiziale

18.      La controversia del gruppo «Thin Cap» verte su domande di rimborso e/o risarcimento di svantaggi e altre conseguenze fiscali negative subite per effetto del regime britannico della piccola capitalizzazione sopra descritto. Tali domande sono state proposte alla High Court of Justice of England and Wales in seguito alla sentenza della Corte nella causa Lankhorst-Hohorst, che ha dichiarato incompatibili con l’art. 43 CE le norme tedesche sulla piccola capitalizzazione applicabili all’epoca della sentenza (16). Ai fini del presente rinvio pregiudiziale, i casi pilota sono stati selezionati per rappresentare diverse strutture di gruppi societari e vi è consenso tra le parti sui fatti pertinenti. In tutti i casi pilota vi è una consociata con sede nel Regno Unito controllata almeno al 75%, direttamente o indirettamente, da una società capogruppo non avente sede nel Regno Unito e alla mutuataria è stato anticipato un prestito dalla società capogruppo o da un’altra società non avente sede nel Regno Unito, anch’essa controllata al 75%, direttamente o indirettamente, dalla società capogruppo. Pertanto, le questioni pregiudiziali sono state formulate in base ai fatti relativi a un’operazione colpita in un caso pilota, quello del gruppo Lafarge, e alle modalità con cui gli altri casi pilota differiscono da esso.

A –    Gruppo Lafarge: fatti pertinenti

19.      La Lafarge SA, società a capitale pubblico con sede in Francia, è la capogruppo suprema di un gruppo multinazionale di società che produce materiali edili. I membri interessati del Gruppo Lafarge ai presenti fini comprendono: 1) la Financière Lafarge SA (la società mutuante), che ha sede in Francia ed è interamente controllata, indirettamente, dalla capogruppo Lafarge SA, e 2) la Lafarge Building Materials Limited, con sede nel Regno Unito, che rappresenta la società holding capogruppo per la maggior parte delle controllate appartenenti al gruppo Lafarge che hanno sede nel Regno Unito ed è a sua volta controllata direttamente dalla Financière Lafarge (17). La domanda riguarda anche altre nove società ricorrenti del gruppo Lafarge, tutte aventi sede nel Regno Unito e controllate direttamente o indirettamente dalla Lafarge Building Materials (detentrice di oltre il 50% del capitale azionario di tali società).

20.      Nel dicembre 1997, il gruppo Lafarge acquistava le azioni della Redland plc, una società con sede nel Regno Unito. Per finanziare tale acquisizione, la Financière Lafarge aveva potuto ricorrere a varie agevolazioni creditizie – di cui era garante ultima la Lafarge SA – presso banche esterne al gruppo Lafarge, che le consentivano di anticipare finanziamenti in prestito a società nell’ambito del gruppo o dalle quali controllate autorizzate potevano ottenere direttamente fondi. In particolare, per finanziare l’acquisizione della Redland, la Financière Lafarge concedeva un prestito a breve termine alla Lafarge Building Materials, che a sua volta concedeva un prestito analogo a un’altra società del gruppo Lafarge, la Minerals UK. In totale, con tale prestito (ossia, tramite la Financière Lafarge e la Lafarge Building Materials) veniva coperto circa il 50% del prezzo di acquisto del pacchetto azionario della Redland, mentre il rimanente 50% veniva coperto dalla Mineral UK attingendo direttamente alle linee di credito del gruppo Lafarge con le banche esterne. La maggior parte di tali finanziamenti diretti veniva rimborsata nel 1998 mediante prestiti concessi dalla Lafarge SA alla Minerals UK, in seguito al rifinanziamento delle proprie agevolazioni creditizie da parte della Lafarge SA e della Financière Lafarge per mezzo di un’emissione di obbligazioni volte ad ottenere migliori condizioni di finanziamento.

21.      Dopo essere stato informato dai propri consulenti tributari britannici, a seguito del completamento dell’acquisizione della Redland, quanto al fatto che le autorità tributarie britanniche avrebbero considerato almeno parte degli interessi pagati per tali prestiti dalla Lafarge Building Materials quali distribuzioni ai sensi dell’art. 209, n. 2, da, del TA, intorno al marzo 1998il gruppo Lafarge riduceva l’indebitamento della Lafarge Building Materials nei confronti della Financière Lafarge, convertendo circa il 75% dell’importo allora anticipato in capitale sociale. Ciò veniva realizzato mediante la distribuzione di nuovo capitale azionario della Lafarge Building Materials alle società del gruppo Lafarge; la maggioranza delle azioni andava alla Financière Lafarge. I pagamenti di tali azioni venivano successivamente destinati alla compensazione del debito, di importo equivalente, della Lafarge Building Materials nei confronti della Financière Lafarge.

22.      Nel marzo 1999, l’Inland Revenue del Regno Unito iniziava a svolgere indagini sull’acquisizione della Redland. L’Inland Revenue non accoglieva la tesi della Lafarge secondo cui una banca terza avrebbe normalmente concesso simili anticipazioni a condizioni analoghe a quelle esistenti tra la Financière Lafarge e la Lafarge Building Materials, e tra la Minerals UK e la Lafarge SA. L’Inland Revenue sosteneva che una parte degli interessi avrebbe dovuto essere qualificata come distribuzione ai sensi dell’art. 209, n. 2, da, del TA. In seguito ad altri incontri tra l’Inland Revenue e i consulenti della Lafarge, veniva raggiunto un accordo a termini del quale parte degli interessi pagati dalla Financière Lafarge alla Lafarge Building Materials e dalla Minerals UK alla Lafarge SA sarebbero stati riqualificati come distribuzioni, in particolare qualora un determinato rapporto tra il debito netto complessivo e il reddito di esercizio al lordo d’imposta avesse superato taluni valori limite.

B –    Altre ricorrenti nei casi pilota: fatti pertinenti

23.      Gli altri casi pilota scelti ai fini del presente rinvio pregiudiziale riguardano i gruppi di società di seguito indicati.

24.      Il primo ulteriore caso pilota riguarda il gruppo Volvo, tra le cui società interessate ai presenti fini rientrano 1) la AB Volvo, la società capogruppo quotata in borsa di proprietà pubblica con sede in Svezia; 2) la Volvo Treasury AB, società con sede in Svezia direttamente e interamente posseduta e controllata dalla AB Volvo; 3) la Volvo Truck and Bus Limited, società con sede nel Regno Unito interamente posseduta e controllata, indirettamente, dalla AB Volvo tramite società intermedie con sede in Svezia e nei Paesi Bassi; (4) la VFS Financial Services (UK) Limited, società con sede nel Regno Unito interamente posseduta e controllata, indirettamente, dalla AB Volvo attraverso società intermedie con sede in Svezia. In particolare, il caso pilota riguarda un finanziamento concesso nell’ottobre 1999 dalla Volvo Treasury alla Volvo Truck and Bus in base a una convenzione di prestito. In circostanze analoghe a quelle del caso del gruppo Lafarge descritte in precedenza, nel dicembre 1999 parte di tale debito veniva convertita in capitale sociale della Volvo Truck and Bus. Nel 2000, il gruppo Volvo concordava con l’Inland Revenue le condizioni alle quali gli interessi pagati non sarebbero stati riqualificati come distribuzioni.

25.      Il secondo ulteriore caso pilota riguarda il gruppo PepsiCo, tra le cui società interessate ai presenti fini rientrano 1) la PepsiCo Inc, la società capogruppo con sede negli Stati Uniti; 2) la PepsiCo Finance Europe Limited, società di diritto britannico con sede in Lussemburgo, operante in Svizzera tramite una filiale ed interamente posseduta e controllata, indirettamente, dalla PepsiCo Inc tramite società holding intermedie con sede in Irlanda e in altri paesi terzi; 3) la PepsiCo Holdings, società con sede nel Regno Unito interamente posseduta e controllata, indirettamente, dalla PepsiCo Inc tramite società intermedie con sede in Stati membri e in paesi terzi. A partire dal 1999, la PepsiCo Finance Europe erogava prestiti tramite la propria filiale svizzera alla PepsiCo Holdings; il pagamento dei relativi interessi era soggetto alla CDI tra Regno Unito e Lussemburgo del 1968.

26.      Gli ulteriori terzo e quarto caso pilota riguardano il gruppo Caterpillar, il quale ha proposto domande che sono state distinte in due diversi tipi di casi pilota.

27.      Ai fini del terzo ulteriore caso pilota, tra le società interessate del gruppo Caterpillar rientrano 1) la Caterpillar Inc, la capogruppo con sede negli Stati Uniti; (2) la Caterpillar International Finance plc, società con sede in Irlanda interamente posseduta e controllata, indirettamente, dalla Caterpillar Inc tramite società holding intermedie con sede nel Regno Unito o negli Stati Uniti (società holding di cui fa parte la Caterpillar Financial Services Corporation con sede negli Stati Uniti); 3) la Caterpillar Financial Services (UK) Ltd, società con sede nel Regno Unito interamente posseduta e controllata, indirettamente, dalla Caterpillar Inc tramite società holding intermedie con sede nel Regno Unito o negli Stati Uniti fra cui la Caterpillar Financial Services Corporation. In particolare, la Caterpillar International Finance ha concesso un prestito alla Caterpillar Financial Services (UK), i cui interessi erano soggetti alla CDI tra il Regno Unito e l’Irlanda del 1976.

28.      Ai fini del quarto caso pilota, tra le società interessate del gruppo Caterpillar rientrano 1) la Caterpillar Inc; 2) la Caterpillar Overseas SA, società con sede in Svizzera e, a seconda del periodo considerato, interamente posseduta e controllata, direttamente o indirettamente, dalla Caterpillar Inc. Nei periodi in cui la società era controllata indirettamente, le società holding intermedie avevano sede negli Stati Uniti; 3) la Caterpillar Peterlee Limited, società con sede nel Regno Unito interamente posseduta e controllata, indirettamente, dalla Caterpillar Inc tramite società holding intermedie con sede nel Regno Unito. In particolare, la Caterpillar Overseas ha concesso un prestito alla Caterpillar Peterlee, i cui interessi erano soggetti alla CDI tra il Regno Unito e la Svizzera del 1977.

IV – Questioni pregiudiziali e procedimento dinanzi alla Corte

29.      Il 21 dicembre 2004, previo accordo sui fatti dei casi pilota, il procedimento principale è stato sospeso e sono state sottoposte alla Corte le seguenti questioni:

«1.      Se gli artt. 43 CE, 49 CE o 56 CE ostino a che uno Stato membro (lo “Stato della società mutuataria”) mantenga in vigore e applichi disposizioni quali quelle di cui agli artt. 209 e 212 e all’allegato 28 AA dell’[ICTA; in prosieguo: le “disposizioni nazionali”] che impongono restrizioni alla possibilità per una società residente in tale Stato membro (la “società mutuataria”) di dedurre a fini fiscali interessi su prestiti concessi da una società controllante, in via diretta o indiretta, residente in un altro Stato membro, qualora, laddove la società controllante avesse avuto sede nello Stato della società mutuataria, quest’ultima non avrebbe subito restrizioni.

2.      Se, ai fini della soluzione alla questione sub 1) vi sia differenza, ed eventualmente quale, qualora:

a)      il prestito venga concesso non dalla società controllante della società mutuataria, bensì da un’altra società (“la società mutuante”) appartenente allo stesso gruppo societario, la quale abbia in comune con la società mutuataria la stessa società controllante, in via diretta o indiretta, e sia la comune società controllante sia la società mutuante abbiano sede in Stati membri diversi dallo Stato membro della società mutuataria;

b)      la società mutuante sia residente in uno Stato membro diverso da quello della società mutuataria, ma tutte le società controllanti, in via diretta o indiretta, comuni alla società mutuataria e alla società mutuante abbiano sede in un paese terzo;

c)      tutte le società controllanti, in via diretta o indiretta, comuni alla società mutuante e alla società mutuataria abbiano sede in paesi terzi e la società mutuante abbia sede in uno Stato membro diverso da quello della società mutuataria, ma eroghi il prestito alla società mutuataria attraverso una filiale situata in un paese terzo;

d)      la società mutuante e tutte le società controllanti, in via diretta o indiretta, comuni alla società mutuante e alla società mutuataria abbiano sede in paesi terzi.

3.      Se la soluzione alle questioni sub 1) e 2) sarebbe diversa qualora si provasse che il prestito costituiva un abuso di diritto ovvero era parte di una costruzione artificiosa intesa a eludere la legislazione fiscale dello Stato membro della società mutuataria; in tal caso, quali indicazioni ritenga opportuno fornire la Corte di giustizia riguardo all’individuazione degli elementi costitutivi di un abuso di diritto o di una costruzione artificiosa del genere in casi come quello di specie.

4.      Qualora risultasse accertata una restrizione ai movimenti di capitali tra Stati membri e paesi terzi contemplata dall’art. 56 CE, se tale restrizione esistesse al 31 dicembre 1993 ai fini dell’applicazione dell’art. 57 CE.

5.      Se, nell’ipotesi in cui le fattispecie cui si riferiscono le questioni sub 1) o 2) violino gli artt. 43 CE, 49 CE o 56 CE, le seguenti domande proposte dalla società mutuataria o da altre società appartenenti al suo stesso gruppo (“le ricorrenti”):

a)      domanda di rimborso dell’imposta sulle società pagata in eccedenza dalla società mutuataria a seguito del mancato riconoscimento della deducibilità dagli utili soggetti all’imposta sulle società dell’interesse versato alla società mutuante, mentre il versamento di tale interesse sarebbe stato considerato deducibile dagli utili della società mutuataria se la società mutuante avesse avuto sede nel suo stesso Stato;

b)      domanda di rimborso dell’imposta sulle società pagata in eccedenza dalla società mutuataria nel caso in cui l’intero importo dell’interesse sul prestito sia stato effettivamente versato alla società mutuante, ma il diritto alla deduzione relativamente a tale interesse sia stato limitato in forza della normativa nazionale o dell’applicazione datane dall’autorità tributaria;

c)      domanda di rimborso dell’imposta sulle società pagata in eccedenza dalla società mutuataria nel caso in cui l’importo dell’interesse sui prestiti della società mutuante deducibile dagli utili della società mutuataria sia stato ridotto a causa della sottoscrizione di capitale proprio anziché di capitale esterno, o a causa dell’impiego di capitale proprio al posto di capitale esterno esistente, in forza della normativa nazionale o dell’applicazione datane dall’autorità tributaria;

d)      domanda di rimborso dell’imposta sulle società pagata in eccedenza dalla società mutuataria nel caso in cui l’importo dell’interesse sui prestiti della società mutuante deducibile dagli utili della società mutuataria sia stato ridotto in seguito alla riduzione del tasso d’interesse applicabile al prestito (o essendo il prestito stato reso infruttifero), in forza della normativa nazionale o dell’applicazione datane dall’autorità tributaria;

e)      domanda di ripetizione o di compensazione per perdite, o altri sgravi fiscali o crediti d’imposta, della società mutuataria (o a questa ceduti a tale società da altre società del suo stesso gruppo e con sede nel suo stesso Stato), utilizzati da quest’ultima per compensare quanto pagato in eccedenza a titolo di imposta sulle società, ai sensi dei precedenti punti sub a), b) o c), qualora tali perdite, sgravi e crediti sarebbero stati altrimenti disponibili per un uso diverso o riportabili;

f)      domanda di rimborso di un anticipo dell’imposta sulle società non utilizzato versato dalla società mutuataria sui pagamenti di interessi effettuati a favore della società mutuante, che sono stati riqualificati come dividendi;

g)      domanda di ripetizione o di compensazione relativamente ad importi pagati a titolo di anticipi d’imposta sulle società nelle circostanze di cui al precedente punto sub f), ma successivamente compensati con i debiti relativi all’imposta sulle società della società mutuataria;

h)      domanda di compensazione per costi e spese sopportati dalle ricorrenti per conformarsi alla normativa nazionale e all’applicazione datane dall’autorità tributaria;

i)      domanda di ripetizione o di compensazione per la perdita di utile sul capitale esterno investito quale capitale proprio (o convertito in capitale proprio) nelle circostanze descritte sub c); e

j)      domanda di ripetizione o di compensazione per tutti gli oneri fiscali che abbiano gravato sulla società mutuante nel suo Stato di residenza in relazione alla presunta o ascritta ricezione di interessi dalla società mutuataria riqualificata come una distribuzione di utili in forza delle disposizioni citate nella questione sub 1),

debbano essere qualificate, in base al diritto comunitario, quali:

–      domande di ripetizione o di rimborso di somme indebitamente tassate, conseguenti e complementari alla violazione delle suddette disposizioni comunitarie, o

–      domande di compensazione o di risarcimento danni, o

–      domande per il pagamento di una somma rappresentante un beneficio indebitamente negato.

6.      Nell’ipotesi in cui qualsivoglia parte della questione sub 5) venga risolta nel senso che le domande devono essere qualificate come domande di pagamento di una somma rappresentante un beneficio indebitamente negato:

a)      se tali domande siano conseguenti e complementari al diritto conferito dalle suddette disposizioni comunitarie, o

b)      se tutte o alcune delle condizioni per il risarcimento stabilite nella sentenza [5 marzo 1996, cause riunite C 46/93 e C 48/93, Brasserie du Pêcheur e Factortame (Racc. pag. I-1029)], debbano essere soddisfatte, o

c)      se debbano essere soddisfatti altri requisiti.

7.      Se rilevi il fatto che le domande di cui alla questione sub 6), come disciplinate dal diritto nazionale, siano proposte quali domande di rimborso o siano o debbano essere proposte quali domande di risarcimento danni.

8.      Quali indicazioni, se del caso, ritiene opportuno fornire la Corte di giustizia nel caso di specie riguardo alle circostanze di cui il giudice nazionale dovrebbe tener conto nel determinare se sussista una violazione grave e manifesta nel senso della [citata] sentenza Brasserie du Pêcheur e Factortame, con particolare riferimento alla questione se, tenuto conto dell’orientamento della giurisprudenza sull’interpretazione delle disposizioni comunitarie rilevanti, la violazione fosse scusabile.

9.      Se, in linea di principio, possa rinvenirsi un nesso causale diretto (ai sensi della sentenza [citata] Brasserie du Pêcheur e Factortame) fra una violazione degli artt. 43 CE, 49 CE e 56 CE e danni rientranti nelle categorie indicate nella questione sub 5), lett. a)-h), asseritamente da essa derivanti; in caso di soluzione affermativa, quali indicazioni, se del caso, ritiene opportuno fornire la Corte di giustizia in ordine alle circostanze di cui il giudice nazionale dovrebbe tener conto nell’accertamento della sussistenza di tale nesso causale diretto.

10.      Se, nell’accertamento del danno risarcibile, il giudice nazionale possa tener conto della questione se le persone lese abbiano dato prova di aver agito con ragionevole diligenza al fine di evitare il danno subito o limitarne l’entità, in particolare avvalendosi esse stesse di rimedi giuridici che avrebbero potuto stabilire che le disposizioni nazionali non avevano l’effetto (a causa dell’applicazione di convenzioni contro la doppia imposizione) di imporre le restrizioni descritte nella questione sub 1). Se sulla soluzione a tale questione possano incidere le convinzioni che le parti avevano all’epoca riguardo agli effetti delle convenzioni contro la doppia imposizione».

30.      Hanno presentato osservazioni scritte, ai sensi dell’art. 23 dello Statuto della Corte di giustizia, le ricorrenti nei casi pilota, i governi britannico e tedesco e la Commissione. Il 31 gennaio 2006 ha avuto luogo un’udienza, in cui hanno presentato oralmente le proprie tesi le parti e il governo dei Paesi Bassi.

V –    Analisi

A –    Disposizioni del Trattato pertinenti

31.      Considerato che il giudice nazionale ha sollevato il problema della compatibilità della normativa britannica pertinente con le disposizioni del Trattato concernenti la libertà di stabilimento, la libera circolazione dei servizi e la libera circolazione dei capitali, (artt. 43, 49 e 56 CE), la prima questione da esaminare riguarda l’individuazione delle disposizioni tra quelle citate alle quali occorra valutare la normativa controversa. Tale questione è rilevante per due motivi. In primo luogo, mentre gli artt. 43 e 49 CE si applicano solo alle restrizioni all’esercizio della libertà di stabilimento e alla libera circolazione dei servizi tra gli Stati membri, l’art. 56 CE differisce anche le restrizioni alla circolazione dei capitali tra gli Stati membri e i paesi terzi. In secondo luogo, l’ambito di applicazione ratione temporis dell’art. 56 CE è diverso da quello degli artt. 43 e 49 CE; in particolare, l’art. 56 CE è entrato in vigore ed è divenuto effettivo il 1° gennaio 1994, ed è soggetto a una clausola di standstill (art. 57 CE) per quanto riguarda i paesi terzi (anche se il principio della libera circolazione dei capitali era già stato sancito dalla direttiva del Consiglio 88/361) (18).

32.      Per quanto riguarda, anzitutto, l’art. 43 CE, secondo costante giurisprudenza della Corte, si avvale del proprio diritto di stabilimento una società stabilita in uno Stato membro che detenga nel capitale di una società stabilita in un altro Stato membro una partecipazione tale da conferirle una «sicura influenza sulle decisioni della società» e da consentirle di «indirizzarne le attività» (19).

33.      Nella presente causa, ritengo che la normativa britannica pertinente, in base al testo di ciascuna delle sue versioni modificate presentate alla Corte, si applichi solo alle fattispecie in cui una società eserciti (o esercitasse all’epoca dei fatti) una sicura influenza sulle decisioni di un’altra società ai sensi della giurisprudenza della Corte. Pertanto, nella versione della normativa vigente fino agli emendamenti del 1995, l’art. 209, n. 2, lett. e), si applicava, in particolare, ai prestiti concessi da una società non avente sede nel Regno Unito a una società con sede in tale Stato controllata al 75% dalla società mutuante, o nei casi in cui entrambe le società fossero controllate al 75% da una terza società non avente sede nel Regno Unito (vale a dire, quando il prestito veniva concesso tramite un’altra controlla della società capogruppo). Tale condizione di applicabilità è rimasta inalterata dopo gli emendamenti introdotti dal Finance Act 1995 (20).

34.      La situazione è stata parzialmente modificata dal Finance Act 1998, che ha fatto ricadere le operazioni precedentemente soggette alle specifiche regole sulla piccola capitalizzazione nell’ambito di applicazione delle regole britanniche generali in materia di prezzi di trasferimento. Tuttavia, queste ultime si applicano solo se esiste una provvista frutto di una transazione realizzata o imposta tra due società soggette allo stesso controllo, ossia se una di tali società partecipa direttamente o indirettamente alla gestione, al controllo o al capitale dell’altra parte, o se lo stesso soggetto partecipa direttamente o indirettamente alla gestione, al controllo o al capitale di entrambe le società (21). A mio parere, tale condizione è di per sé sufficiente per ritenere che sia soddisfatto, ai fini della presente indagine, il criterio della «sicura influenza». Ad ogni modo, i casi pilota riguardano tutti una società con sede nel Regno Unito controllata, direttamente o indirettamente, almeno al 75% da una società capogruppo non avente sede nel Regno Unito, o da un’altra società non avente sede nel Regno Unito anch’essa controllata al 75%, direttamente o indirettamente, dalla società capogruppo. Infatti, potrebbe affermare che la conclusione secondo cui è applicabile l’art. 43 CE, basata sul tenore letterale della normativa britannica, trovi conferma nella ratio stessa delle norme nazionali sulla piccola capitalizzazione e sui prezzi di trasferimento, che, come ho già rilevato, si fondano sull’idea che in alcune circostanze può essere vantaggioso per la posizione fiscale complessiva dei gruppi transfrontalieri tentare di accordarsi su condizioni di transazione, o sulla natura di una transazione, diverse da quelle che sarebbero state concordate in normali condizioni di mercato. Tale idea ha senso soltanto nel caso di gruppi, cioè nelle situazioni in cui la società capogruppo (e/o le società intermedie del gruppo) esercitano una sicura influenza sulle controllate a valle (22).

35.      Pertanto, occorre esaminare la compatibilità della normativa britannica controversa con le norme del Trattato sulla libertà di stabilimento. Ovviamente, ciò implica l’inapplicabilità dell’art. 49 CE, che presuppone uno stabilimento temporaneo, e non permanente, in un altro Stato membro (23). È invece possibile, in linea di principio, che le disposizioni del Trattato in materia di libera circolazione dei capitali possano applicarsi in via concorrente con quelle sulla libertà di stabilimento (24). Su questo punto mi richiamo alle conclusioni nella causa Baars, in cui l’avvocato generale Alber ha sostenuto che, qualora siano potenzialmente in discussione sia la libera circolazione dei capitali che la libertà di stabilimento, la Corte dovrebbe cercare di accertare quale di tali libertà sia direttamente limitata dalla normativa nazionale considerata. Pertanto, qualora siano messe in discussione entrambe le libertà, la normativa nazionale va esaminata sotto il profilo della compatibilità con gli artt. 43 e 56 CE. Qualora, invece, il diritto di stabilimento venga direttamente limitato in modo che l’ostacolo frapposto allo stabilimento determini indirettamente una riduzione del flusso di capitali tra Stati membri, si applicheranno solo le disposizioni relative al diritto di stabilimento (25). Condivido tale ragionamento.

36.      Applicando tale criterio nella specie, benché l’esercizio della libertà di stabilimento da parte delle società capogruppo non aventi sede nel Regno Unito, mediante la costituzione di una controllata con sede in tale paese, richieda inevitabilmente un trasferimento di capitali nel Regno Unito dell’entità necessaria per costituire la controllata, il trasferimento di cui trattasi costituisce, a mio parere, una conseguenza meramente indiretta di tale stabilimento. Ne consegue che la normativa britannica controversa dev’essere esaminata esclusivamente sotto il profilo della compatibilità con l’art. 43 CE.

B –    Sulla prima questione

37.      Con la prima questione, il giudice nazionale chiede se gli artt. 43, 49 o 56 CE ostino a che uno Stato membro mantenga in vigore e applichi disposizioni come quelle di cui agli artt. 209, 212 e all’allegato 28AA dell’ICTA 1988, che impongono restrizioni alla possibilità di una società residente in tale Stato membro di dedurre, a fini fiscali, interessi su prestiti concessi da una società che si configuri direttamente o indirettamente come società capogruppo avente sede in un altro Stato membro, qualora, laddove la società capogruppo avesse avuto sede nello Stato della società mutuataria, quest’ultima non avrebbe subito restrizioni.

38.      Il caso pilota pertinente per tale questione è quello del gruppo Lafarge. Per i motivi che ho già spiegato, esaminerò soltanto la compatibilità della normativa con l’art. 43 CE.

39.      Secondo costante giurisprudenza, se è pur vero che la materia delle imposte dirette rientra nella competenza degli Stati membri, questi ultimi devono tuttavia esercitare tale competenza nel rispetto del diritto comunitario, che comprende l’obbligo ex art. 43 CE di vietare le restrizioni relative all’apertura di agenzie, succursali e filiali da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti nel territorio di un altro Stato membro (26). L’art. 43, secondo comma, CE precisa che la libertà di stabilimento comporta la costituzione e la gestione di imprese in uno Stato membro alle condizioni definite da tale Stato nei confronti dei propri cittadini.

40.      Come ho osservato nelle mie conclusioni nelle cause Test Claimants in the ACT Group Litigation, Test Claimants in the FII Group Litigation, Kerckhaert e Morres, e Denkavit (27), l’art. 43 CE si applica nel caso in cui la disparità di trattamento tra le situazioni transfrontaliere e quelle meramente interne non sia conseguenza diretta e logica del fatto che, allo stadio attuale di evoluzione del diritto comunitario, ai soggetti passivi si possono applicare in situazioni transfrontaliere obblighi fiscali diversi da quelli che si applicano per situazioni meramente interne (28). Ciò significa, in particolare, che, per ricadere nell’ambito dell’art. 43 CE, il trattamento fiscale sfavorevole deve risultare da una discriminazione diretta od occulta derivante dalle norme di un regime fiscale e non semplicemente dalle divergenze o dalla ripartizione della giurisdizione tributaria tra due o più sistemi di Stati membri o dalla coesistenza di amministrazioni fiscali nazionali (che ho definito «quasi-restrizioni») (29).

41.      Applicando tale criterio al caso di specie, la prima questione è se la normativa britannica determini, come affermano le ricorrenti nel caso pilota, un trattamento sfavorevole per le consociate con sede nel Regno Unito in ragione del luogo in cui sono situate le capogruppo che ne detengano direttamente o indirettamente il controllo. In caso affermativo, la questione successiva è se tale trattamento fiscale sfavorevole sia semplicemente la conseguenza di una quasi-restrizione e non ricada, pertanto, nella sfera di applicazione dell’art. 43 CE. In caso contrario, l’ultima questione è se il trattamento fiscale sfavorevole sia conseguenza di una discriminazione e se tale discriminazione possa essere giustificata.

1.      La questione se le controllate con sede nel Regno Unito subiscano un trattamento fiscale sfavorevole in ragione del luogo in cui sono situate le capogruppo che ne detengono direttamente o indirettamente il controllo

42.      Mi sembra chiaro che, nelle versioni vigenti fino al 2004, la disparità di trattamento fiscale determinata dalla normativa britannica implicava per le società con sede nel Regno Unito controllate da capogruppo non aventi sede in tale Stato un trattamento fiscale sfavorevole rispetto a quello riservato alle società con sede nel Regno Unito controllate da capogruppo aventi sede nel Regno Unito.

43.      In primo luogo, la disparità di trattamento fiscale tra le controllate con sede nel Regno Unito determinata dalla normativa britannica derivava effettivamente dal luogo di stabilimento della capogruppo. Infatti:

–        in base alla normativa applicabile fino al 1995, mentre, in linea di principio, gli interessi su un prestito pagati da una società – a una società mutuante residente o meno – superiori a una ragionevole remunerazione del prestito dovevano essere considerati quale distribuzione di utili per la parte eccedente tale remunerazione (30), gli interessi erogati a una società mutuante non avente sede nel Regno Unito appartenente allo stesso gruppo societario erano sempre considerati quali distribuzioni (31). In altre parole, in nessun caso gli interessi pagati a una società mutuante non avente sede nel Regno Unito potevano essere considerati tali ai fini del regime fiscale britannico;

–        conformemente alla normativa applicabile tra il 1995 e il 1998, la disposizione secondo cui gli interessi erogati tra società appartenenti allo stesso gruppo che eccedevano l’importo che sarebbe stato pagato in normali condizioni di mercato venivano considerati quali distribuzioni (32) non si applicava se il soggetto erogante e quello beneficiario erano entrambi soggetti all’imposta sulle società britannica (33). (Naturalmente, una disparità di trattamento in funzione del fatto che la società che effettua il pagamento sia soggetta all’imposta sulle società britannica può assumere rilevanza soprattutto se la società erogatrice è formalmente costituita o principalmente attiva in uno Stato membro diverso dal Regno Unito).

–        In base alla normativa applicabile tra il 1998 e il 2004, gli interessi infragruppo erano soggetti alle norme generali britanniche relative ai prezzi di trasferimento (34). Tuttavia, si riteneva che una provvista frutto di una transazione non conferisse un vantaggio potenziale a una delle parti interessate se, inter alia, l’altra parte della transazione era soggetta all’imposta britannica sul reddito o sulle società (ed in presenza di talune altre condizioni) (35).

44.      Tuttavia, il Finance Act 2004 ha modificato tale distinzione in modo che la normativa britannica sui prezzi di trasferimento si applica anche nel caso in cui entrambe le parti della transazione siano soggette al regime fiscale del Regno Unito. Tale modifica ha chiaramente lo scopo e l’effetto di eliminare la disparità di trattamento sopra descritta (anche se, come detto, potrebbe essere stata intesa ad estendere l’applicazione della normativa britannica a casi estranei alla sua ratio). Di conseguenza, la normativa britannica applicabile a decorrere dal 2004 esula dall’ambito di applicazione dell’art. 43 CE. Il ragionamento precedente vale quindi solo per la normativa vigente fino a tale data.

45.      In secondo luogo, il trattamento applicato alle controllate che presentavano le caratteristiche di gruppo «non britannico» specificate comportava chiaramente uno svantaggio fiscale. Dal punto di vista della controllata, la riqualifica (di parte) degli interessi come distribuzioni implicava che gli interessi in questione non potevano più essere dedotti dagli utili imponibili, per cui, a parità di altre condizioni, l’imposta britannica ad esse applicabile sarebbe stata più elevata rispetto al caso in cui non fosse stata operata tale riqualificazione. Inoltre, nei casi cui era ancora applicabile il sistema dell’ACT – sistema abolito nel 1999 – la riqualificazione comportava che la controllata era tenuta a versare l’ACT all’atto della «distribuzione».

46.      A tale proposito, il Regno Unito afferma che, poiché il criterio di distinzione non è la nazionalità né la residenza della controllata britannica, ma semmai quella della sua capogruppo, ciò non implica una distinzione in base alla nazionalità ai sensi dell’art. 43 CE. Inoltre, quanto alla possibile affermazione secondo cui la normativa britannica sarebbe atta a dissuadere le capogruppo che intendano costituire filiali nel Regno Unito dal farlo, il Regno Unito sostiene che tale possibilità non costituisca una conseguenza sufficientemente diretta e certa della sua normativa perché quest’ultima ricada nell’ambito dell’art. 43 CE, per analogia con la giurisprudenza Keck della Corte nel settore della libera circolazione delle merci. Secondo il Regno Unito, non sussisterebbe alcun ostacolo pratico per le capogruppo non aventi sede nel Regno Unito a costituire stabilimenti secondari, né alcuna prova del fatto che le ricorrenti siano state effettivamente dissuase dal costituirli. In realtà, il Regno Unito ha inteso incoraggiare tali investimenti nel suo territorio. Semmai, l’obiettivo della normativa britannica consiste nel garantire la parità di trattamento per le controllate aventi sede nel Regno Unito, in quanto volta ad eliminare una «scappatoia» offerta ai gruppi transfrontalieri che non esiste per i gruppi interamente britannici.

47.      Nessuno di tali argomenti mi sembra persuasivo. In primo luogo, il fatto che la disparità di trattamento sia basata non sul luogo in cui ha sede la controllata stessa, bensì su quello in cui ha sede la sua capogruppo, non significa che ciò non possa comportare una disparità di trattamento rilevante ai sensi dell’art. 43 CE. Come ha dichiarato la Corte in sentenze quali Metallgesellschaft e Lankhorst-Hohorst, una normativa che introduce una disparità di trattamento tra le controllate con sede nel Regno Unito a seconda che la loro società capogruppo abbia sede o meno nel Regno Unito, con la conseguenza dell’attribuzione di un vantaggio fiscale alle controllate la cui capogruppo ha sede nel Regno Unito, ricade, in linea di principio nell’ambito di applicazione dell’art. 43 CE (36). In secondo luogo, per quanto riguarda il presunto effetto indiretto della normativa britannica sulle decisioni delle capogruppo non aventi sede nel Regno Unito di costituire una filiale britannica, rilevo che, affinché possa applicarsi l’art. 43 CE, è sufficiente dimostrare l’esistenza di una disparità di trattamento rilevante e di un vantaggio fiscale. Non occorre provare che la normativa abbia effettivamente dissuaso determinate società non residenti dall’esercitare il loro diritto alla libertà di stabilimento.

48.      Desidero aggiungere che, a mio avviso, la giurisprudenza Keck, elaborata nel settore della libera circolazione delle merci, non può essere applicata indistintamente al fine di valutare la compatibilità con l’art. 43 CE di provvedimenti relativi alle imposte dirette(37). In particolare, come ho spiegato nelle mie conclusioni nella causa ACT, la nozione di «restrizioni» alla libertà di circolazione indistintamente applicabili utilizzata nella giurisprudenza della Corte relativa alla libera circolazione in generale non può essere utilmente trasposta, come tale, nel settore delle imposte dirette. Piuttosto, dato che i criteri di valutazione della giurisdizione fiscale si basano generalmente sulla nazionalità o sulla residenza, la questione è se la misura relativa alle imposte dirette sia direttamente o indirettamente discriminatoria, a differenza di una «quasi-restrizione», quale descritta in precedenza (38).

49.      Ciò non significa che non possa tenersi conto della gravità dell’effetto sull’esercizio della libertà di circolazione in qualunque fase dell’analisi della compatibilità con l’art. 43 CE. Ciò può costituire un elemento importante nel momento in cui si valutano le giustificazioni e in particolare quando si esamina se il provvedimento sia proporzionato.

2.      La questione se il trattamento fiscale sfavorevole sia conseguenza di una quasi-restrizione

50.      La questione successiva è se il trattamento fiscale sfavorevole delle società britanniche controllate direttamente o indirettamente da capogruppo non britanniche discenda da mere quasi-restrizioni – vale a dire da restrizioni determinate da disparità o dalla ripartizione della competenza tributaria tra sistemi fiscali di due o più Stati membri (con conseguente inapplicabilità dell’art. 43 CE) – anziché da una discriminazione causata dalle norme di un regime fiscale.

51.      A tale riguardo, il Regno Unito afferma che la normativa impugnata riguarderebbe esclusivamente la ripartizione della giurisdizione fiscale tra il Regno Unito e i paesi con i quali ha stipulato una CDI. A suo parere, dal ragionamento svolto dalla Corte nella sentenza Gilly (39) discende che l’art. 43 CE non è applicabile in alcun caso alla fattispecie ora in esame. Infatti, tale disposizione si applicherebbe soltanto all’esercizio, e non alla ripartizione, delle competenze nazionali in materia fiscale. In particolare, il Regno Unito sostiene che la normativa controversa rispecchia la ripartizione convenuta durante la negoziazione delle convenzioni sulla doppia imposizione applicabili, in quanto tutte le convenzioni di questo tipo concluse con altri Stati membri contengono una disposizione che consente alle rispettive autorità competenti di concordare un adeguamento compensativo per cui ad ogni aumento dei redditi imponibili soggetti ad imposta nel Regno Unito corrisponde una riduzione di pari importo dei redditi imponibili del mutuante nel paese in cui quest’ultimo è stabilito.

52.      Tale argomento non appare convincente.

53.      È vero che, come ho osservato nelle mie conclusioni nella causa ACT (40), all’attuale stadio di sviluppo del diritto comunitario, il potere di scegliere i criteri e di ripartire la (priorità della) giurisdizione tributaria spetta unicamente agli Stati membri (conformemente al diritto tributario internazionale). La Corte l’ha ammesso in varie occasioni, in particolare nelle sentenze Gilly e D (41). Attualmente, nel diritto comunitario non si rinvengono criteri alternativi, né vi è alcun fondamento per fissare criteri di questo tipo. Inoltre, l’esigenza di ripartire la giurisdizione tributaria tra gli Stati membri in relazione al reddito degli operatori transfrontalieri (dislocazione della base imponibile) rappresenta una conseguenza ineluttabile del fatto che i sistemi tributari hanno carattere nazionale, per cui le restrizioni derivanti da tale ripartizione devono essere considerate come quasi-restrizioni che esulano dall’ambito di applicazione dell’art. 43 CE.

54.      A mio parere, tuttavia, la normativa britannica controversa va al di là della semplice ripartizione della giurisdizione tra il Regno Unito e gli Stati con cui ha stipulato convenzioni in materia di doppia imposizione. Prima del 1998, tale normativa imponeva, in sostanza, di riqualificare come distribuzioni i prestiti concessi da capogruppo non britanniche a controllate britanniche (fino al 1995, in tutti i casi, a meno che la CDI disponesse diversamente; dopo il 1995, nei casi in cui l’importo degli interessi versati eccedeva quello che sarebbe stato pagato in normali condizioni di mercato). Ciò, a mio avviso, rispecchia la scelta strettamente unilaterale del Regno Unito relativamente alla qualificazione delle operazioni ai fini fiscali per organizzare il proprio sistema fiscale ed evitarne gli sfruttamenti illeciti, in altre parole, le modalità di esercizio dei propri poteri fiscali. Tale scopo essenziale della normativa risulta chiaro, a prescindere dal fatto che sia esplicitato in forma di normativa nazionale o, come è avvenuto in alcuni casi prima del 1995, in disposizioni di una CDI. Inoltre, tale scelta unilaterale è stata effettuata a sua volta nel contesto della precedente scelta unilaterale del Regno Unito di mantenere un trattamento fiscale differenziato per gli interessi (considerati nel diritto britannico quali pagamenti deducibili al lordo d’imposta) e le distribuzioni (considerate nel diritto britannico quali pagamenti non deducibili al netto d’imposta). Del pari, se è pur vero che, a partire dal 1998, il Regno Unito ha affrontato il problema della piccola capitalizzazione per mezzo delle norme sui prezzi di trasferimento anziché mediante una normativa a sé stante sulla piccola capitalizzazione, ciò costituisce ancora una volta una sua scelta unilaterale di considerare talune operazioni non concluse a normali condizioni di mercato come se fossero state realizzate a tali condizioni, al fine di evitare gli abusi del sistema fiscale britannico.

55.      Rilevo altresì come il fatto che tali pratiche possano essere ammissibili nel diritto tributario internazionale non significhi necessariamente che esse costituiscano una regola di ripartizione della competenza tributaria, né che una prassi di questo tipo sia conforme all’art. 43 CE (42).

56.      D’altro canto, non inficia quest’analisi l’argomento del Regno Unito secondo cui le convenzioni sulla doppia imposizione da esso stipulate con altri Stati membri contengono disposizioni che impongono all’altra parte contraente di compensare la riqualificazione operata dalle autorità britanniche. Ritengo che tali disposizioni siano intese a ridurre, tramite una CDI bilaterale, la potenziale doppia tassazione determinata dalle norme britanniche sulla riqualificazione unilaterale (ad esempio, per evitare casi in cui il Regno Unito riqualifichi come distribuzioni i pagamenti di interessi, ma lo Stato di residenza della capogruppo continui a considerarli tali). Le disposizioni in parola non escludono il carattere unilaterale della normativa nazionale originale che costituisce il presupposto della disposizione della CDI. Tuttavia, come ho osservato nelle mie conclusioni nelle cause ACT e Denkavit (43), e come spiegherò ulteriormente in prosieguo, per accertare se la normativa di uno Stato membro sia effettivamente discriminatoria e, in particolare, se sussista realmente una disparità di trattamento tra residenti e non residenti che determina uno svantaggio fiscale, occorre prendere in considerazione l’effetto concreto di tali convenzioni sulla situazione specifica di un contribuente.

57.      Di conseguenza, il trattamento fiscale sfavorevole determinato dalla normativa britannica nei confronti delle società britanniche controllate da capogruppo non britanniche rispetto a quelle controllate da capogruppo britanniche non può essere considerata semplicemente come una quasi-restrizione, quanto piuttosto come una disparità di trattamento derivante esclusivamente dalla normativa di una giurisdizione fiscale.

3.      Se il trattamento fiscale sfavorevole sia conseguenza di una discriminazione

58.      L’ultima questione è se possa affermarsi che il trattamento fiscale sfavorevole sia conseguenza di una discriminazione. La Corte ha dichiarato che una discriminazione consiste nell’applicazione di norme diverse a situazioni analoghe ovvero nell’applicazione della stessa norma a situazioni diverse, salvo che tale differenza sia giustificata (44).

59.      Come ho già rilevato in precedenza, prima delle modifiche del 2004, il Regno Unito applicava norme diverse alle società britanniche controllate da capogruppo non britanniche, il che determinava uno svantaggio fiscale per tali controllate. A prima vista, sembra chiaro che ciò dev’essere considerato come disparità di trattamento di imprese che si trovano in una situazione equiparabile; in realtà, il Regno Unito non ha sostenuto il contrario nelle sue osservazioni. La natura e la portata della pertinente giurisdizione tributaria esercitata dal Regno Unito sulle società britanniche controllate da capogruppo non britanniche, in linea di principio, erano le stesse di quella esercitata sulle società britanniche controllate da capogruppo britanniche. Nell’esercizio di tale giurisdizione, il Regno Unito era quindi tenuto, in forza dell’art. 43 CE, a non applicare alle controllate con sede nel Regno Unito un trattamento fiscale differenziato unicamente in base al luogo in cui era situata la capogruppo. Apparentemente, il Regno Unito è venuto meno a tale obbligo.

60.      Tuttavia, il Regno Unito può dimostrare che tale disparità di trattamento era giustificata. A tale fine, esso deve provare che 1) la sua legislazione persegue uno scopo legittimo compatibile con il Trattato e giustificato da ragioni imperative di interesse generale; 2) l’applicazione della sua legislazione è idonea a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e 3) l’applicazione della sua legislazione non eccede quanto necessario per conseguire tale scopo (45).

61.      A tale proposito, il Regno Unito afferma che la sua normativa costituisce uno strumento proporzionato a legittimi obiettivi di ordine politico, variamente qualificabili come obiettivi di coerenza fiscale (come nella causa Bachmann) (46), prevenzione dell’evasione fiscale (come nella causa ICI) (47), o esigenza di impedire accordi assolutamente fittizi intesi ad eludere la legislazione fiscale. In sostanza, tali finalità corrispondono, secondo il Regno Unito, al legittimo scopo di garantire un trattamento fiscale equo e coerente, in particolare prevedendo che l’attività economica della società mutuataria venga tassata nel paese in cui ha luogo. Esaminerò l’applicabilità di tali giustificazioni in ordine successivo.

a)      Giustificazione in base a motivi legati alla prevenzione degli illeciti

62.      In molte occasioni la Corte ha ammesso che, in linea di massima, gli Stati membri possono legittimamente adottare provvedimenti fiscali altrimenti discriminatori al fine di prevenire illeciti (anche se, finora, non ha mai dichiarato che un provvedimento era giustificato per tale motivo). Ciò è emerso, più recentemente, dalla sentenza Marks & Spencer, in cui la Corte ha statuito che, in linea di principio, una norma nazionale che limiti la detrazione delle perdite transfrontaliere può essere giustificata dal rischio di evasione fiscale e, in particolare, dal rischio che all’interno di un gruppo di società vengano organizzati trasferimenti di perdite in direzione di società registrate negli Stati membri che applicano i tassi di imposizione più elevati ed in cui, di conseguenza, il valore fiscale delle perdite è maggiore (48). Tale riconoscimento emerge anche dalle sentenze della Corte nelle cause Lankhorst-Hohorst, X e Y, e ICI (49), nonché nelle cause Leur-Bloem (concernente la direttiva sulle concentrazioni), Halifax (relativa ad imposte indirette), e da molte sentenze in settori diversi dalla fiscalità (50).

63.      La ratio soggiacente all’accettazione di tale giustificazione è la seguente. In linea di principio, è perfettamente ammissibile e, anzi, essenziale nella concezione di un mercato interno, il fatto che i contribuenti cerchino di organizzare le loro operazioni fiscali (transfrontaliere) nel modo più conveniente (51). Tuttavia, ciò è consentito solo ove tale organizzazione sia reale, vale a dire non rappresenti un espediente del tutto artificioso volto a sfruttare illecitamente e ad eludere la normativa fiscale nazionale (52). Ad esempio, il semplice fatto che una società residente costituisca una rappresentanza in un altro Stato membro non basta, di per sé, a dare origine a una presunzione generale di evasione o elusione fiscale (53), neanche quando lo Stato membro in questione applichi un livello d’imposizione particolarmente basso (o, addirittura, un regime ricadente nella definizione di «misura di concorrenza fiscale dannosa» di cui al Codice di condotta sulla tassazione delle imprese) (54).

64.      La questione successiva è se la normativa britannica sia idonea a conseguire tale scopo. La risposta è chiaramente affermativa. Infatti, se la preoccupazione del Regno Unito consiste nell’evitare che i gruppi transfrontalieri qualifichino abusivamente e fittiziamente come interessi su prestiti quelle che in realtà sono distribuzioni, la riqualificazione come distribuzioni degli interessi pagati è chiaramente atta a contrastare tale abuso.

65.      L’ultima questione è se, a tal fine, la normativa britannica diretta ad impedire gli illeciti costituisca un rimedio appropriato e venga applicata in maniera proporzionata.

66.      A tale proposito, ritengo che, a seconda del suo tenore letterale e delle modalità con cui viene applicata, la normativa volta ad evitare la piccola capitalizzazione possa costituire, in linea di principio, una misura proporzionata contro gli abusi. È vero che il principio secondo cui le società hanno il diritto di organizzare la propria affinità come meglio credono implica che, in linea di massima, esse devono poter finanziare le proprie controllate con capitale proprio o attraverso prestiti. Tuttavia, tale possibilità raggiunge il proprio limite quando la scelta della società costituisce un illecito. Mi sembra che il principio delle normali condizioni di mercato, ammesso dal diritto tributario internazionale quale strumento appropriato per evitare le manipolazioni artificiose di operazioni transfrontaliere, costituisca, in linea di principio, un valido punto di partenza per valutare se un’operazione sia illecita o meno. Applicando il ragionamento svolto dalla Corte nella sfera delle imposte indirette e in altri settori diversi dalla fiscalità, il criterio delle normali condizioni di mercato rappresenta in tale contesto un fattore oggettivo con cui si può stabilire se lo scopo essenziale dell’operazione considerata consista nell’ottenere un vantaggio fiscale (55). Inoltre, ritengo legittimo, e perfino auspicabile, che gli Stati membri fissino determinati criteri ragionevoli alla luce dei quali valutare la conformità di un’operazione al principio delle normali condizioni di mercato e, in caso di difformità rispetto a tali criteri, presumano che l’operazione sia illecita, salvo prova contraria (56). La fissazione di tali criteri, a mio avviso, risponde all’interesse della certezza del diritto per i contribuenti e della praticità per le autorità fiscali. A tale criterio si potrebbe opporre, ad esempio, l’uso di un unico criterio fisso applicabile in tutti i casi – quale un rapporto fisso tra debito e capitale – che non consenta di prendere in considerazione altre circostanze.

67.      Tuttavia, la formulazione e l’applicazione pratica di tale criterio devono anche soddisfare il criterio di proporzionalità. A mio parere, ciò implica quanto segue:

–        un contribuente deve poter dimostrare che, sebbene le condizioni dell’operazione si discostassero dalle normali condizioni di mercato, sussistevano nondimeno reali motivi commerciali per concludere l’operazione, motivi diversi dal conseguimento di un vantaggio fiscale. In altre parole, come ha osservato la Corte nella sentenza Halifax, «il divieto di comportamenti abusivi non vale più ove le operazioni di cui trattasi possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di vantaggi fiscali» (57). Un possibile esempio è costituito dal contesto di fatto della causa Lankhorst-Hohorst, in cui lo scopo del prestito, come ha ammesso la Corte, consisteva nel tentare di salvare la controllata riducendone al minimo i costi per conseguire risparmi di interessi bancari. Tuttavia, si può ritenere che situazioni del genere (in cui, vale a dire, un’operazione non sia stata conclusa a normali condizioni di mercato ma, nondimeno, non costituisca un comportamento illecito e non sia intesa unicamente a conseguire un vantaggio fiscale) siano relativamente eccezionali (58);

–        ove tali motivi commerciali vengano addotti dal contribuente, la loro validità va valutata caso per caso onde verificare se le transazioni debbano essere considerate del tutto fittizie e intese unicamente al conseguimento di un vantaggio fiscale;

–        le informazioni che il contribuente deve produrre per confutare la presunzione non devono essere sproporzionate né tali da risultare eccessivamente difficile o impossibile fornirle;

–        nei casi in cui i pagamenti siano considerati illeciti (distribuzioni dissimulate) nel senso sopra precisato, solo la parte pagata eccedente quanto sarebbe stato pattuito in normali condizioni di mercato dev’essere riqualificata come distribuzione e quindi tassata nello Stato d’imposizione; e

–        il risultato di tale esame dev’essere soggetto a sindacato giurisdizionale (59).

68.      Inoltre, non ritengo che, per conformarsi all’art. 43 CE, gli Stati membri debbano necessariamente estendere la loro normativa in materia di piccola capitalizzazione alle situazioni meramente interne se non sussiste alcun possibile rischio di comportamenti illeciti. Ritengo assolutamente censurabile il fatto che la mancanza di chiarezza in ordine alla portata della giustificazione ex art. 43 CE per motivi legati alla prevenzione degli illeciti abbia determinato una situazione in cui gli Stati membri, non sapendo entro quali limiti avrebbero potuto adottare norme apparentemente «discriminatorie» contro gli illeciti, si sono sentiti obbligati a «cautelarsi», estendendo le proprie normative a situazioni puramente interne in cui non esisteva alcun possibile rischio di illecito (60). Tale estensione della legislazione a situazioni del tutto estranee alla sua ratio per scopi meramente formali, che determina un notevole aggravio degli oneri amministrativi a carico delle società e delle autorità fiscali, è del tutto inutile e, anzi, controproducente in termini di efficienza economica. In quanto tale, essa è perniciosa per il mercato interno.

69.      Desidero aggiungere che condivido l’osservazione della Commissione secondo cui, affinché le norme relative alla piccola capitalizzazione risultino proporzionate al loro scopo, lo Stato membro che le applica deve garantire mediante una CDI che alla riqualificazione della transazione soggetta alla sua giurisdizione tributaria corrisponda una riqualificazione di segno opposto (ossia, da percepimento di interessi a percepimento di dividendi) nello Stato membro della capogruppo. Ritengo che, in caso contrario, si travalicherebbe quanto necessario per conseguire lo scopo delle norme sulla piccola capitalizzazione e si imporrebbe un onere eccessivo (doppia imposizione) all’intero gruppo. Ho già osservato in altra sede che, al fine di accertare la compatibilità di una normativa di uno Stato membro con l’art. 43 CE occorre prendere in considerazione l’effetto delle convenzioni in materia di doppia imposizione sulla situazione di un contribuente (61). Va tuttavia precisato che non può giustificarsi una violazione dell’art. 43 CE sostenendo che l’altro Stato contraente della CDI abbia violato gli obblighi ad esso incombenti in forza di tale convenzione, omettendo di trattare i pagamenti percepiti dalla capogruppo in maniera coerente rispetto alla loro riqualificazione da parte del Regno Unito (62).

70.      Dalle suesposte considerazioni emerge che il tenore letterale di una specifica normativa in materia di piccola capitalizzazione e le modalità pratiche con cui tale normativa viene applicata sono essenziali per valutare se essa soddisfi il criterio di proporzionalità.

71.      Esaminando, ad esempio l’altro caso, l’unico fino ad ora in cui la Corte ha esaminato una normativa nazionale sulla piccola capitalizzazione – la causa Lankhorst-Hohorst –, la normativa tedesca impugnata in quella causa prevedeva che i pagamenti venissero riqualificati qualora il capitale mutuato eccedesse il triplo della partecipazione detenuta dall’azionista (vale a dire, un criterio fisso), presunzione superabile solo se la controllata «avesse potuto ottenere questo capitale esterno, in circostanze per il resto analoghe, anche da un terzo, o qualora si [trattasse] di ottenere fondi per finanziare operazioni bancarie ordinarie» (63). Ciò significa che, come ho già rilevato, non era possibile superare la presunzione nei casi in cui non sussisteva alcun comportamento illecito e tuttavia il prestito non rispondeva al criterio previsto dalla legge (come in quella causa, in cui la Corte ha dichiarato che il prestito era stato concesso per ridurre, a favore di una controllata in perdita, l’onere degli interessi finanziari derivanti dai suoi debiti bancari, in circostanze nelle quali le perdite erano largamente superiori agli interessi versati alla capogruppo). Inoltre, sembra che la normativa tedesca avesse l’effetto di riqualificare non solo i pagamenti che superavano quanto sarebbe stato concesso a condizioni commerciali, bensì tutti i pagamenti effettuati dalla controllata in favore della capogruppo. Infine, dai termini della sentenza sembra emergere che non esistesse nelle convenzioni sulla doppia imposizione applicabili alcun meccanismo atto a garantire che la riqualificazione degli interessi da parte della Germania sarebbe stata «compensata» dagli altri Stati membri contraenti per evitare di dar luogo a una doppia imposizione.

72.      La situazione determinata dalla normativa britannica ora in esame era (ed è) diversa, come osserva il Regno Unito nelle sue osservazioni, sotto molti aspetti.

73.      Esaminando, anzitutto, la normativa britannica applicabile fino al 1995, qualsiasi interesse pagato da una società – a un mutuante residente o non residente – su un prestito che eccedesse una ragionevole remunerazione commerciale del prestito doveva essere considerato quale distribuzione di utili per la parte eccedente tale remunerazione (art. 209, n. 2, lett. d), del TA). Per contro, gli interessi versati a una società mutuante non avente sede nel Regno Unito e appartenente allo stesso gruppo (diversi dagli interessi già considerati come distribuzioni ai sensi dell’art. 209, n. 2, lett. d)) erano considerati in ogni caso come distribuzioni (64). Tale disposizione era chiaramente sproporzionata, nel senso sopra descritto, per due motivi. Anzitutto, un prestito concesso a una controllata britannica da una capogruppo avente sede in un altro Stato membro veniva comunque riqualificato come distribuzione senza valutarne la conformità al criterio delle normali condizioni di mercato. In secondo luogo, tale controllata non aveva alcuna possibilità di provare che il prestito fosse stato concesso per validi motivi commerciali e non in maniera puramente illecita per conseguire un vantaggio fiscale. Tale regola generale andava al di là di quanto necessario per conseguire lo scopo perseguito dalla normativa britannica.

74.      Il Regno Unito afferma tuttavia che, per effetto delle convenzioni sulla doppia imposizione stipulate con altri Stati membri, gli interessi erano di fatto deducibili, a meno che e nella misura in cui il tasso d’interesse fosse eccessivo. Gli interessi erano eccessivi se, nel caso delle convenzioni più datate basate sul modello del 1963 (65), il tasso d’interesse, considerato l’importo del debito, era superiore a quello commerciale o, nel caso delle convenzioni più recenti basate sul modello dell’OCSE (66), se l’importo degli interessi eccedeva per qualsiasi motivo quanto sarebbe stato pagato in normali condizioni di mercato, in quanto il tasso d’interesse o l’importo stesso del prestito non erano commerciali. Inoltre, per quanto riguarda la seconda categoria di convenzioni, dal 1992 in poi, il criterio legale per stabilire in quali circostanze l’importo di un prestito o il relativo tasso d’interesse fossero superiori a quelli che sarebbero stati concordati in normali condizioni di mercato era contenuto nell’art. 808 A del TA. Tale criterio imponeva di tenere conto di tutti i fattori per effettuare il confronto con le normali condizioni di mercato, tra cui rientravano la questione se il prestito sarebbe stato concesso in mancanza del rapporto particolare (tra mutuante e mutuatario), l’importo cui sarebbe ammontato il prestito in normali condizioni di mercato in mancanza del rapporto e il tasso d’interesse e le altre condizioni che sarebbero state concordate in mancanza del rapporto (67).

75.      Ritengo che, in linea di principio, la formulazione di entrambe le categorie di convenzioni sulla doppia imposizione sia proporzionata allo scopo dichiarato della normativa britannica di impedire gli abusi. In entrambi i casi, il criterio di valutazione è costituito sostanzialmente dal principio delle normali condizioni di mercato. In nessun caso esiste un criterio fisso assoluto (quale un rapporto fisso tra debito e capitale) per stabilire ciò che è consentito: ciascuna categoria permette, secondo quanto risulta a prima vista dai termini impiegati, di tenere conto delle circostanze di ogni singolo caso al fine di stabilire la corrispondenza ai canoni commerciali. Inoltre, in ciascun caso solo la parte eccedente dei pagamenti transfrontalieri (oltre quanto sarebbe stato pagato a normali condizioni commerciali) viene riqualificata come distribuzione. In linea di massima, pertanto, le disposizioni in questione mi sembrano giustificate ai sensi dell’art. 43 CE. Tale conclusione, tuttavia, è subordinata ad alcune importanti condizioni, la cui verifica incombe al giudice nazionale.

76.      In primo luogo, il contribuente deve aver avuto la possibilità di dimostrare, senza oneri indebiti, l’effettivo compimento di un’operazione con autentiche finalità commerciali, diverse dal conseguimento di un vantaggio fiscale. Benché si possa ritenere che, come ho osservato in precedenza, le circostanze in cui può prodursi una prova siffatta siano relativamente limitate (un esempio è quello del salvataggio di una controllata da parte della capogruppo), dal testo delle convenzioni sulla doppia imposizione presentate come modelli alla Corte non risulta chiaro, a mio parere, se nell’ambito della normativa britannica esistesse tale possibilità. Spetta al giudice nazionale accertare i fatti della controversia dinanzi ad esso pendente.

77.      In secondo luogo, quest’analisi si fonda esclusivamente sul tenore letterale delle convenzioni sulla doppia imposizione presentate alla Corte. Se, ad esempio, nella pratica le autorità britanniche avessero applicato tali disposizioni a titolo di regola assoluta e inderogabile, applicata indipendentemente dalle circostanze dello specifico caso considerato e senza che il contribuente avesse una reale possibilità di dimostrare e di far prendere in considerazione tali circostanze [o anche nel caso in cui le dette autorità non avessero applicato affatto le disposizioni della CDI, nel senso che si era applicato l’art. 209, n. 2, lett. e), punti iv) e v)], ciò sarebbe stato comunque sproporzionato. A tale riguardo, se è pur vero dell’esistenza di una «procedura di autorizzazione dei prestiti», mediante la quale i contribuenti possono accertare la loro posizione dinanzi alle disposizioni sulla piccola capitalizzazione loro applicabili, aggiunge un positivo elemento di trasparenza e di certezza del diritto ai regimi fiscali degli Stati membri nell’interesse della buona amministrazione, l’esistenza di tale procedura, a mio parere, non è decisiva ai fini della compatibilità con l’art. 43 CE di norme nazionali altrimenti proporzionate. Rilevo che, nella fattispecie, le ricorrenti dei casi pilota negano l’efficacia e la possibilità di avvalersi della procedura di autorizzazione dei prestiti richiamata dal Regno Unito a sostegno dei propri argomenti.

78.      In terzo luogo, l’analisi vale ovviamente solo nel caso in cui il Regno Unito abbia effettivamente concluso con lo Stato membro di cui trattasi una CDI con un siffatto tenore letterale. Dall’ordinanza di rinvio non emerge con chiarezza quante fossero tali convenzioni concluse tra il Regno Unito e altri Stati membri.

79.      Infine, anche nei casi disciplinati da tali convenzioni, la compatibilità della normativa con l’art. 43 CE dipenderebbe, come ho rilevato in precedenza, dal mutuo riconoscimento della riqualificazione operata dal Regno Unito da parte dell’altro Stato membro contraente della CDI (per garantire, in particolare, che la riqualificazione non dia luogo a doppia imposizione). Come ho già rilevato, il Regno Unito non potrebbe giustificarsi sostenendo che l’altro Stato contraente della CDI ha violato gli obblighi che gli incombono in forza di tale convenzione omettendo di trattare i pagamenti percepiti dalla capogruppo in maniera coerente rispetto alla loro riqualificazione da parte del Regno Unito. Pur prendendo atto che, nella fattispecie, il Regno Unito afferma che tale accordo reciproco sussisteva pressoché in tutti i casi, spetta al giudice nazionale accertare, nello specifico caso di cui deve conoscere, se fosse effettivamente così.

80.      Desidero aggiungere che, contrariamente a quanto hanno sostenuto le ricorrenti nei casi pilota, il fatto che il «criterio» nazionale delle normali condizioni di mercato per la riqualificazione di cui all’art. 209, n. 2, lett. d), possa essere diverso (e più ampio) del «criterio» previsto dalla CDI non significa, di per sé, che la normativa britannica fosse in contrasto con l’art. 43 CE. Come ho già rilevato, a tal fine non si può legittimamente imporre agli Stati membri di valutare i prestiti infragruppo meramente interni allo stesso modo dei prestiti infragruppo transfrontalieri. Inoltre, ampliare l’analisi, includendovi l’esame della questione se non solo il tasso d’interesse, ma anche l’importo del prestito concesso fosse commerciale, appare perfettamente in linea con lo scopo della normativa britannica di impedire gli illeciti, in quanto aumentare l’entità di un prestito fino a proporzioni non commerciali, in teoria, potrebbe costituire un modo altrettanto efficace di «spostare» la tassazione dei profitti verso una giurisdizione diversa.

81.      Passo ora ad esaminare la proporzionalità degli emendamenti introdotti nel 1995. Come rileva il Regno Unito, tali emendamenti hanno sostanzialmente recepito in forma legislativa il principio delle normali condizioni di mercato precedentemente applicato per mezzo delle convenzioni sulla doppia imposizione. In tal senso, è stato stabilito che gli interessi infragruppo superiori all’importo che sarebbe stato pagato in normali condizioni di mercato dovevano essere considerati quali distribuzioni (68). Un prestito veniva considerato concesso a condizioni diverse da quelle normali di mercato se l’intero prestito o una parte di esso costituiva «un importo che non sarebbe stato dovuto all’altra società se tra le società non fosse intercorso (tranne per quanto riguarda la prestazione di garanzie in questione) alcun rapporto, accordo o legame, salvo per l’eventuale parte della distribuzione che non rappresenta tale importo (…)» (69). Inoltre, la normativa contiene un elenco di criteri da utilizzare per stabilire se gli interessi pagati dovessero essere considerati come distribuzioni. Tali criteri erano: il livello dell’indebitamento complessivo del mutuatario, se il mutuatario e un determinato soggetto avrebbero concluso una transazione che comportasse la prestazione di una garanzia da parte della società mutuataria o la concessione di un prestito, o di un prestito di un determinato ammontare, a detta società, e il tasso d’interesse nonché le altre condizioni che sarebbero state normalmente applicate a un’operazione dello stesso tipo.

82.      A prima vista, e per gli stessi motivi esposti in relazione alla normativa anteriore al 1995, tali disposizioni, in linea di principio, mi sembrano proporzionate al loro scopo, fatte salve le quattro importanti precisazioni che ho formulato in precedenza. La riqualificazione è espressamente basata sul principio delle normali condizioni di mercato, quale specificato dai criteri elencati. Nella presente causa non si è affermato che tali criteri, e il modo in cui è formulata la normativa, non esprimano adeguatamente il principio delle normali condizioni di mercato. Anche in questo caso, il fatto che le disposizioni non si applichino se il soggetto che paga e quello che riceve il pagamento degli interessi sono soggetti all’imposta britannica sulle società (70) non implica, di per sé, che dette disposizioni siano sproporzionate.

83.      Esattamente le stesse considerazioni valgono per l’esame della proporzionalità delle modifiche della normativa britannica introdotte nel 1998, che riportano il problema della piccola capitalizzazione nell’ambito delle norme generali britanniche sui prezzi di trasferimento. Anche in questo caso, il punto di riferimento adottato è il criterio delle normali condizioni di mercato, richiamato questa volta con l’espressione «diverse da come avrebbero potuto essere se le società non fossero state soggette a un controllo comune». Ancora una volta, valgono le stesse precisazioni fatte in precedenza.

84.      Se è pur vero che il Regno Unito ha modificato le proprie norme sui prezzi di trasferimento nel 2004 per renderle applicabili anche quando entrambe le parti dell’operazione sono soggette all’imposta britannica, da quanto ho già osservato risulta chiaro che, a mio parere, ciò non è necessario affinché le norme in questione risultino conformi all’art. 43 CE.

b)      La questione se sussista una giustificazione per motivi di coerenza fiscale

85.      Una giustificazione alternativa addotta dal Regno Unito consiste nel fatto che la normativa controversa era necessaria per garantire la coerenza del sistema fiscale. A parere del Regno Unito, la sua legislazione era intesa ad assicurare che le distribuzioni dissimulate venissero tassate una sola volta, e nella giurisdizione fiscale appropriata (ossia la giurisdizione nel cui ambito erano stati generati i profitti). Inoltre, il Regno Unito afferma che, considerando la coerenza fiscale sotto il profilo dei gruppi e sotto quello comunitario, l’applicazione della sua normativa sulla piccola capitalizzazione garantiva la coerenza assicurando che i profitti non potessero essere «esportati» utilizzando mezzi artificiosi, per essere tassati in una giurisdizione in cui non erano stati conseguiti.

86.      Tale argomento può essere esaminato brevemente, in quanto ritengo che, applicato in questo contesto, sollevi esattamente le stesse questioni, e sia soggetto alle stesse limitazioni, di quelli discussi in precedenza relativamente alla giustificazione per motivi legati alla prevenzione degli illeciti.

87.      L’argomento in parola, tuttavia, dà modo di svolgere alcune osservazioni più generali sulla natura e sulla funzione della giustificazione, piuttosto amorfa, relativa alla «coerenza fiscale». La Corte ha espressamente ammesso tale giustificazione solo in un caso – la sentenza Bachmann (71) – anche se essa è stata addotta senza successo in molti casi successivi. Nella causa Bachmann, la Corte ha utilizzato tale nozione per esprimere l’idea secondo cui il Belgio poteva legittimamente mantenere un «legame» fra la deducibilità dei contributi relativi ai contratti di assicurazione contro la vecchiaia e il decesso e il successivo assoggettamento all’imposta belga delle somme pagate in esecuzione di tali contratti. Il Belgio poteva legittimamente limitare la deducibilità dei contributi ai casi in cui poteva tassare le somme pagate successivamente. Da allora, la Corte ha dichiarato che, perché possa addursi tale giustificazione, dev’esistere un «legame diretto» tra la concessione di un vantaggio fiscale e la compensazione di tale vantaggio con un prelievo fiscale. In cause quali Verkooijen, la Corte ha sottolineato che, nella causa Bachmann, il vantaggio e lo svantaggio fiscale erano correlati alla stessa imposta e allo stesso contribuente e ha respinto la domanda del convenuto alla luce dei fatti di causa, in quanto essa riguardava due imposte distinte gravanti su contribuenti distinti (72). Tale criterio è stato seguito in cause successive quali Baars e Bosal (73).

88.      La limitazione della portata della giustificazione a un formalistico «un’imposta, un contribuente» è stata criticata, tra l’altro, dagli avvocati generali Kokott e Maduro nelle rispettive conclusioni nelle cause Manninen e Marks & Spencer (74). In realtà, la Corte, nelle sue sentenze relative a dette cause, sembra aver adottato un approccio più ampio a tale nozione. Nella sentenza Manninen, pur respingendo la giustificazione alla luce dei fatti di causa, la Corte ha ritenuto che la coerenza del sistema fiscale finlandese in quel contesto restasse garantita fintantoché perdurava una correlazione (legame) tra il beneficio fiscale concesso all’azionista (un credito d’imposta) e l’imposta sulle società pagata sugli utili connessi alle azioni. Il fatto che l’imposta sulle società fosse stata assolta non in Finlandia, bensì in Svezia, non escludeva tale correlazione (75). Nella sentenza Marks & Spencer, la Corte ha strutturato il proprio ragionamento in maniera leggermente diversa, utilizzando la nozione di «equilibrata ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri» (76). Se pure, in linea di principio, la normativa nazionale che limitava lo sgravio di gruppo alle controllate residenti di una capogruppo residente perseguiva il legittimo scopo di tutelare tale equilibrata ripartizione del potere impositivo – in quanto concedere alle controllate la possibilità di optare per la presa in considerazione delle loro perdite nello Stato in cui sono registrate o in un altro Stato membro comprometterebbe l’equilibrio –, in quella causa, secondo la Corte, i mezzi utilizzati dalla normativa britannica per conseguire tale scopo erano sproporzionati.

89.      Alla luce delle suesposte considerazioni, sono comprensibili le incertezze relative alla portata e alla funzione di tale giustificazione. Ritengo tuttavia che la Corte, nella grande maggioranza dei casi in cui ha negato l’applicabilità della giustificazione (in risposta a specifici argomenti addotti dalle parti su questo punto), abbia in realtà semplicemente espresso i principi fondamentali di non discriminazione che ho descritto nelle mie conclusioni nelle cause ACT, FII, Kerkhaert e Morres, e Denkavit, ossia: 1) laddove agiscano in base alla loro giurisdizione di Stato di residenza, gli Stati membri non devono discriminare tra redditi di fonte straniera e redditi di fonte interna quando esercitano la competenza fiscale sui primi; e 2), laddove agiscano in base alla loro giurisdizione di Stato fonte, gli Stati membri non devono discriminare tra redditi dei residenti e redditi dei non residenti, quando esercitino la giurisdizione fiscale sui primi (77). Chiari esempi in tal senso sono costituiti dalle cause Verkooijen e Manninen, in cui la Corte ha sostanzialmente confermato l’obbligo di non discriminazione incombente allo Stato di residenza allorché ha respinto gli argomenti dei governi olandese e finlandese in quanto non esisteva un legame sufficiente tra il vantaggio fiscale (rispettivamente, esenzione e credito) e l’imposta versata (che, in quanto afferente a redditi di fonte estera, era stata pagata in un altro Stato membro) (78). Del pari, nella sentenza Marks & Spencer, la Corte ha essenzialmente espresso i limiti dell’obbligo di non discriminazione (dello Stato di residenza): dato che il Regno Unito non esercitava giurisdizione fiscale sulle controllate non residenti di capogruppo britanniche, era coerente, in linea di principio, che esso non consentisse alla capogruppo britannica di dedurre le perdite di tali controllate (79). Eventuali «restrizioni» all’attività transfrontaliera derivanti da tali limitazioni alla deduzione delle perdite costituirebbero il risultato non di una discriminazione, bensì di quasi-restrizioni.

90.      In quei casi, pertanto, il giudizio sull’applicabilità della «giustificazione per motivi di coerenza fiscale», di fatto, non si distingueva concettualmente dalla valutazione relativa al carattere discriminatorio della normativa nazionale. Nella grande maggioranza dei casi, quindi, si potrebbe effettivamente dubitare che la giustificazione per motivi di «coerenza fiscale» abbia una distinta funzione utile.

91.      Ritengo che, nella fattispecie ora in esame, l’applicazione del ragionamento fondato sulla coerenza fiscale conduca esattamente alla stessa conclusione esposta in precedenza con riguardo alla giustificazione per motivi legati alla prevenzione degli illeciti. Pertanto, se pure, in linea di massima, il Regno Unito può legittimamente tentare di far valere, impedendone gli illeciti, le regole tributarie applicabili nell’ambito della propria giurisdizione fiscale (cioè la distinzione, ai fini del trattamento fiscale, tra interessi e distribuzioni di utili) basate sul principio della ripartizione in base alle normali condizioni di mercato, esso può farlo però solo in maniera proporzionata.

4.      Conclusione sulla prima questione

92.      Per tali motivi, ritengo che la prima questione del giudice nazionale debba essere risolta nel senso che l’art. 43 CE non osta a che vengano mantenute in vigore e applicate disposizioni fiscali nazionali quali quelle britanniche in discussione nel caso di specie, che impongono restrizioni basate sul criterio delle normali condizioni di mercato alla possibilità per una controllata, con sede nel Regno Unito, di dedurre ai fini fiscali gli interessi su prestiti concessi da una capogruppo che ne detenga il controllo direttamente o indirettamente, quando la controllata non sarebbe soggetta a tali restrizioni se la capogruppo avesse sede nel Regno Unito, purché 1) sia comunque possibile per una controllata dimostrare, senza oneri indebiti, che l’operazione sia stata effettivamente compiuta per reali motivi commerciali diversi dal conseguimento di un vantaggio fiscale e 2) il Regno Unito garantisca il reciproco riconoscimento da parte dello Stato di residenza della capogruppo di ogni riqualificazione, da parte del Regno Unito, degli interessi pagati dalla controllata.

C –    Sulla seconda questione

93.      Con la seconda questione, il giudice nazionale chiede, in sostanza, se la soluzione della prima questione sarebbe diversa qualora il prestito fosse stato concesso alla controllata con sede nel Regno Unito non direttamente dalla sua capogruppo, ma da una società mutuante intermedia appartenete allo stesso gruppo e tale società mutuante e/o la capogruppo avessero sede non in un altro Stato membro, bensì in un paese terzo.

94.      Come ho osservato in precedenza, la normativa britannica controversa, dal momento che si applica solo a situazioni in cui una società esercita un sicura influenza sulle decisioni di un’altra società ai sensi della giurisprudenza della Corte, dev’essere valutata esclusivamente sotto il profilo della compatibilità con l’art. 43 CE. Il divieto sancito da tale disposizione pertinente ai presenti fini è il divieto di restrizioni alla costituzione di controllate da parte di società costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno della Comunità (80).

95.      Ciò significa, a mio parere, che se la società direttamente o indirettamente capogruppo – il cui diritto di stabilimento viene assertivamente limitato – ha sede in uno Stato membro (diverso dal Regno Unito), si applica l’art. 43 CE (e l’analisi svolta in precedenza). La possibilità che la società mutuante intermedia effettivamente erogante il prestito abbia sede in un paese terzo è irrilevante rispetto a tale conclusione. Pertanto, nelle ipotesi di cui alla seconda questione, sub a) (capogruppo e società mutuante aventi entrambe sede in un altro Stato membro), l’analisi è esattamente la stessa svolta con riguardo alla prima questione.

96.      Se, invece, la società direttamente o indirettamente capogruppo ha sede in un paese terzo, in linea di principio non è applicabile l’art. 43 CE, neanche qualora il prestito venga erogato tramite un’altra società del gruppo avente sede in un altro Stato membro. Di conseguenza, nell’ipotesi di cui alla seconda questione, sub d), (capogruppo e società mutuante aventi entrambe sede in paesi terzi), l’art. 43 CE non trova applicazione (né alcun’altra disposizione del Trattato in materia di libera circolazione).

97.      Sussisterebbe un’eccezione a quanto precede laddove la società mutuante esercitasse essa stessa una sicura influenza sulle decisioni della controllata britannica (cioè, laddove la società britannica fosse di fatto controllata dalla società mutuante) e la normativa britannica avesse comportato una discriminazione nei confronti della controllata britannica fondata sul luogo in cui è situata la società mutuante. In tal caso, la presunta restrizione riguarderebbe il diritto di stabilimento della società mutuante, e non quello della capogruppo di un paese terzo. Pertanto, nelle ipotesi di cui alla seconda questione, sub b) e c) (società mutuante con sede in un altro Stato membro e capogruppo con sede in un paese terzo), l’analisi svolta in precedenza relativamente all’art. 43 CE si applica solo se la società mutuataria britannica è controllata dalla società mutuante. Ciò vale a prescindere dalla distinzione formulata nella seconda questione, sub c) (prestito erogato da una filiale di un paese terzo della capogruppo avente sede in uno Stato membro), sempreché la società mutuante soddisfi le condizioni per l’applicazione dell’art. 43 CE indicate nell’art. 48 CE (cioè sia costituita conformemente alla legislazione di uno Stato membro e abbia la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno della Comunità).

98.      Per tali motivi, la seconda questione sollevata dal giudice nazionale dev’essere risolta nel senso che l’art. 43 CE, e l’analisi che ho svolto nell’ambito della soluzione della prima questione, si applicano quando a) il prestito venga erogato da una società mutuante e non direttamente dalla capogruppo, qualora entrambe le società abbiano sede in uno Stato membro diverso dal Regno Unito; e b) la società mutuante abbia sede in uno Stato membro diverso dal Regno Unito e la società mutuataria sia una controllata della società mutuante, anche qualora la loro capogruppo comune abbia sede in un paese terzo o la società mutuante eroghi il prestito tramite una filiale situata in un paese terzo. L’art. 43 CE non si applica invece qualora a) la società mutuante abbia sede in uno Stato membro diverso dal Regno Unito, la società mutuataria non sia controllata dalla società mutuante e la loro capogruppo comune abbia sede in un paese terzo; e b) la società mutuante e tutte le società comuni direttamente o indirettamente capogruppo della società mutuante e della società mutuataria abbiano sede in paesi terzi.

D –    Sulla terza questione

99.      Con la terza questione, il giudice nazionale chiede se la soluzione della prima e della seconda questione sarebbe diversa se si potesse dimostrare che il prestito costituisse un illecito o rientrasse in un accordo fittizio volto ad eludere la legislazione fiscale dello Stato membro della società mutuataria. Avendo risolto tale questione nell’ambito dell’analisi della prima questione e, in particolare, nella parte relativa all’applicabilità della giustificazione legata alla prevenzione degli illeciti addotta dal Regno Unito, confermo la soluzione precedentemente indicata.

E –    Sulla quarta questione

100. Con la quarta questione, il giudice nazionale chiede se, nel caso in cui venga accertata una restrizione alla circolazione di capitali tra Stati membri e paesi terzi nell’ambito della previsione di cui all’art. 56 CE, tale restrizione esistesse al 31 dicembre 1993 ai fini dell’art. 57 CE. Avendo già risolto tale questione nella precedente sezione V.A, in cui ho concluso che la normativa britannica dev’essere esaminata solo sotto il profilo della compatibilità con l’art. 43 CE, e non con gli artt. 49 o 56 CE, confermo la soluzione già indicata.

F –    Sulle questioni 5-10

101. Le questioni 5-10 dell’ordinanza di rinvio sollevano problemi relativi alla natura dei rimedi di cui dovrebbero disporre le controllate con sede nel Regno Unito o le altre società dello stesso gruppo nel caso le norme britanniche controverse fossero in contrasto con le norme comunitarie menzionate in tali questioni.

102. Dalla mia soluzione della prima questione discende che il problema dei rimedi si porrebbe solo in circostanze relativamente limitate, in quanto la normativa britannica, a mio parere, è ampiamente conforme all’art. 43 CE. Pertanto, il problema dei rimedi sorge solo nei casi in cui 1) un contribuente possa dimostrare che i pagamenti riqualificati dal Regno Unito in base alla detta normativa sono stati effettuati per autentici motivi commerciali diversi dal conseguimento di un vantaggio fiscale; 2) per quanto riguarda le situazioni disciplinate dalla normativa applicabile fino al 1995, non esistesse alcuna CDI contenente un riferimento al criterio delle normali condizioni di mercato e il contribuente possa dimostrare che i pagamenti riqualificati dal Regno Unito in base a detta normativa sarebbero stati conformi a tale criterio o che sono stati effettivamente effettuati per autentici motivi commerciali diversi dal conseguimento di un vantaggio fiscale; o 3) non esistesse un reciproco riconoscimento, da parte dello Stato membro della società capogruppo, della riqualificazione del pagamento effettuata dal Regno Unito e ciò avesse determinato una doppia imposizione sul pagamento che non si sarebbe altrimenti verificata.

103. Data la scarsa probabilità del verificarsi di queste circostanze, ed avendo esaminato questioni molto simili nelle conclusioni nella causa Test Claimants in the FII Group Litigation (81), non mi dilungherò nella soluzione di tali questioni.

104. Come ho osservato nelle mie conclusioni nella causa FII (82), è giurisprudenza costante della Corte che il diritto di ottenere il rimborso delle somme riscosse da uno Stato membro in violazione di norme del diritto comunitario costituisce la conseguenza e il complemento dei diritti attribuiti agli amministrati dalle disposizioni comunitarie nell’interpretazione loro data dalla Corte. Lo Stato membro è quindi tenuto, in via di principio, a rimborsare i tributi riscossi in violazione del diritto comunitario (83). In mancanza di una disciplina comunitaria in materia di ripetizione di somme indebitamente riscosse, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità dei ricorsi intesi a garantire la tutela de diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario, purché le dette modalità, da un lato, non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) né, dall’altro, rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (84).

105. La questione sollevata nella specie è esattamente identica a quella ogggeto della causa FII, vale a dire se le azioni dei ricorrenti debbano essere qualificate come domande di restituzione o di rimborso, domande di risarcimento o domande per il pagamento di una somma rappresentante un beneficio indebitamente negato.

106. Nella suddetta causa ho rilevato (richiamandomi alla sentenza Metallgesellschaft) che, in via di principio, spetta al giudice nazionale decidere come debbano essere qualificate nel diritto interno le varie domande di cui deve conoscere. Tuttavia, ciò è subordinato alla condizione per cui tale qualifica dev’essere tale che le ricorrenti nel caso pilota dispongano di un mezzo di ricorso effettivo per ottenere il rimborso o il risarcimento economico delle perdite da esse sofferte, a vantaggio delle autorità dello Stato membro interessato, in seguito al pagamento anticipato delle imposte (85). Tale obbligo implica che il giudice nazionale, nel qualificare le azioni ai sensi del diritto nazionale, deve tenere conto del fatto che in una determinata fattispecie potrebbero non sussistere le condizioni per ottenere un risarcimento menzionate nella sentenza Brasserie du Pêcheur e, in tal caso, garantire che esista comunque un mezzo di ricorso effettivo.

107. Applicando tali criteri nella specie, ritengo che i rimedi richiesti dalle ricorrenti nei casi pilota debbano essere valutati alla luce dei principi stabiliti dalla giurisprudenza della Corte in materia di recupero di somme illegittimamente riscosse; pertanto, il Regno Unito non deve trarre alcun vantaggio e le società (o i gruppi di società) che sono state obbligate a pagare somme non dovute non devono subire una perdita per effetto dell’imposizione del tributo (86). Di conseguenza, affinché i mezzi di ricorso concessi alle ricorrenti nei casi pilota consentano effettivamente di ottenere il rimborso o il risarcimento della perdita finanziaria subita, in favore delle autorità dello Stato membro di cui trattasi, ritengo che tale rimedio debba estendersi a tutte le conseguenze dirette del prelievo fiscale illegittimo. A prima vista, ritengo che ciò comporti 1) il rimborso dell’imposta sulle società illegittimamente riscossa (sesta questione, sub a), b), c) e d)); 2) il ripristino del rimedio utilizzato per compensare l’imposta illegittimamente riscossa (sesta questione, sub e)); e 3) il rimborso degli anticipi sull’imposta sulle società non utilizzati, versati sui pagamenti erroneamente riqualificati come distribuzioni. Desidero sottolineare, tuttavia, che spetta al giudice nazionale accertare che il rimedio richiesto fosse diretta conseguenza dell’imposta illegittimamente riscossa.

108. Rilevo inoltre che, nella causa FII, che riguardava il trattamento fiscale dei dividendi esteri da parte del Regno Unito, ho espresso seri dubbi sulla questione se le condizioni stabilite dalla sentenza Brasserie du Pêcheur (87) – e in particolare quella dell’esistenza di una violazione sufficientemente grave – fossero soddisfatte con riguardo agli aspetti del regime britannico che risultavano incompatibili con il diritto comunitario. Sotto questo aspetto, nutro dubbi ancora più forti nella presente causa. L’applicabilità dell’art. 43 CE alla normativa sulla piccola capitalizzazione è stata confermata dalla Corte solo nel 2002 con la sentenza Lankhorst-Hohorst (88), e anche dopo tale sentenza la portata di tale applicabilità non è stata del tutto chiara. Inoltre, il Regno Unito ha modificato la sua legislazione in varie occasioni, rendendo più trasparente l’applicazione della sua normativa, e apparentemente, nel caso delle modifiche del 2004, tenendo conto della compatibilità con il diritto comunitario. Ciò non mi sembra sufficiente per costituire una grave e palese violazione dei limiti della propria discrezionalità ai sensi della giurisprudenza.

109. Infine, in risposta alla decima questione del giudice nazionale, concernente la rilevanza del fatto che le persone danneggiate abbiano dato prova di una ragionevole diligenza per limitare le proprie perdite, rilevo che, come ha dichiarato la Corte nella sentenza Metallgesellschaft e in linea con il principio generale dell’autonomia procedurale nazionale, domande come quelle oggetto delle cause principali sono soggette alle norme di procedura nazionali, che possono in particolare imporre alle ricorrenti di agire con ragionevole diligenza al fine di evitare il danno o di limitarne l’entità (89). Anche in questo caso, tuttavia, ciò è subordinato al principio secondo cui le norme procedurali devono essere equivalenti a quelle che disciplinano analoghe azioni nazionali e non devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio di diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario. Nella sentenza Metallgesellschaft, ad esempio, la Corte ha dichiarato che il principio di effettività non sarebbe soddisfatto qualora un giudice nazionale respingesse o riducesse una domanda di rimborso o di risarcimento delle perdite finanziarie subite per il solo motivo che le ricorrenti non hanno chiesto all’amministrazione fiscale di beneficiare di un determinato regime fiscale facendo valere direttamente i diritti loro conferiti dal diritto comunitario, anche se la normativa nazionale negava loro «comunque» il beneficio di tale regime fiscale. A tal proposito, rilevo che dall’ordinanza di rinvio non emerge chiaramente se la normativa nazionale in discussione nella presente causa, in combinato disposto con le convenzioni in materia di doppia imposizione applicabili, avrebbe comunque condotto a concludere che non erano applicabili le restrizioni menzionate nella prima questione. Spetta al giudice nazionale accertare se la norma procedurale controversa fosse effettivamente conforme ai principi di effettività e di equivalenza.

110. Ritengo quindi che le questioni 5-10 debbano essere risolte nel senso che, in mancanza di disposizioni comunitarie sul rimborso di imposte indebitamente versate, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario, compresa la qualifica delle domande presentate dai ricorrenti al giudice nazionale. Tuttavia, nell’esercizio di tale potere, i giudici nazionali devono garantire che i ricorrenti dispongano di rimedi giuridici effettivi per ottenere il rimborso o il risarcimento della perdita finanziaria sofferta in diretta conseguenza dell’imposta riscossa in violazione del diritto comunitario.

G –    Sulla limitazione nel tempo degli effetti della sentenza

111. Nelle sue osservazioni scritte, il Regno Unito ha chiesto che la Corte, nel caso dovesse dichiarare che, nella fattispecie, esso ha violato il diritto comunitario, voglia prendere in considerazione la possibilità di limitare nel tempo gli effetti della sentenza. Il Regno Unito afferma che i costi potenziali di una sentenza sfavorevole potrebbero ammontare a EUR 300 milioni, dato il gran numero di ricorrenti coinvolte nel procedimento. Inoltre, il Regno Unito chiede che le ricorrenti nei casi pilota della presente causa non siano esentate dall’effetto di un’eventuale limitazione temporale.

112. A tale proposito, è sufficiente rilevare che il carattere estremamente limitato delle circostanze in cui la normativa britannica ha violato l’art. 43 CE, come ho osservato in precedenza, implica che, probabilmente, gli importi interessati dalla sentenza sarebbero molto inferiori a quelli stimati dal Regno Unito. In ogni caso, come ho rilevato nelle mie conclusioni nella causa FII, spetta al Regno Unito, allorché chiede una limitazione temporale, garantire che la Corte disponga di informazioni sufficienti per pronunciarsi sulla questione. Per motivi analoghi a quelli che ho esposto in quella causa – nella quale, oltre tutto, il Regno Unito aveva sollevato la questione della limitazione temporale solo durante la fase orale del procedimento, senza spiegare come fosse pervenuto alla stima dei costi del procedimento e senza dedurre argomenti in merito alla data limite proposta per gli effetti della sentenza – la Corte dovrebbe respingere la domanda.

VI – Conclusione

113. Per tali motivi, suggerisco alla Corte di risolvere le questioni sottopostele dalla High Court of Justice of England and Wales, Chancery Division, nei termini seguenti:

–        L’art. 43 CE non osta a che vengano mantenute in vigore e applicate disposizioni fiscali nazionali, come quelle in discussione nel caso di specie, che impongono restrizioni, basate sul criterio delle normali condizioni di mercato alla possibilità per una controllata con sede nel Regno Unito di dedurre ai fini fiscali gli interessi su prestiti concessi da una capogruppo che ne detenga, direttamente o indirettamente il controllo, quando la controllata non sarebbe soggetta a tali restrizioni se la capogruppo avesse sede nel Regno Unito, purché 1) sia comunque possibile per una controllata dimostrare, senza oneri indebiti, che l’operazione sia stata effettivamente compiuta per autentici motivi commerciali diversi dal conseguimento di un vantaggio fiscale e 2) il Regno Unito garantisca il reciproco riconoscimento da parte dello Stato di residenza della capogruppo di ogni riqualifica, da parte del Regno Unito, degli interessi pagati dalla controllata.

–        l’art. 43 CE, e la suesposta analisi, si applicano quando a) il prestito venga erogato da una società mutuante e non direttamente dalla capogruppo, qualora entrambe le società abbiano sede in uno Stato membro diverso dal Regno Unito; e b) la società mutuante abbia sede in uno Stato membro diverso dal Regno Unito e la società mutuataria sia una controllata della società mutuante, anche qualora la loro capogruppo comune abbia sede in un paese terzo o la società mutuante eroghi il prestito tramite una filiale situata in un paese terzo. L’art. 43 CE non si applica, invece, qualora a) la società mutuante abbia sede in uno Stato membro diverso dal Regno Unito, la società mutuataria non sia controllata dalla società mutuante e la loro capogruppo comune abbia sede in un paese terzo; e b) la società mutuante e tutte le società comuni direttamente o indirettamente capogruppo della società mutuante e della società mutuataria abbiano sede in paesi terzi.

–        In mancanza di disposizioni comunitarie sul rimborso di imposte indebitamente versate, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario, compresa la qualifica delle domande presentate dai ricorrenti al giudice nazionale. Tuttavia, nell’esercizio di tale potere, i giudici nazionali devono garantire che i ricorrenti dispongano di rimedi giuridici effettivi per ottenere il rimborso o il risarcimento della perdita finanziaria sofferta in diretta conseguenza dell’imposta riscossa in violazione del diritto comunitario.


1 – Lingua originale: l’inglese.


2 – Sentenza 12 dicembre 2002, causa C-324/00, Lankhorst-Hohorst (Racc. pag. I-11779); causa C-196/04, Cadbury Schweppes, ancora pendente (v. conclusioni presentate in tale causa dall’avvocato generale Léger il 2 maggio 2006).


3 – Nella Comunità, la direttiva del Consiglio 23 luglio 1990, 90/435/CEE, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi (GU L 225, pag. 6), vieta la ritenuta alla fonte sui dividendi versati da una controllata alla propria capogruppo.


4 – Mentre il tenore del TA e dei relativi emendamenti fanno riferimento, in generale, alla prestazione di garanzie al mutuante da parte del mutuatario, anziché utilizzare espressioni indicanti l’erogazione di un prestito, nelle presenti conclusioni, a fini di semplicità espositiva, farò riferimento alla concessione di un prestito a un mutuatario da parte di un mutuante.


5 – Art. 14 del TA.


6 – Art. 788, n. 3, del TA.


7 – Introdotto dall’art. 52 del Finance Act (n. 2) 1992.


8 – Detta disposizione si applica quando il prestito in tutto o in parte «costituisce un importo che non sarebbe stato dovuto all’altra società se tra le società non fosse intercorso (tranne per quanto riguarda la prestazione di garanzie in questione) alcun rapporto, accordo o legame (di natura formale o informale), salvo per l’eventuale parte della distribuzione che non rappresenta tale importo o costituisce una distribuzione ai sensi della lett. d) o un importo corrispondente al capitale garantito» (art. 209, n. 2), da), punto ii)).


9 – L’art 209, n. 8 A, lett. b), dispone che, al fine di stabilire se si applichino i fattori per la qualifica come distribuzione di cui all’art. 209, n. 8 B, non si devono prendere in considerazione rapporti, accordi o legami (diversi da quello tra il mutuante e il mutuatario) salvo che la persona considerata i) non abbia alcun rapporto rilevante (come definito all’art. 209, n. 8 C) con il mutuatario e ii) sia una società appartenente allo stesso gruppo britannico (come definito all’art. 209, n. 8 D) del mutuatario.


10 – Allegato 28 AA, n. 1, punto 1), lett. b).


11 – Allegato 28 AA, n. 1, punto 2). Conformemente all’allegato 28AA, n. 5, del TA, tale condizione era soddisfatta in concreto se l’effetto della provvista effettuata o imposta sarebbe consistito in una riduzione dell’importo degli utili imponibili della persona considerata in un periodo d’imposta e/o in un aumento delle perdite della persona considerata in un periodo d’imposta.


12 – Allegato 28 AA, n. 5, punto 3), lett. b), del TA.


13 – Allegato 28 AA, n. 5, punto 3), lett. c), del TA.


14 – In forza di eventuali accordi in materia di doppia imposizione o dell’art. 790, n. 1, del TA.


15 – Allegato 28 AA, n. 5, punto 4), del TA.


16 – Sentenza Lankhorst-Hohorst, citata alla nota 2.


17 – Per l’intero periodo di riferimento, la Financière Lafarge ha posseduto oltre il 75% delle azioni emesse dalla Lafarge Building Materials.


18 – Direttiva del Consiglio 24 giugno 1988, 88/361/CEE, per l’attuazione dell’articolo 67 del trattato (GU L 178, pag. 5).


19 – Sentenza 13 aprile 2000, causa C-251/98, Baars (Racc. pag. I-2787, punto 22). Benché detta causa riguardasse un azionista cittadino di uno Stato membro, e non una società, il principio si applica del pari alle società stabilite nello Stato membro in questione. V. anche art. 58, n. 2, CE, secondo cui le disposizioni relative alla libera circolazione dei capitali «non pregiudicano l’applicabilità di restrizioni in materia di diritto di stabilimento compatibili con il presente trattato».


20 – V. art. 209, n. 2, da, del TA.


21 – Allegato 28 AA, n. 1, punto 1, lett. b), del TA.


22 – V. anche art. 4, n. 1, della Convenzione di arbitrato, secondo cui una condizione per l’applicazione delle norme sui prezzi di trasferimento ivi contenute consiste nella partecipazione diretta o indiretta di un’impresa di uno Stato membro nella gestione, nel controllo o nel capitale di un’impresa di un altro Stato membro, e nella partecipazione diretta o indiretta da parte delle stesse persone nella gestione, nel controllo o nel capitale di un’impresa di uno Stato e di una di un altro Stato. V. del pari, art. 9, n. 1, del Modello per le Convenzioni fiscali sul reddito e sul patrimonio dell’OCSE, Parigi, 1977, come riveduto.


23 – V. ad esempio, sentenza 4 dicembre 1986, causa 205/84, Commissione/Germania (Racc. pag. 3755).


24 – Sentenza 14 novembre 1995, causa C-484/93, Svensson e Gustavsson (Racc. pag. I-3955).


25 – Sentenza Baars, citata alla nota 19, punto 26. V. anche le mie conclusioni nelle cause riunite C-515/99 e da C-527/99 a C-540/99, Reisch (Racc. pag. I-2157, paragrafo 59).


26 – V. ad es. sentenza 13 dicembre 2005, causa C-446/03, Marks & Spencer (Racc. pag. I-0000, punto 29 e giurisprudenza ivi citata).


27 – V. le mie conclusioni presentate il 23 febbraio 2006 nella causa C-374/04, Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation (Racc. pag. I-0000, paragrafi 32 e segg.), il 6 aprile 2006 nella causa C-446/04, Test Claimants in the FII Group Litigation (Racc. pag. I-0000, paragrafi 37 e segg.), e nella causa C-513/04, Kerckhaert e Morres (Racc. pag. I-0000, paragrafi 18 e 19), e il 27 aprile 2006 nella causa C-170/05, Denkavit (Racc. pag. I-0000, paragrafo 20).


28 – Per un’analisi approfondita sul punto v. le mie conclusioni nella causa Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation, citata alla nota 27, paragrafi 31-54.


29 – Ibid., paragrafo 55; v. anche le mie conclusioni nella causa Denkavit, citata alla nota 27, paragrafo 27.


30 – Art. 209, n. 2, lett. d), del TA.


31 – Art. 209, n. 2, lett. e), punto iv), del TA.


32 – Art. 209, n. 2, da, del TA.


33 – Art. 212, nn. 1 e 3, del TA, come modificato.


34 – Allegato 28AA del TA.


35 – Allegato 28 AA, n. 5, punto 2, del TA.


36 – V., ad es., sentenze 8 marzo 2001, cause riunite C-397/98 e C-410/98, Metallgesellschaft (Racc. pag. I-1727, punti 43 e 44), e Lankhorst-Hohorst, citata alla nota 2, punti 27-32.


37 – Sentenza 24 novembre 1993, cause riunite C-267/91 e C-268/91, Keck e Mithouard (Racc. pag. I-6097).


38 – Conclusioni nella causa ACT, citata alla nota 27, paragrafi 22 e segg.


39 – Sentenza 12 maggio 1998, causa C-336/96 (Racc. pag. I-2793).


40 – Conclusioni nella causa ACT, citata alla nota 27, paragrafi 48-54.


41 – Sentenze Gilly, citata alla nota 39, e 5 luglio 2005, causa C-376/03, D (Racc. pag. I-0000).


42 – V., ad es., le mie conclusioni nelle cause Kerkhaert e Morres, citata alla nota 27, paragrafo 37, e Denkavit, citata alla nota 27, paragrafo 43.


43 – Conclusioni nella cause ACT, citata alla nota 27, paragrafi 70 e segg., e Denkavit, citata alla nota 27, paragrafi 33 e segg.


44 – V. ad es. sentenza 29 aprile 1999, causa C-311/97, Royal Bank of Scotland (Racc. pag. I-2651 e giurisprudenza ivi citata).


45 – V. sentenza Marks & Spencer, citata alla nota 26, punto 35.


46 – Sentenza 28 gennaio 1992, causa C-204/90 (Racc. pag. I-249).


47 – Sentenza 16 luglio 1998, causa C-264/96 (Racc. pag. I-4695).


48 – Sentenza Marks & Spencer, citata alla nota 26, punti 49 e 50.


49 – Sentenze Lankhorst-Hohorst, citata alla nota 2, 21 novembre 2002, causa C-436/00, X e Y (Racc. pag. I-10829), e ICI, citata alla nota 47.


50 – Sentenze 17 luglio 1997, Leur-Bloem, causa C-28/95, (Racc. pag. I-4161), e 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax (Racc. pag. I-0000). V. anche sentenze 12 maggio 1998, causa C-367/96, Kefalas (Racc. pag. I-2843), e 14 dicembre 2000, causa C-110/99, Emsland-Stärke (Racc. pag. I-11569).


51 – V., ad es., sentenza della Corte nella causa Halifax, citata alla nota 50, punto 73. V. anche sentenza della Corte 26 ottobre 1999, causa C-294/97, Eurowings (Racc. pag. I-7447): «Un’eventuale agevolazione fiscale risultante, in capo a prestatori di servizi, dalla fiscalità poco elevata alla quale vengano assoggettati nello Stato membro nel quale sono stabiliti non può consentire ad un altro Stato membro di giustificare un trattamento fiscale meno favorevole dei destinatari dei servizi stabiliti in quest’ultimo Stato (…) Come ha giustamente osservato la Commissione, simili prelievi fiscali compensatori minerebbero le fondamenta stesse del mercato interno» (punti 44 e 45).


52 – V., in particolare le dichiarazioni della Corte nelle sentenze Lankhorst-Hohorst, citata alla nota 2, e ICI, citata alla nota 47


53 – V. conclusioni dell’avvocato generale Léger nella causa Cadbury Schweppes, citata alla nota 2, paragrafi 53 e 56. V. anche sentenza X e Y, citata alla nota 49, punto 62.


54 – V. conclusioni dell’avvocato generale Léger nella causa Cadbury Schweppes, citata alla nota 2, paragrafo 54.


55 – V. sentenza della Corte nella causa Halifax, citata alla nota 50, punto 86.


56 – Si può distinguere la presente fattispecie da casi come quello oggetto della sentenza Kefalas, citata alla nota 50, punti 26 e segg., in cui la Corte ha dichiarato che l’applicazione di una presunzione di abuso, in quanto il contribuente non aveva esercitato una determinata azione, era contraria al diritto comunitario (in quella causa si trattava dell’esercizio di un diritto di opzione in forza dell’art. 29, n. 1, della seconda direttiva del Consiglio 13 dicembre 1976, 77/91/CEE, intesa a coordinare, per renderle equivalenti, le garanzie che sono richieste, negli Stati membri, alle società di cui all’articolo 58, secondo comma, del Trattato, per tutelare gli interessi dei soci e dei terzi per quanto riguarda la costituzione della società per azioni, nonché la salvaguardia e le modificazioni del capitale sociale della stessa; GU 1977, L 26, pag. 1). In questi casi, il fattore da cui trae origine la presunzione non può essere considerato – a differenza del criterio delle normali condizioni di mercato nella presente causa – un fattore obiettivo in base al quale possa valutarsi se lo scopo essenziale dell’operazione considerata consista nel conseguire un vantaggio fiscale.


57 – Sentenza Halifax, citata alla nota 50, punti 74 e 75.


58 – Sentenza Lankhorst-Hohorst, citata alla nota 2.


59 – V. sentenza Leur-Bloem, citata alla nota 50, punto 41.


60 – Un esempio è dato dall’estensione delle norme tedesche sulla piccola capitalizzazione a situazioni meramente interne in seguito alla sentenza Lankhorst-Hohorst, citata alla nota 2.


61 – V. mie conclusioni nelle cause ACT, citata alla nota 27, paragrafi 71 e segg., e Denkavit, citata alla nota 27, paragrafi 33 e segg.


62 – V. ad es., conclusioni nella causa Denkavit, citata alla nota 27, paragrafo 43.


63 – Sentenza Lankhorst-Hohorst, citata alla nota 2, punto 3.


64 – Art. 209, n. 2, lett. e), punti iv) e v), del TA.


65 – Ad esempio, le convenzioni sulla doppia imposizione stipulate con il Lussemburgo, la Germania, la Spagna e l’Austria.


66 – Ad esempio, le convenzioni sulla doppia imposizione stipulate con i Paesi Bassi, la Francia, l’Irlanda e l’Italia.


67 – Art. 808 A, n. 2, del TA.


68 – Art. 209, n. 2), da, del TA.


69 – Art. 209, n. 2, da), punto ii), del TA.


70 – Art. 212, nn. 1 e 3, del TA.


71 – Sentenza Bachmann, citata alla nota 46 (v. anche la sentenza parallela 28 gennaio 1992, causa C-300/90, Commissione/Belgio, Racc. pag. I-305, relativa a questioni molto simili).


72 – Sentenza 6 giugno 2000, causa C-35/98 (Racc. pag. I-4071, punto 58).


73 – Sentenze Baars, citata alla nota 19, e 18 settembre 2003, causa C-168/01, Bosal (Racc. pag. I-9409).


74 – Sentenze 7 settembre 2004, causa C-319/02 (Racc. pag. I-7477), e Marks & Spencer, citata alla nota 26.


75 – Sentenza Manninen, citata alla nota 74, punto 46.


76 – Sentenza Marks & Spencer, citata alla nota 26, punto 46.


77 – V. nota 27.


78 – Sentenze Verkooijen, citata alla nota 72, e Manninen, citata alla nota 74.


79 – Sentenza Marks & Spencer, citata alla nota 26.


80 – V. art. 48 CE.


81 – Conclusioni nella causa FII, citata alla nota 27, paragrafi 125 e segg.


82 – Ibid., paragrafo 126 e giurisprudenza ivi citata.


83 – Ibid., e giurisprudenza ivi citata.


84 – Conclusioni nella causa FII, citata alla nota 27, paragrafo 127 e giurisprudenza ivi citata.


85 – Sentenza Metallgesellschaft, citata alla nota 36, punto 96.


86 – V. conclusioni dell’avvocato generale Fennelly nella causa Metallgesellschaft, citata alla nota 36, paragrafo 45.


87 – Sentenza 5 marzo 1996, cause riunite C-46/93 e C-48/93 (Racc. pag. I-1029).


88 – Sentenza Lankhorst-Hohorst, citata alla nota 2.


89 – Sentenza Metallgesellschaft, citata alla nota 36, punto 102.